I disastri causati dal maltempo in
Italia sono stati tremendi, con morti e feriti, un po’ ovunque.
Vorrei però trattare di quando
accaduto nel bellunese, perché mi tocca da vicino. Ettari di bosco divelti, un
numero incalcolabile di abeti crollati: intere foreste. Strade impraticabili
per smottamenti e caduta di alti alberi. Tetti scoperchiati, paesi privi di
corrente elettrica e di acqua potabile.
Bene, anzi no, male, malissimo, ma i bellunesi non si sono
disperati, non hanno incrociato le braccia attendendo aiuti da chissà chi e da
chissà dove. Si sono rimboccati le maniche e messi a disposizione per dare una
mano.
Gli uomini forti ed esperti, si sono attivati con i loro
attrezzi per ripulire strade e segare i tronchi d’albero messi di traverso sui
percorsi. Le donne si sono organizzate per raccogliere materiali di prima
necessità da consegnare nei paesi isolati, dove non c’è più niente.
Potrei andare avanti ancora, ma quel
che mi spaventa di più è la diga di Comelico, totalmente invasa da fango e da
un numero imprecisato di tronchi d’albero, che rischiano di far esondare
l’acqua del bacino, e causare una tragedia simile a quella del Vajont.
Col cuore gonfio di amarezza, mi
sento vicina a tutti color che hanno subito la forza della natura, perché là
dove non ha potuto l’acqua, ci ha pensato il vento che soffiava a 180 Km/h.
Certo non si può impedire alle
catastrofi naturali di fare il loro corso, ma forse una parte di colpa l’ha
anche l’uomo, che non prevede, operando in anticipo con intelligenza, quel che potrebbe accadere. Non sto ad elencare le maggiori
cause che comportano simili disastri, ma sicuramente l’innalzarsi del
riscaldamento globale ne è il maggiore responsabile. Ma le industrie pensano
solo al proprio tornaconto, infischiandosene di quel che accadrà in futuro, e
il futuro è già qui e a dimostrazione dell’imbecillità umana la Terra si
ribella, ci scuote con i terremoti, ci inonda con le acque, ci brucia con gli
incendi. Nonostante tutto ciò, continuiamo a turarci le orecchie e a bendarci
gli occhi. Non noi, in fondo gente di poco conto, ma quelli che comandano nel
mondo.
Che dicevano i nostri vecchi davanti
alle avversità? Canta che ti passa, e allora io voglio qui ricordare alcuni
modi di dire che mi raccontava la mia nonna veneta.
A Fonzaso si parlava un dialetto che
ora è andato perduto, parole pronunciate fino agli anni ’50 e poi scordate,
perché mischiate all’italiano o al dialetto feltrino, molto più simile al
veneziano.
In questo paese c’è stata una forte
influenza spagnola, infatti era rimasta la “th” , quasi come quella inglese di
“the” dove la punta della lingua tocca il palato, che non è una effe ma nemmeno
una esse.
Per meglio mettere in evidenza tale
pronuncia, scrivo qui una frase che contiene alcune parole che si pronunciano
alla spagnola:
“Thinque thest de theole marthe” molto
poco usata nei tempi attuali poiché oggi è più facile sentirla dire in questo
modo:
Sinque sest de seole marse.
Che in italiano significa: cinque
ceste di cipolle marce.
Ma girava anche una storiella che istruiva la gente a non farsi i fatti
degli altri, ponendo domande impertinenti o indiscrete:
“ Comare comarassa, vala in piassa?”
No parché go le man de pasta.
La mande la so fietta
No perché la se ga da maridar.
Chi tolla?
La tol un de le montagne
Che pesta le castagne
Con che falo el pan?
Col strons del can.
E el vin?
Col pis del gatolin.
A Milano direbbero: prendi intasca e
porta a casa. Ovvero “ma fatti una buona volta i cacchi tuoi!”.
Mi viene in mente un’altra antica espressione fonzasina. Quando le
chiedevo dove fosse andato qualcuno, e nonna non voleva dirmi dove, perché non
erano affari miei, mi rispondeva: l’è partì par l’esenpon. Mi sono sempre chiesta cosa
volesse dire, o dove fosse questo posto (che era l'equivalente di andare a Patrasso) lei stessa non sapeva spiegarmelo. Leggendo un libro che parlava
dei vigneti francesi, ho scoperto che c’è un luogo che si chiama Aix en Pons,
che si trova in Provenza. (Pronuncia: Esenpon).
E’ evidente che alcuni nostri contadini si trasferirono in Francia per
cogliere l’uva o curare i vigneti dei grandi possedimenti terrieri. Ecco la
derivazione di Esenpon.
Quando i nostri migranti veneti partivano per l’estero, portavano con
loro tutto il necessario, non certo in una piccola valigia di cartone, ma in un
capace baule detto mala. Niente di
strano che questa parola derivi dallo spagnolo, poiché mala corrisponde a
valigia.
Nonna mi diceva anche che c’erano i vestiti per la Domenica, quelli che
s’indossavano per andare alla Messa, e quelli della didopera. Detto così, mi pareva un’espressione dialettale, ma così non era.
Il dì d’opera era il giorno feriale, altrimenti detto lavorativo.
Avendo
tempo a disposizione, si potrebbe trovare l’etimologia di ogni modo di dire o
vocabolo del dialetto di Fonzaso. Ne avevo scoperti molti, provenienti dal
tedesco, dall’inglese e dal francese, dallo spagnolo, ma non avendoli subito
trasferiti nel mio quaderno d’appunti, li ho dimenticati. Lascio a voi la
divertente caccia al tesoro per rispolverare vecchi frasari ormai andati in
disuso, e collegarli alle loro origini straniere. Non dimentichiamo che
l’Italia è stata sotto il dominio degli austriaci con l’Imperatrice Maria
Teresa d’Austria, dei francesi con Napoleone, e degli spagnoli Aragona.
Questo
per sorridere un poco, ma anche per affermare che invece i bellunesi non si
fanno, in questi brutti frangenti, i cacchi loro, ma si danno da fare per dare
aiuto a chi è stato danneggiato dal maltempo.
Un caro saluto a tutti i miei compaesani Fonzasini, ai Bellunesi, ai
Veneti e a tutti coloro che hanno subito ingenti danni, sia materiali che
morali.
Forza e coraggio!
Danila Oppio
Un caro saluto anche da parte mia. E, in ferrarese...
RispondiElimina" AV AVGUR TANT'AVGURI, PAR TUTT, AD CUOR! "
Angela Fabbri
Grazie Angela, diffonderò i tuoi auguri a chi li merita!
RispondiEliminaDanila