Volevo dirti che stanotte al TG ho visto e sentito un fatto che mi ha
chiesto di parlartene.
Dani,
perché non scrivi sul blog qualcosa su questa Signora, la moglie di Molfetta,
che sono 22 anni che aspetta venga
istruito il processo sull'omicidio di suo marito? E' una donna coraggiosa, che
ha tirato su da sola le due figlie. E
una delle due, piccolissima, era presente col padre quando un proiettile
sfuggito ai malviventi lo ha colpito alla
nuca.
Adesso la
Signora si è appellata al Presidente della Repubblica.
Non
potremmo darle anche noi un po' di sostegno e di visibilità?
Non ti
sarà difficile documentarti meglio sull'argomento.Te ne
prego.
Angela Fabbri
Accolgo volentieri da richiesta di Angela, per un semplice motivo. Spesso si dimenticano fatti avvenuti da tempo, soprattutto vengono scordati da chi dovrebbe occuparsene. Ho un pensiero che mi molesta da qualche tempo, ed è questo: "Spesso le peggio ingiustizie avvengono proprio dalla Giustizia". Si condannano innocenti, si stravolgono i processi, spesso lunghi e che non portano ad una concreta soluzione. Mi riferisco a molti casi di condanne ingiuste, o di assoluzioni dove sarebbe stata necessaria una punizione esemplare.
Quindi, anche se questo blog è dedicato soprattutto all'arte, qualche volta esulo dallo specifico campo, per dare visibilità a fatti che meritano attenzione.
Non avendo seguito il TG di cui mi accenna Angela, ho cercato un articolo che mi pare riporti i fatti con chiarezza.
Sono passati 22 anni dal tragico
omicidio a Michele Molfetta, ma giustizia non è ancora stata fatta. Su "La
Gazzetta del Mezzogiorno" dell'11/10/2015 l'appello della vedova Carmela
Sette al boss Di Cosola, ora pentito...
Una vedova al boss Di Cosola
«Parli della fine di mio marito»
di TOMMASO
FORTE
Appello al boss Antonio Di Cosola - che si è pentito e collabora con la
giustizia - dalla vedova della vittima di un agguato mortale. «Voglio che Di
Cosola dica la verità sull’uccisone di mio marito. Un atto di grande coraggio e
umiltà. Ho apprezzato il suo profondo rispetto verso la sua famiglia e la sua
compagna di vita, la moglie, appunto. Ed ecco, quindi, il mio appello: racconti
la verità».
Carmela Sette - 62 anni, residente a Grumo Appula - è la moglie di Michele
Molfetta, rimasto vittima a 38 anni di un agguato, il 18 febbraio 1993 a
Bitritto. Michele Molfetta si era recato con un collega di lavoro presso la
rivendita di giocattoli «Scalera», a Bitritto, per acquistare una mascherina di
carnevale alla figlia Arianna di 4 anni. Fu ucciso a bruciapelo da un colpo di
arma da fuoco, usata da malviventi mascherati, vestiti da pagliacci, che fecero
irruzione nel negozio a scopo di rapina. Erano armati e senza pietà, spararono
all’impazzata. Padre e figlia caddero, il primo morì sul colpo, la piccola
riportò un trauma cranico e contusivo del setto nasale.
Un delitto efferato. Dunque, una vittima innocente, morta peraltro sotto gli
occhi increduli della piccola figlia, stretta tra le sue braccia. Per quel delitto
sono imputati appunto Antonio Di Cosola, Antonio Lombardi, Giuseppe Ladisa,
Cosimo Di Cosola e Giuseppe Lopiano «perché agendo in concorso tra loro ed a
vario titolo, hanno cagionato la morte di Molfetta Michele, esplodendo al suo
indirizzo e colpendolo al capo, colpo d’arma da fuoco, illegalmente detenuta»
recita il capo di imputazione.
VOGLIA DI GIUSTIZIA - Ma ecco la testimonianza di Carmela Sette.
«Dopo oltre 22 anni l’omicidio atroce di mio marito, uomo buono ed affettuoso
padre di famiglia, resta impunito; eppure sul delitto hanno indagato una decina
di valenti magistrati inquirenti, si sono scritte decine di faldoni ricolmi di
atti processuali ed hanno “parlato” diversi collaboratori di giustizia. Ma la
Giustizia ancora non trova i responsabili, come si fossero, nel frattempo,
eclissati nella redenta veste di onesti cittadini, tornati alle quotidiane e
sane abitudini di buoni padri di famiglia; così non è e questo tutti lo sanno.
Ora, dopo l’ennesimo tentativo di invocare la prescrizione, come se la vita di
una persona fosse tutelabile dallo Stato solo parzialmente, persino si rischia
di dimenticarsene totalmente».
RICERCA DELLA VERITÀ - «La stampa ha dimenticato la storia di mio
marito, vittima innocente. Esulta al pentimento del criminale, pentito
dell’ultim’ora, si dilunga nel ricordare i molteplici reati, omettono di
ricordare al boss Antonio Di Cosola i capi di imputazione relativi all’omicidio
di Michele, che pure sono a lui ascritti e contenuti nella richiesta di rinvio
a giudizio dell’aprile 2014 a firma del magistrato Francesca Pirrelli ed
attualmente oggetto d’esame davanti ad un magistrato nella fase preliminare. Mi
chiedo fino a quando terrò repressa la legittima domanda di giustizia mia e
delle mie figlie, se non scenderà prima il silenzio e con esso l’assurda
passività di un mondo, che trascura l’accertamento della verità?».
LE INDAGINI - «Auspico con la massima serenità che i titolari delle
indagini sappiano riferire al pentito le sue responsabilità e misurare il suo
pentimento con il metro dell’apporto collaborativo che vorrà dare alla ricerca
dei colpevoli dell’efferato crimine, che ha privato me e le mie figlie di un
ottimo marito e di un padre esemplare» .
L’APPELLO AL BOSS - «Con il cuore rigonfio di un dolore mai sopito
invito il boss Di Cosola, se veramente si è ravveduto ed ha preso seriamente a
considerare il valore della vita umana e della giustizia nella verità, a farsi
davvero “collaboratore”, a raccontare le circostanze, i fatti e le persone che
hanno causato la morte di mio marito. Vorrei tanto che la tragedia familiare,
che resta immanente nei ricordi e nell’agire della nostra vita quotidiana,
abbia un risvolto finale di verità; che il Di Cosola dimostri di essere uomo,
confessi le sue azioni e quelle di quanti hanno contribuito al delitto e
contribuisca a lenire il nostro tormento con l’accertamento della verità.
Come potete vedere, ho scelto un'immagine che rappresenta la giustizia, proprio con la frase "La Legge è uguale per tutti". Malgrado tanti processi, che pare non debbano finire mai, e a volte non appaiono neppure equi, voglio ancora credere che la Giustizia venga adoperata nel "giusto modo". Chiedo venia per il gioco di parole, ma credo con questo mio appunto, di rispecchiare il pensiero di molti italiani. Desidero che sia fatta giustizia e che questa donna, che si è vista privare in modo violento, della presenza nella sua vita, del marito e padre delle sue figlie, possa ottenere ciò che le spetta, anche se sarà un niente, in confronto a quanto le è stato tolto.
Danila
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