Non illudiamoci, mio caro, questa fisiologia è disposta più che mai all’arsura che proviene dall’ostinato sputare su: il conformismo del professionismo, il corteggiamento ormai inconscio di certi modelli, altrove volontaria pretesa e pretenziosità; lo sforzo di adattarsi, piegarsi o piegare qualcosa all’esistente, o meglio a quanto è stato spacciato per esistente, per unica possibilità; il chiudere ogni varco, tenere fuori ogni infinito, l'appigliarsi a quanto già stilato, approvato, plaudito e il sentirsi fragilmente parte non del mondo ma di una piccola o grande che sia mondanità, senza mondarsi, appunto, senza cercare il contatto col vuoto, il vuoto che fa rabbrividire, che demolisce ogni ragione e ragionamento, ogni “professionalità”, ogni tecnica, vuoto da cui possono ancora materializzarsi echi così lontani, visioni improvvise, profumi e vociare.
E allora non conservate la specie, disperdetevi, preservate ogni conflitto, ogni differenza, rendetela abissale, non definitela e non nominatela troppo (che sfuggirà o non vi sfuggirà più). Voi oggi sentite chiaramente che nulla riluce come l’incompiuto, e io non potrei che benedire questi squarci di inadeguatezza, di profonda incapacità. La critica è riservata al demandare, ancora una volta. Perciò guardiamo altrove, oltre la stanchezza di cieli mutevoli impiegati a mo’ di fondali per i soliti fardelli.
Coucou, Sèlavy!
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