Stavo pensando da un bel po' che i cronisti non sanno più quel che scrivono.
A parte che gli articoli postati su giornali online sono pieni di refusi, quando non proprio di veri e propri errori, è diventato uso comune scrivere:
Il tale è in pericolo di vita.
La domanda nasce spontanea, come direbbe Lubrano: è così pericoloso vivere?
Non sarebbe meglio dire o scrivere: è in pericolo di morte!
Se diamo un'occhiata ai cartelli che indicano PERICOLO, non scrivono PERICOLO DI VITA, ma PERICOLO DI MORTE. E allora per quale ragione quando si scrive un articolo che tratta di una vita umana che rischia di morire, magari a causa di un incidente, ci ci esprime con PERICOLO DI VITA?
Oppure, se vogliamo usare il vocabolo VITA, potremo dire: la sua vita è in pericolo.
Ovvio che durante la vita si può sempre incorrere in pericoli vari: malattie, incidenti, e anche se tutto questo non accade, perché si è sempre goduto di ottima salute, e non si è mai incorsi in incidenti a rischio, ovvio che alla fine della vita si muore a causa di qualcosa, che sia la tarda età o complicazioni sorte negli ultimi tempi, c'è sempre una causa che mette fine ad ogni esistenza. Ma perbacco, vediamo di togliere dal nostro linguaggio quella frase priva di senso: non si è mai in pericolo di vita, ma casomai, di morte!
Però questi miei ragionamenti interiori avevano bisogno di una conferma o di una eventuale smentita, per cui ho eseguito una ricerca in internet, accolta anche dalla Treccani e dalla Crusca. Resto dell'avviso che a me quella espressione: in pericolo di vita, non significa che sia la morte ad essere in pericolo, ma la vita! Quindi, per ovviare, sempre a mio avviso, sarebbe meglio esprimersi con l'espressione: la sua vita è in pericolo, oppure che rischia di morire. Certo è meglio parlare di vita, piuttosto che usare il vocabolo morte, fa meno impressione, lo dice anche il Prof. Bixio Candolfi, sono d'accordo su questo punto, ma a me continua a dar fastidio quello scrivere in pericolo di vita. Così pare che si dica: rischia di vivere.
Letto poco fa, un'autocisterna si è ribaltata e incendiata sull'autostrada A1, il guidatore ha avuto le mani e i piedi ustionati, Al momento dell'arrivo dei soccorsi era sveglio e non corre pericolo di vita. Non sarebbe meglio dire: non corre pericolo per la sua vita?
Il nuovo Dizionario della Lingua Italiana De Mauro corregge Pericolo di vita con Pericolo di Morte, quindi almeno lui mi dà ragione!
Danila Oppio
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Al Prof. Bixio Candolfi, Chiasso, Svizzera: Alla Radio Svizzera di Lingua italiana di Lugano è stato chiesto quale delle due espressioni pericolo di vita e pericolo di morte sia più corretta e in quale circostanza sia più opportuna; e quale delle due espressioni al massimo e al minimo sia da preferire. Si suole oggi affermare ripetutamente che la funzione essenziale del linguaggio è la comunicazione: quella comunicazione che rende possibile la vita sociale e la rende tanto più civile quanto più è intensa. Comunicazione, poi, non è concetto che deprima l’individuo, perché la capacità di comunicare con gli altri è preceduta e condizionata dal fatto che l’individuo si appropri di un sistema di segni noto alla comunità dei parlanti e ne verifichi di continuo il possesso proprio e l’uso comune, accertando che gli enunciati composti con quei segni abbiano un significato fondato sui loro rapporti logici o espressivi; i rapporti appunto che articolano la comunicazione umana e sono descritti dalle grammatiche. Ho accennato a due ordini diversi di rapporti: i logici, che nella nostra lingua si esprimono con forme argomentative corrispondenti ai processi cognitivi della mente, e gli espressivi, che si realizzano in forme emotive e impulsive tipiche del parlato. Mentre nel primo ordine i legamenti sintattici, cioè organici e deduttivi, hanno un valore strutturale primario, nel secondo prevalgono le sostanze o modalità librate su emissioni esclamative, tonali o private della loro normale funzione grammaticale (come, ad es., l’avverbio di negazione non usato superfluamente in frasi come “Che cosa non avrebbe fatto per salvarlo!”; “Aspettammo finché non venne l’ordine di muoversi”). Bastano queste elementari ma essenziali norme di analisi per giudicare se un enunciato o una locuzione sono in regola con la coerenza logica o con l’efficacia espressiva. Prendiamo qualche esempio del complemento di specificazione, retto dalla preposizione di (e sue forme articolate), dal quale si muove la domanda di un ascoltatore della Radio svizzera di lingua italiana di Lugano: pericolo di vita o pericolo di morte? Basterà ricorrere a quanto ci dice la grammatica: che il rapporto di specificazione tra l’elemento reggente e quello retto può essere di specificazione soggettiva, quando l’elemento retto ha la funzione logica di soggetto (le dimissioni del ministro = il ministro si è dimesso; la ritirata del nemico = il nemico si è ritirato; l’eruzione dell’Etna = l’Etna ha eruttato; la guarigione di Piero = Piero è guarito); oppure di specificazione oggettiva, quando l’elemento retto ha funzione di oggetto: il timore di Dio; la paura del male; la costruzione del ponte (dove il timore non può essere provato da Dio, la paura non può essere subita dal male, il ponte non costruisce se stesso). Con lo stesso criterio logico il parlante (o l’uditore) avvertirà che in pericolo di vita c’è un caso di specificazione soggettiva (perché in stato di pericolo è la vita), mentre in pericolo di morte c’è un caso di specificazione oggettiva (perché in stato di pericolo non può essere la stessa morte, ma chi la subirà). Si può dire ed è stato autorevolmente detto che pericolo di vita c’è un caso di specificazione soggettiva (perché in stato di pericolo è la vita), mentre in pericolo di morte c’è un caso di specificazione oggettiva (perché in stato di pericolo non può essere la stessa morte, ma chi la subirà). Si può dire ed è stato autorevolmente detto che pericolo di vita e pericolo di morte significano la stessa cosa, anche se sono due casi di specificazione diversa. Ma nei casi di sinonimia, come è quello del pericolo di morte o di vita può essere più efficace l’avviso che mette in evidenza la realtà oggettiva del pericolo piuttosto che la sua motivazione: ci sembra insomma più impressivo l’avviso che annuncia il pericolo di morte che quello che enuncia i rischi dell’imprudenza (pericolo di vita). Si dice che un caso analogo si presenti nelle alternanze ridurre al massimo o ridurre al minimo. Qui però il rapporto tra i due elementi, il verbo e la locuzione avverbiale, non si complica, come nel caso precedente, con un rapporto di dipendenza sintattica. Siamo di fronte a un verbo significante riduzione o limitazione, modulato da locuzioni avverbiali di misura o intensità. Il rapporto tra i due elementi è meramente semantico, cioè privo di articolazioni funzionali, e tutto fulcrato sul significato: si tratta cioè di accertare, tra i due contenuti semantici del verbo e della locuzione avverbiale, qual è il contenuto reggente e quello retto, esercitante sul primo una funzione modulatrice. L’elemento reggente qui non è indicato dalla struttura sintattica, ma dalla preminenza semantica, detenuta indubbiamente dal verbo ridurre in forza del significato “diminuire”, oggi prevalente sul suo più antico “ricondurre”; preminenza talmente estesa ed evidente che i due complementi avverbiali di significato assolutamente opposto (al massimo / al minimo) divengono, in unione col verbo, equivalenti. Ridurre al massimo, infatti, equivale oggi a ridurre al minimo, benché i maggiori dizionari non rilevino tale fenomeno, riportando soltanto l’unione del verbo con la seconda locuzione avverbiale o con altre congeneri (ridurre a niente, ai minimi termini, all’ osso, al poco; cfr. il Grande dizionario della lingua italiana, detto ‘Il Battaglia’, s.v. ridurre). Il fenomeno deve essere dunque di origine recente. Non è d’altronde raro, nella associazione costante di due parole, che quella semanticamente più forte produca reazioni elative nell’altra (come nel contemplato alternarsi di al massimo con al minimo); talvolta giungendo ad annullarsi col trasferire il proprio significato sull’avverbio, come nel caso della risposta negativa niente affatto, che può ridursi ad affatto, trasformato da avverbio affermativo e rafforzativo della negazione in avverbio negativo.
Giovanni Nencioni
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