Luisa Bolleri
Involuzione della specie
Non ho la capacità che appartiene agli autori che scrivono recensioni di
un certo peso e stile. Ho letto la prefazione di Alessandro Vergari e la
recensione di Martino Ciano e mi sono
sentita inadeguata nel volermi cimentare in quella che non posso definire
recensione, ma piuttosto da questa silloge ho raccolto alcune mie impressioni. Tenterò di esprimere
quanto ho provato nel leggere e rileggere le poesie di Luisa contenute in
questa sua raccolta poetica.
Sento un grido soffocato, un dolore profondo per le atrocità che si
commettono ogni giorno su questo Pianeta. Avverto urla di disperazione, a causa
di guerre che si ripetono, di violenze inaudite, di sopraffazione, di fame, di
vite trascinate a stento, d’incapacità ad Amare. Maiuscolo. Perché oggi questo
verbo è inflazionato, non rispecchia più il reale significato. L’Amore vero è
altra cosa, maiuscolo appunto.
Dice bene l’autrice, quando non ci si sofferma a pensare che in fondo
siamo polvere, che alla fine del tunnel non c’è luce, ma il buio della morte. E
allora, perché turarsi le orecchie per non sentire i lamenti del mondo, e voler
ignorare quanta sofferenza c’è per molti, e anche dentro di noi, perché no?
La specie umana si è involuta, invece di volare alto, tende a rasentare
il suolo, come un viscido serpente. Eppure l’uomo si crede un dio. Quale dio?
Se gli somigliasse almeno un poco, si sarebbe alzato sopra le miserie umane,
avrebbe steso una mano amica a chi chiede aiuto, avrebbe tralasciato la sua
corsa al successo, all’effimero, al denaro, per realizzare qualcosa di grande
per tutti, non solo per se stesso.
Memento mori. Con questo pensiero, inciso nel
cuore e nella mente dell’uomo, egli avrebbe potuto trasformare il mondo in un
giardino felice, invece che in una palude dove chi cerca la salvezza, annega
nel Mare Nostrum. Avrebbe evitato di costruire bombe atomiche e chimiche, per
poi farle esplodere su piccoli innocenti. Non violerebbe le donne e i bambini,
avrebbe rispetto per ogni vita, ivi compresa quella delle piante e degli
animali. Non avrebbe appiccato incendi dolosi, costruito ponti fatiscenti che
finiscono col crollare. No, Luisa non ha scritto solo di questo, ma nell’urlo
delle sue poesie ho letto anche altro. La sua scrittura tocca nel profondo per
la sensibilità con cui tratta alcuni argomenti, con uno stile che le è proprio,
che somiglia, in questa raccolta, a una trenodia. È pianto funebre, atto ad
accompagnare il decadimento della coscienza umana, allora la voce del poeta s’innalza
sopra il brusìo delle inutili chiacchiere, come il canto appassionato di Rafael
Alberti, quando scriveva contro le guerre: “Una
sirena urta contro una mina e un arcangelo annega, indifferente”. Oppure
quando scrive la Balada para los poetas andaluces de hoy parla del presente di allora, dei poeti andalusi di quell'oggi che si
ritrovavano soli, dopo che i loro predecessori, uomini liberi, erano stati
distrutti, annientati, esiliati dalla dittatura franchista. Una poesia dove la
libertà si scontra con il deserto, con la solitudine. I poeti esistono ancora,
ma che cosa cantano, che cosa vedono, che cosa sentono? Cantano, vedono e
sentono con voce di uomini, ma gli uomini non ci sono più. Sono soli.
In questo essere soli, si rispecchia anche Luisa. Una solitudine
interiore, che ho riscontrato sia tra le liriche dell’autrice che in quelle del
poeta catalano. Entrambi innalzano un triste canto, contro le brutture di una
società che ha perso il vero senso della libertà di esprimersi, di guardare con
occhi pietosi quanto accade nel mondo. Luisa è grande, scrive e descrive con
penna di grande talento i suoi sentimenti, e quegli stessi li trasmette anche a chi
legge.
Danila Oppio
Nessun commento:
Posta un commento