Ho letto diverse recensioni di quest'opera, che ha ottenuto larghi consensi e un successo, per l'autore, davvero insperato. Spero non mi faccia causa, per aver riportato alcuni stralci del suo testo, ma era per me importante riprenderli, per dare un senso al mio commento che segue. Credo piuttosto di aver dato al libro maggiore pubblicità. Lo consiglio vivamente, è un libro da bere d'un fiato!
Da SETTE BREVI LEZIONI DI FISICA di Carlo
Rovelli
IN
CHIUSURA: NOI
Ho
tralasciato le altre sei lezioni, imperniate sulla fisica quantistica, le
probabilità, il tempo e lo spazio, i buchi neri, ecc. E ho dato risalto alla
parte finale che riguarda l’essere umano.
Questi
sono stralci dell’ultimo capitolo, quelli che maggiormente mi hanno colpito e
fatto riflettere, in particolare le parti evidenziate in neretto.
Che posto abbiamo noi, esseri umani che
percepiscono, decidono, ridono e piangono, in questo grande affresco del mondo
che offre la fisica contemporanea? Se il mondo è un pullulare di effimeri
quanti di spazio e di materia, un immenso gioco a incastri di spazio e
particelle elementari, noi cosa siamo? Siamo fatti anche noi solo di quanti e particelle?
Allora da dove viene quella sensazione
di esistere singolarmente e in prima persona che prova ciascuno di noi? Cosa
sono i nostri valori, i nostri sogni, le nostre emozioni, il nostro stesso
sapere? Chi siamo noi, in questo mondo sterminato e rutilante?
Non posso neppure immaginare di provare per
davvero a rispondere a una tale domanda. E’ una domanda difficile. Nel grande
quadro della scienza contemporanea ci sono molte cose che on capiamo, e una di
quelle che comprendiamo meno siamo noi stessi.
Evitare questa domanda e far finta di niente
vorrebbe dire, credo, trascurare qualcosa di essenziale. Mi sono proposto di
raccontare come appare il mondo alla luce della scienza, e nel mondo ci siamo
anche noi.
“Noi”, esseri umani, siamo prima di tutto il
soggetto che osserva questo mondo, gli autori, collettivamente, di questa fotografia della realtà che ho provato a
comporre. Siamo nodi di una rete di scambi, nella quale ci passiamo immagini,
strumenti, informazioni e conoscenza. Del mondo che vediamo, siamo anche parte
integrante, non siamo osservatori esterni. Siamo situati in esso. La nostra
prospettiva su di esso è dall’interno. Siamo
fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini
sulle montagne e le stelle nelle galassie.
Ma mano che la nostra conoscenza è cresciuta,
abbiamo imparato sempre di più questo nostro essere parte, e piccola parte,
dell’universo. Ciò è avvenuto già nei secoli passati, ma sempre di più
nell’ultimo secolo. Pensavamo di essere sul pianeta al centro del cosmo, e non
lo siamo. Pensavamo di essere una razza a parte, nella famiglia degli animali e
delle piante, e abbiamo scoperto che siamo discendenti degli stessi genitori di
ogni altro essere vivente intorno a noi. Abbiamo bisnonni in comune con le farfalle
e con i larici. Siamo come un figlio unico che cresce e impara che il mondo non
gira solo intorno a lui come pensava quando era piccolo. Deve accettare di
essere uno fra gli altri. Specchiandoci
negli altri e nelle altre cose, impariamo chi siamo.
Durante il grande idealismo tedesco, Schelling poteva pensare che l’uomo rappresentasse il
vertice della natura, il punto altissimo dove la realtà prende coscienza di se
stessa. Oggi, dal punto di vista del nostro sapere sul mondo naturale, questa
idea ci fa sorridere. Se siamo speciali, siamo speciali com’è speciale ognuno
per se stesso, ogni mamma per il suo bimbo. Non certo per il resto della
natura. Nel mare immenso di galassie e di stelle, siamo un infinitesimo angolo
sperduto; fra gli arabeschi infiniti di forme che compongono il reale, noi non siamo
che un ghirigoro fra tanti.
Le
immagini che ci costruiamo dell’universo vivono dentro di noi, nello spazio dei
nostri pensieri. Fra
quelle immagini – fra quello che riusciamo a ricostruire e comprendere con i
nostri mezzi limitati – e la realtà della quale siamo parte, esistono filtri
innumerevoli: la nostra ignoranza, la limitatezza dei nostri sensi e della
nostra intelligenza, le condizioni stesse che la nostra natura di soggetti, e
soggetti particolari, mette nell’esperienza. Queste condizioni, tuttavia, non
sono universali, come immaginava Kant, deducendone poi, evidentemente a torto,
che la natura euclidea dello spazio e perfino la meccanica newtoniana dovessero
essere vere a priori. Sono a posteriori dell’evoluzione mentale della nostra
specie, e sono in evoluzione continua. Non
solo impariamo, ma appendiamo anche a cambiare gradualmente la nostra struttura
concettuale, e ad adattarla a ciò che impariamo. E quello che impariamo a
conoscere, anche se lentamente e a tentoni, è il mondo reale di cui siamo
parte. Le immagini che ci costruiamo
dell’universo vivono dentro di noi, nello spazio dei nostri pensieri, ma
descrivono più o meno bene il mondo reale di cui siamo parte.
Seguiamo tracce per descrivere meglio questo
mondo. Quando parliamo del Big Bang o della struttura dello spazio, quello che
stiamo facendo non è la continuazione dei racconti liberi e fantastici che gli
uomini si sono narrati attorno al fuoco nelle sere di centinaia di millenni. E’
la continuazione di qualcos’altro: dello sguardo di quegli stessi uomini, alle
prime luci dell’alba, che cerca tra la polvere della savana le tracce di
un’antilope – scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non
vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguire le tracce. Nella consapevolezza che possiamo sempre
sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova
traccia, ma sapendo anche che, se siamo bravi, capiremo giusto e troveremo.
Questa è la scienza. La confusione fra queste
due diverse attività umane, inventare racconti e seguire tracce per trovare
qualcosa, è l’origine dell’incomprensione e della diffidenza per la scienza di
una parte della cultura contemporanea. La separazione è sottile: l’antilope
cacciata all’alba non è lontana dal dio antilope dei racconti della sera. Il
confine è labile. I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti.
Ma il valore conoscitivo del sapere resta.
Se troviamo l’antilope possiamo mangiare.
Il
nostro sapere riflette quindi il mondo. Lo fa più o meno bene, ma rispecchia il
mondo che abitiamo. Questa
comunicazione fra noi e il mondo non è qualcosa che ci distingue dal resto
della natura. Le cose del mondo
interagiscono in continuazione l’una con l’altra e, nel fare ciò, lo stato di
ciascuna porta traccia dello stato delle altre con cui ha interagito: in questo
senso esse si scambiano di continuo informazione le une sulle altre. L’informazione
che un sistema fisico ha su un altro sistema, non ha niente di mentale o soggettivo,
è solo il vincolo che la fisica determina fra lo stato di qualcosa e lo stato
di qualcos’altro. Una goccia di pioggia contiene informazione sulla presenza di
una nuvola nel cielo. Un raggio di luce contiene informazione sul colore della
sostanza da cui proviene. Un orologio ha informazione sull’ora del giorno. Il
vento porta informazione su un temporale vicino. Un virus del raffreddore ha
informazione sulla vulnerabilità del nostro naso. Il DNA delle nostre cellule
contiene tutta l’informazione sul nostro codice genetico, che ci fa
rassomigliare a nostro padre, e il nostro cervello pullula d’informazioni
accumulate durante la nostra esperienza. La sostanza prima dei nostri pensieri
è una ricchissima informazione raccolta, scambiata, accumulata e continuamente
elaborata.
Come
può lo scambio continuo d’informazione nella natura produrre noi stessi e i
nostri pensieri?
Il problema è apertissimo, e le possibili
soluzioni su cui si sta ora discutendo sono molte e belle. Questa, io credo, è una
delle frontiere più interessanti della scienza, dove i progressi stanno per
essere maggiori. Strumenti nuovi ci permettono oggi di osservare l’attività del
cervello in atto, e di mappare le reti intricatissime dello stesso, con
impressionante precisione.
Idee precise sulla forma matematica delle
strutture che possono corrispondere alla sensazione soggettiva della coscienza
sono discusse non solo dai filosofi, ma anche dai neuro-scienziati.
C’è
una questione in particolare, riguardo a noi stessi, che ci lascia spesso
perplessi: che significa che siamo liberi di prendere delle decisioni, se il
nostro comportamento non fa che seguire le leggi della natura? Non c’è forse
contraddizione fra la nostra sensazione di libertà e il rigore con cui abbiamo
ormai compreso si svolgono le cose del mondo? C’è forse qualcosa in noi che
sfugge le regolarità della natura, e ci permette di torcerle e sviarle con il
nostro stesso pensiero?
No, non c’è nulla in noi che sfugge le
regolarità della natura. Se qualcosa in noi violasse le regolarità naturali,
l’avremmo già scoperto da tempo. Non c’è
nulla in noi che violi il comportamento naturale delle cose. Tutta la scienza
moderna, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alle neuroscienze, non fa
che rafforzare questa osservazione.
La soluzione della confusione è un’altra:
quando diciamo che siamo liberi, ed è vero che possiamo esserlo, ciò significa
che i nostri comportamenti sono determinati da quello che succede dentro noi
stessi, nel cervello, e non sono costretti dall’esterno.
Essere liberi non significa che i nostri
comportamenti non siano determinati dalle leggi della natura. Significa che
sono determinati dalle leggi della natura che agiscono nel nostro cervello. Le
nostre decisioni libere sono liberamente determinate dai risultati delle
interazioni fugaci e ricchissime fra miliardi di neuroni del nostro cervello:
sono libere quanto è l’interagire di questi neuroni che le determina.
Questo significa che quando decido, sono “io” a
decidere? Si, certo, perché sarebbe assurdo chiedersi se “io” non posso fare
qualcosa di diverso da quello che decide di fare il complesso dei miei neuroni:
le due cose, come aveva compreso con lucidità meravigliosa nel XVII secolo il
filosofo olandese Baruch Spinosa,
sono la stessa cosa. Non ci sono “io” e “i neuroni del mio cervello”.
Si tratta della stessa cosa. Un individuo è un
processo, complesso, ma strettamente integrato.
Quando
diciamo che il comportamento umano è imprevedibile, diciamo il vero, perché è
troppo complesso per essere previsto, soprattutto da noi stessi. La
nostra intensa sensazione di libertà interiore, come Spinoza aveva visto
acutamente, viene dal fatto che l’idea delle immagini che abbiamo di noi stessi
sono estremamente più rozze e sbiadite del dettaglio della complessità di ciò
che avviene dentro di noi. Noi siamo sorgente di stupore per noi stessi.
Abbiamo cento miliardi di neuroni nel nostro cervello, tanti quante le stelle
di una galassia, e un numero ancora più astronomico di legami e combinazioni in
cui questi possono trovarsi. Di tutto
questo non siamo coscienti. “Noi” siamo il processo formato da questa
complessità, non quel poco di cui siamo coscienti.
Quell’”io”
che decide è lo stesso “io” che si forma – in un modo che ancora, non ci appare
certo del tutto chiaro, ma incominciamo a intravedere – dello specchiarsi su se
stesso, dall’auto rappresentarsi nel mondo, dal riconoscersi come punto di
vista variabile collocato nel mondo, di quella impressionante struttura che
gestisce informazione e costruisce rappresentazioni, che è il nostro cervello.
Quando abbiamo la sensazione che “sono io “a
decidere, non c’è nulla di più corretto: chi altri? Io, come voleva Spinoza,
sono il mio corpo e quanto avviene nel mio cervello e nel mio cuore, con la
loro sterminata e per me stesso inestricabile complessità.
L’immagine scientifica del mondo, non è allora
in contraddizione con il nostro sentire noi stessi. Non è in contraddizione con
il nostro pensare in termini morali, psicologici, con le nostre emozioni. Il mondo è complesso, noi lo catturiamo
con linguaggi diversi, appropriati per i diversi processi che lo compongono. I
diversi linguaggi s’intersecano, si intrecciano e si arricchiscono l’un
l’altro, come i processi stessi.
I nostri valori morali, le nostre emozioni, i
nostri amori, non sono meno veri per il fatto di essere parte della natura, di
essere condivisi con il mondo animale o per essere cresciuti ed essere stati
determinati dai milioni di anni dell’evoluzione della nostra specie. Anzi, sono
più veri per questo: sono reali.
Sono
la complessa realtà di cui siamo fatti. La nostra realtà è il pianto e il riso,
la gratitudine e l’altruismo, la fedeltà e i tradimenti, il passato che ci
perseguita e la serenità, La nostra realtà è costituita dalle nostre società,
dall’emozione della musica, dalla ricche reti intrecciate nel nostro comune
sapere, che abbiamo costruito insieme. Della natura siamo parte integrante,
siamo natura, in una delle sue innumerevoli e svariatissime espressioni.
Questo ci insegna la nostra conoscenza
crescente delle cose del mondo. Quanto è specificatamente umano non rappresenta
la nostra separazione dalla natura, è la nostra natura. E’ una forma che la natura ha preso qui sul nostro pianeta, nel gioco
infinito delle sue combinazioni, dell’influenzarsi e scambiarsi correlazioni, e l’informazione
fa le sue parti. Chissà quali e quante altre straordinarie complessità, in
forme forse addirittura impossibili da immaginare per noi, esistono negli
sterminati spazi del cosmo…
C’è tanto spazio lassù, è puerile pensare che
in quest’angolo periferico di una galassia delle più banali ci sia qualcosa di
speciale. La vita, sulla Terra, non è che un assaggio di cosa può succedere
nell’universo. La nostra anima non ne è che un altro.
Noi siamo una specie curiosa, l’unica rimasta
di un gruppo di specie (il genere “Homo”) formato da almeno una dozzina di
specie curiose. Le altre specie del gruppo si sono già estinte, alcune, come i
Neanderthal, poco fa: neppure trentamila anni addietro.
Penso che la nostra specie non durerà a lungo.
Non pare avere la stoffa delle tartarughe, che hanno continuato ad esistere
simili a se stesse per centinaia di milioni di anni, centinaia di volte di più
di quanto siamo esistiti noi. Apparteniamo a un genere di specie a vita breve.
I nostri cugini si sono già tutti estinti. E noi facciamo danni. I cambiamenti
climatici e ambientali, che abbiamo innescato, sono stati brutali e
difficilmente ci risparmieranno. Per la Terra sarà un piccolo blip irrilevante,
ma non credo che noi lo passeremo indenni: tanto più dato che l’opinione
pubblica e la politica preferiscono ignorare i pericolo che stiamo correndo e
mettere la testa sotto la sabbia. Siamo forse la sola specie sulla Terra
consapevole dell’inevitabilità della nostra morte individuale: temo che presto
dovremo diventare anche la specie che vedrà consapevolmente arrivare la propria
fine o, quanto meno, la fine della propria civiltà.
Nasciamo
e moriamo, come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che
collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio la sua natura
effimera, la vita è preziosa. Perché, come scrive Lucrezio, “il nostro appetito
di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile” (da Rerum natura)
Ma immersi in questa natura che ci ha fatto e
che ci porta, non siamo esseri senza casa, sospesi tra due mondi, parti solo in
parte della natura, con la nostalgia di qualcosa d’altro. No, siamo casa.
La natura è la nostra casa e nella natura siamo
a casa. Questo mondo strano, variopinto e stupefacente che esploriamo, dove lo
spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in alcun
luogo, non è qualcosa che ci allontana da noi: è solo ciò che la nostra
naturale curiosità ci mostra della nostra casa. Della trama di cui siamo fatti noi stessi. Noi siamo fatti della stessa
polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel
dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello
che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo.
Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura
vogliamo sapere di più. E continuiamo a imparare. La nostra conoscenza del
mondo continua a crescere.
Qui,
sul bordo di quello che sappiamo, con contatto con l’oceano di quanto non
sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano
senza fiato.
Carlo Rovelli (Verona, 3 maggio 1956) è un fisico italiano. Ha lavorato
in Italia e
negli Stati Uniti e attualmente lavora
in Francia.
La sua principale attività scientifica è nell'ambito della gravità quantistica, dove è uno dei fondatori
della gravità quantistica a loop (loop quantum gravity). Si è occupato
anche di storia e filosofia della scienza, della nascita del pensiero scientifico, e, in particolare, della
posizione di Anassimandro nello sviluppo della riflessione scientifica dell'umanità.
Ora che abbiamo letto una parte
del libro interessantissimo del fisico teorico Rovelli, vorrei aggiungere
qualche mia impressione.
La parte evidenziata in rosso mi
ha reso perplessa. Siamo davvero liberi? Io credo di no, e non perché il nostro
“io” è scisso dai neuroni cerebrali, quando dal fatto che, fin dalla più tenera
infanzia, abbiamo ottenuto delle informazioni non nostre, da parte
dell’educazione ricevuta dai genitori, dalle religioni, dalle ideologie
politiche o filosofiche, qualsiasi esse siano, e dall’insegnamento scolastico.
Un esempio fra tutti: se un insegnante di letteratura ci facesse conoscere le
opere di un unico scrittore o poeta, e non quelle di un altro, a noi pare che quel
poeta o scrittore sia colui con cui ci potremo forse identificare a nostra
volta, nel caso volessimo dedicarci alla scrittura. E non avendo fonti di
paragone, poiché solo quello abbiamo imparato
e solo quello rimane impresso nella nostra memoria, seguiremmo le sue orme.
Anche il cibo che prediligiamo, è collegato a quello che cucinava la mamma, e
solo chi è veramente curioso di assaggiare nuove pietanze, allarga i propri gusti.
Ma se non sperimenta altri alimenti, il suo palato è condizionato dal cibo
gustato nell’infanzia. Quindi non siamo liberi, bensì condizionati da cause
esteriori.
Non viviamo come degli eremiti,
siamo immersi in una società eterogenea, di conseguenza apprendiamo da altri
alcune informazioni, che poi facciamo nostre, se le condividiamo, oppure le
ripudiamo. Il nostro pensiero è condizionato da quello dei filosofi storici,
dai politici, dagli insegnanti, dai libri che leggiamo. Il più delle volte la scelta è oculata, ma talvolta il nostro
pensiero viene deviato da quello altrui, e quindi crediamo di essere noi a
pensare quella data cosa, ma in realtà ci è stata inculcata da un altro essere
umano. Il cervello registra, e memorizza.
Pensare di definirci liberi è pura
utopia, sappiamo invece che possiamo scegliere, se abbiamo discernimento, di
accogliere o di rifiutare, e l’intelligenza per capire quel che può farci
crescere spiritualmente, moralmente e culturalmente, da quello che potrebbe solo
ledere la nostra coscienza e “contagiare” il nostro vero io.
Resta comunque chiaro che viviamo
a contatto con il prossimo, e che è naturale trasmetterci l’un l’altro
informazioni, poiché è possibile che ciò che io ignoro, un altro possa colmare
la mia lacuna, o viceversa.
Lo stesso vale per i sentimenti
positivi o d’amore, di cui il nostro amor proprio, il nostro cuore e la nostra
anima hanno necessità, per farci vivere bene con noi stessi e con chi ci sta
attorno. Rinchiudersi nel proprio “ego” non è libertà, è castrazione mentale.
Ognuno di noi ha bisogno di relazionarsi con altri, per ricevere un sorriso,
una parola buona, ma anche per essere noi stessi portatori di allegria, di
pensieri positivi, di sentimenti buoni, di condivisione e di conforto, quando
comprendiamo che il nostro interlocutore ne sente il bisogno.
In conclusione, non vi è nulla di
nuovo sul fronte occidentale, quasi tutto lo scibile umano riconduce ai testi
già scritti, niente di veramente originale, se non nella ricerca scientifica o
nelle varie arti. Il nostro pensiero che crediamo libero, non è altro che un
marasma di cognizioni inculcate fin dalla primissima infanzia, e poi apprese
attraverso gli studi e le comunicazioni dei media.
A questo punto mi chiedo: ma davvero siamo liberi? Se taluni escono dagli schemi prefissati, sono tacciati da alienati, folli, squilibrati e, nella migliore delle ipotesi, da persone che non seguono le regole. E le regole, da chi son dettate? Non certo dal nostro meraviglioso cervello, ma da chi le ha imposte.
A questo punto mi chiedo: ma davvero siamo liberi? Se taluni escono dagli schemi prefissati, sono tacciati da alienati, folli, squilibrati e, nella migliore delle ipotesi, da persone che non seguono le regole. E le regole, da chi son dettate? Non certo dal nostro meraviglioso cervello, ma da chi le ha imposte.
Sono persuasa che solo i sentimenti,
di qualunque tipo, portino la nostra firma. Fanno parte del nostro vero “io”.
Tutto il resto appartiene al campo della nozionistica, che proviene da fonti
estranee a noi, che possiamo solo accogliere ciò che ci piace, e rifiutare
quello che non aderisce alle nostre prospettive. Ma sono tutte cause esterne a
noi, se noi stessi non ci mettiamo d’impegno nel realizzare qualcosa che sia
davvero originale, di nostra esclusiva creazione. A quel punto, il nostro cervello
e il nostro “io”, diventa libero, anche se solo in quella direzione.
Danila Oppio
Ho fatto leggere questo testo alla persona che mi ha donato il libro, ovvero al Cav. Tommaso Mondelli. Ecco la sua risposta, piuttosto divertente!
Ho fatto leggere questo testo alla persona che mi ha donato il libro, ovvero al Cav. Tommaso Mondelli. Ecco la sua risposta, piuttosto divertente!
Rovelli? Mi sembra che il suo
pensiero faccia riferimento al rapporto tra pensiero e azione: io faccio quello
che penso e quello che ho fatto lo avevo liberamente pensato. Per quanto
riguarda l’idea giuridica della libertà la si deve in rapporto agli altri. In sede penale la responsabilità di un atto può essere addebitata con
l’accertamento dell’esistenza della capacità d’intendere e il volere di quanto
posto in azione del soggetto. Chi, in altre parole, compie un atto essendovi
stato costretto da una minaccia grave e attuale non può essere ritenuto
responsabile. Da noi il minore di età dei 14 anni non può essere imputato né
processato per incapacità assoluta a prescindere. Se fossimo considerati non
liberi (come gli animali) potremmo uccidere senza essere condannati. Va bene che
forse ci siamo già, tanto che solo ieri un automobilista ha ucciso una
trentenne sulle strisce (reo confesso) ed è stato imputato e poi rilasciato a piede
libero.
Se Rovelli
pensava questo ha sbagliato. Il ragionamento di Rovelli è molto sottile e lo ha
affrontato non da scienziato ma da filosofo. Io sono della stessa materia di cui è
fatta la pianta del viale che il vento abbatte e uccide il passante. La pianta
e il vento hanno commesso il fatto e nessuno li processa: il vento scappa e la
pianta è bruciata. Il morto? Fregato se non paga il Comune, che dovrebbe.
Tommaso Mondelli
Nessun commento:
Posta un commento