TEATRO E VISIONE
L’etimologia di “teatro” è legata al “guardare”;
uno sguardo sui pozzi astrali o tellurici da cui proveniamo. La VISIONE si
connette irrimediabilmente al superamento dei trucchetti dei sensi definiti
(cosa troviamo “al di là”, senza passare per il manicheismo che conduce alla
metafisica?). Teatro è Edipo dopo essersi accecato, non semplicemente per
espiazione, ma per guardare oltre, per mettere da parte una volta per tutte gli
inganni dei lumi; teatro è Omero, il cantore cieco… questa condizione è quella del
“diverso”, teatro di qualcosa che diviene necessario per altri uomini. Ma a
piccole dosi, perché solo chi non ha rinunciato alla fede nei sensi può e
desidera guardarlo, ascoltarlo, contemplarlo, o meglio contemplare attraverso
di lui. Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, eppure zoppo non è e non sarà
mai. Si vive però il possibile, l’apertura, lo squarcio. Ecco la catarsi, senza
tirare in ballo i soliti sacrifici e il sangue stantìo.
Immaginiamo allora
l’attore come teatro di qualcosa, visione verso e attraverso. Non frequenta il
luogo comune mondano, cioè non imita o mima un’idea di credibile quotidiano: ha
ancora il retaggio del titano, eroe o antieroe (io direi che viene dopo
l’eroismo, è postumo, ne ha un ricordo, per chissà quali vie). Non usa l’arguzietta
critica per elevarsi, salvarsi o raccogliere consenso, ma assume su di sé
l’urto spaventoso dell’incontro con i fantasmi, con i morti, con tutta
l’archeologia umana e inumana; non sa vivere, non ha trovato bevande pure per
la sua sete eterna, non ha appigli. La sua maschera è l’impossibilità di
fingere, una maschera che trapana le sue ossa crepitanti restituendole
anzitempo al cosmo, facendole ruotare attorno a qualche pianeta lontano. Corpo
espulso dalla materia stessa, primordiale e biologica, lasciato a vagare, ad
assumere altre vite, che pure delineano QUELLA vita. Gli è impossibile credere
alla soluzione, alla risposta; sa che deve compiere qualcosa, che qualcosa si
compie attraverso di lui. Condannato a testimoniare la VISIONE –che non gli appartiene!
Ma che lo riconosce, almeno di tanto in tanto, quello che basta per smantellare
ogni volta le sue costruzioni, le sue illusioni- è uno sciamano per gli altri,
mai per se stesso.
“Per allontanarsi sempre più dalla materia attraverso il peso della materia, per spegnere il desiderio di esistere: questo peccato che ci condanna a ritornare in vita”.
“Per allontanarsi sempre più dalla materia attraverso il peso della materia, per spegnere il desiderio di esistere: questo peccato che ci condanna a ritornare in vita”.
Per esorcizzare la
farsa, ovvero la storia che si ripete, portare alla luce gli automatismi, il
nulla dei ruoli e dei confini, dei volti, delle voci, dello spazio, dei sensi:
tramite lo svuotamento si può ricomporre un infinito di possibili, può
cominciare un’altra storia. Ancora!
Coucou, Sèlavy!
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