di
marcello de santis
Se n'è andato anche lo scrittore Marcello D'Orta, ebbe un grande successo con il suo libro "Io speriamo che me la cavo", del quale il grande Paolo Villaggio ha fatto un film indimenticabile, grazie a un cast costituito da guagliune napulitane che hanno dato il meglio di se stessi nella recitazione spontanea e altamente significativa di un mondo napoletano che pochissimi di noi conoscono o conoscevano.
Io mi ritengo un fortunato in questo frangente, in quanto una parte di quella vita l'ho vissuta da non napoletano, in prima persona nel mio lungo soggiorno in quel di Pozzuoli per lavoro negli anni tristi e nel contempo allegri dell'ultimo bradisismo; ricordo come se fosse solo ieri la paura e l'incredulità per me e per i miei due tre colleghi che venivamo dal centro Italia, al vedere di persona la terra alzarsi e il mare ritirarsi (il mio ufficio era proprio davanti al mare).
Ricordo che quando arrivai laggiù per la prima volta il mare era a due passi, c'era la strada (via Napoli, che portava appunto da Pozzuoli a Napoli lungo tutto la fascia di mare adiacente) davanti alle serrande dell'ufficio; e di la dal muretto una breve striscia di sabbia e il mare che frusciava con la risacca. E dopo solo un anno al di là di quel muretto i ragazzi del rione sulla terra rialzata e abbandonata dal mare ci avevano costruito spianando di buzzo buono un vero e proprio campo di calcio regolamentare con tanto di porte; tanto il mare s'era allontanato a causa del rialzarsi della terra. Ricordo che al porto, dove le navi per le isole attraccavano e gettavano in basso la passerella per far scendere macchine e persone, adesso avevano dovuto smussare di almeno due metri la banchina di appoggio; e nonostante la passerella veniva ugualmente appoggiata in salita.
Io abitavo a cento metri dalla solfatara, un vulcano spento che emanava un'atmosfera incredibile, infernale quasi - quante volte ci sono stato dentro - che era al centro della causa del fenomeno; a ogni più piccolo boato c'eravamo ormai abituati, io e mia moglie.
Erano gli anni 70-80, scusate se non ricordo bene, ma ricordo che la gente seguiva le variazioni del sollevamento del terreno dal mare (che raggiunse un massimo di circa due metri) dai bollettini che le autorità affiggevano ogni cento metri sulla via davanti al nostro ufficio, fino alla torretta, a Napoli.
Ma il punto di riferimento del fenomeno da noi era il tempio di Serapide, dove in quel periodo erano stati posti strumenti di rilevazione.
Le colonne del tempio fino al 1983, pensate, erano sommerse in buona parte; e allora - come anche oggi - erano e sono al di sopra del livello del mare vicino.
Nei tempi antichi e nel medioevo esse dovevano essere sommerse completamente, ciò che si evince dalle tre colonne più alte, che lassù, a sei metri e mezzo d'altezza mostrano ancora i segni, i fori, di litodomi una specie di datteri di mare che si attaccano alle rocce calcaree, e hanno la capacità di perforarle, e nelle nicchie così ricavate vivono fino alla morte.
Avrei tanto da raccontare di quel periodo di paura, eppure felice per me; perché avevo raggiunto il mio sogno fin da quando ero capufficio a Frosinone, essere trasferito là, per andare a dirigere l'ufficio di Pozzuoli, per vivere l'aria napoletana.
Ma torniamo a noi, dicevamo, è morto Marcello D'Orta, l'autore del libro "Io speriamo che me la cavo", da cui è stato tratto il film dallo stesso titolo (girato a Taranto ché a Napoli fu impossibile, per questioni di richiesta di pizzo camorristico); ma le parti più importanti, gli esterni e gli interni della scuola sono stati girati nella parte medievale della mia città, Tivoli, al "seminario", dove io ho frequentato le scuole medie nei lontani anni cinquanta; e nel finale, nell'ospedale della città, dove più tardi mio padre avrebbe svolto il suo mestiere di infermiere per tutta la vita.
Il maestro Marcello D'Orta era nato a Napoli nel gennaio dell'anno 1953, aveva dunque appena sessant'anni. ed era un maestro di scuola elementare; il male del secolo se l'è portato via ancora giovane. Scrisse molti libri anche abbastanza noti; voglio ricordare: Dio ci ha creato gratis - Il maestro sgarrupato - Aboliamo la scuola, e altri.
Solo un anno e mezzo fa gli fu diagnosticato il male, incurabile; ma si curò, e disse di continuare a scrivere "per non morire"...
Peccato, ci avrebbe potuto dare ancora opere importanti.
La sua esperienza scolastica lo ha portato a scrivere il suo bestseller Io speriamo che me la cavo (1990), un diario scritto dai suoi alunni della scuola di Arzano, un paesino del napoletano; dal quale la regista Lina Wertmuller nel 1972 ha portato sullo schermo le avventure e disavventure del maestro Marco Tullio Sperelli (un Paolo Villaggio super) e dei suoi alunni; da Peppiniello a Raffaele, da Vincenzino a Tommasina, da Flora a Rusinella.
Ecco, nel link Rusinella che risponde alla domanda del maestro sulle stagioni e apprrsso il parere di tutti gli alunni della scuola. Fantastica!
marcello de santis
Se n'è andato anche lo scrittore Marcello D'Orta, ebbe un grande successo con il suo libro "Io speriamo che me la cavo", del quale il grande Paolo Villaggio ha fatto un film indimenticabile, grazie a un cast costituito da guagliune napulitane che hanno dato il meglio di se stessi nella recitazione spontanea e altamente significativa di un mondo napoletano che pochissimi di noi conoscono o conoscevano.
Io mi ritengo un fortunato in questo frangente, in quanto una parte di quella vita l'ho vissuta da non napoletano, in prima persona nel mio lungo soggiorno in quel di Pozzuoli per lavoro negli anni tristi e nel contempo allegri dell'ultimo bradisismo; ricordo come se fosse solo ieri la paura e l'incredulità per me e per i miei due tre colleghi che venivamo dal centro Italia, al vedere di persona la terra alzarsi e il mare ritirarsi (il mio ufficio era proprio davanti al mare).
Ricordo che quando arrivai laggiù per la prima volta il mare era a due passi, c'era la strada (via Napoli, che portava appunto da Pozzuoli a Napoli lungo tutto la fascia di mare adiacente) davanti alle serrande dell'ufficio; e di la dal muretto una breve striscia di sabbia e il mare che frusciava con la risacca. E dopo solo un anno al di là di quel muretto i ragazzi del rione sulla terra rialzata e abbandonata dal mare ci avevano costruito spianando di buzzo buono un vero e proprio campo di calcio regolamentare con tanto di porte; tanto il mare s'era allontanato a causa del rialzarsi della terra. Ricordo che al porto, dove le navi per le isole attraccavano e gettavano in basso la passerella per far scendere macchine e persone, adesso avevano dovuto smussare di almeno due metri la banchina di appoggio; e nonostante la passerella veniva ugualmente appoggiata in salita.
Io abitavo a cento metri dalla solfatara, un vulcano spento che emanava un'atmosfera incredibile, infernale quasi - quante volte ci sono stato dentro - che era al centro della causa del fenomeno; a ogni più piccolo boato c'eravamo ormai abituati, io e mia moglie.
Erano gli anni 70-80, scusate se non ricordo bene, ma ricordo che la gente seguiva le variazioni del sollevamento del terreno dal mare (che raggiunse un massimo di circa due metri) dai bollettini che le autorità affiggevano ogni cento metri sulla via davanti al nostro ufficio, fino alla torretta, a Napoli.
Ma il punto di riferimento del fenomeno da noi era il tempio di Serapide, dove in quel periodo erano stati posti strumenti di rilevazione.
Le colonne del tempio fino al 1983, pensate, erano sommerse in buona parte; e allora - come anche oggi - erano e sono al di sopra del livello del mare vicino.
Nei tempi antichi e nel medioevo esse dovevano essere sommerse completamente, ciò che si evince dalle tre colonne più alte, che lassù, a sei metri e mezzo d'altezza mostrano ancora i segni, i fori, di litodomi una specie di datteri di mare che si attaccano alle rocce calcaree, e hanno la capacità di perforarle, e nelle nicchie così ricavate vivono fino alla morte.
Avrei tanto da raccontare di quel periodo di paura, eppure felice per me; perché avevo raggiunto il mio sogno fin da quando ero capufficio a Frosinone, essere trasferito là, per andare a dirigere l'ufficio di Pozzuoli, per vivere l'aria napoletana.
Ma torniamo a noi, dicevamo, è morto Marcello D'Orta, l'autore del libro "Io speriamo che me la cavo", da cui è stato tratto il film dallo stesso titolo (girato a Taranto ché a Napoli fu impossibile, per questioni di richiesta di pizzo camorristico); ma le parti più importanti, gli esterni e gli interni della scuola sono stati girati nella parte medievale della mia città, Tivoli, al "seminario", dove io ho frequentato le scuole medie nei lontani anni cinquanta; e nel finale, nell'ospedale della città, dove più tardi mio padre avrebbe svolto il suo mestiere di infermiere per tutta la vita.
Il maestro Marcello D'Orta era nato a Napoli nel gennaio dell'anno 1953, aveva dunque appena sessant'anni. ed era un maestro di scuola elementare; il male del secolo se l'è portato via ancora giovane. Scrisse molti libri anche abbastanza noti; voglio ricordare: Dio ci ha creato gratis - Il maestro sgarrupato - Aboliamo la scuola, e altri.
Solo un anno e mezzo fa gli fu diagnosticato il male, incurabile; ma si curò, e disse di continuare a scrivere "per non morire"...
Peccato, ci avrebbe potuto dare ancora opere importanti.
La sua esperienza scolastica lo ha portato a scrivere il suo bestseller Io speriamo che me la cavo (1990), un diario scritto dai suoi alunni della scuola di Arzano, un paesino del napoletano; dal quale la regista Lina Wertmuller nel 1972 ha portato sullo schermo le avventure e disavventure del maestro Marco Tullio Sperelli (un Paolo Villaggio super) e dei suoi alunni; da Peppiniello a Raffaele, da Vincenzino a Tommasina, da Flora a Rusinella.
Ecco, nel link Rusinella che risponde alla domanda del maestro sulle stagioni e apprrsso il parere di tutti gli alunni della scuola. Fantastica!
Marcello De Santis
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