http://www.georgika.it/wordpress/?p=185
Ho ripreso questo fantastico articolo dal link qui sopra, spero che a Miram Corongiu non dispiaccia! Complimenti davvero interessante
IL BISSO, LA SETA FATTA DI VENTO
Che sia la mia vita per essere, pregare e tessere…” – Il Giuramento dell’Acqua
Nell’isola di Sant’Antioco, in Sardegna, ancora oggi si tesse il vento che soffia dal mare e si conservano i segreti di un’arte antichissima: il bisso. Bruno in penombra, oro sfavillante alla luce del sole, il bisso è una seta leggerissima donata dal mare intorno alla quale, come una perla, si è sedimentata una leggenda. Non è facile individuare le fonti letterarie che ne parlano e sono rari e preziosissimi i manufatti ancora esistenti poiché Il bisso è frutto di una conchiglia oggi specie protetta e soprattutto, per giuramento, non si compra e non si vende: si dona. Lo imparò a sue spese chi provò, in tempi più recenti, a farne mercato in Sardegna come a Taranto, dove la storia vuole che il bisso fosse uno dei simboli della più fastosa tra le poleis magnogreche.
Il filo di bisso si ricava dunque da una conchiglia, la pinna nobilis, che vive e si sviluppa nei fondali bassi e incontaminati del Mediterraneo. Simile nella forma ad una madreperla, deve il nome al suo modo di spuntare dalle sabbie proprio come una pinna, come se nascondesse nelle profondità del mare la parte più preziosa del suo essere. Infatti, è da ciò che la ancora al fondale, i filamenti che affondano nella sabbia, che si ricava un tessuto degno di re e regine. Nella Bibbia, è scritto che fossero di bisso le vesti di re Salomone e a Roma imperiale, racconta Plinio, le donne di rango pagavano a peso d’oro ciò che per Apuleio, nelle Metamorfosi, è il tessuto “dal colore cangiante…dal bianco splendente al giallo del fiore di croco” della tunica di Iside, la dea che gli apparve sfolgorante dal mare. Nella Taranto dell’epoca d’oro, quella classica, di bisso erano fatte le “tarantinidie”, vesti femminili trasparenti e provocanti. In letteratura, tuttavia, non è sempre chiaro se è di bisso marino che si parla, di lino finissimo o addirittura di un colore molto vicino al porpora.
Nel 500 d.C., all’epoca di Giustiniano, la seta di terra importata dalla Cina e ricavata dai bachi soppiantò, per facilità di lavorazione e di reperimento, quella del mare e il bisso fu usato per ricamare anziché per tessere: occorrono infatti mille pinne per produrre circa due o tre etti di seta marina, oltre che trattamenti lunghi ed elaborati per il confezionamento di piccoli oggetti. Tuttavia, la fama del bisso, divenuto sempre più raro, si propagherà nei secoli come il vento di cui sembra figlio. Nel XIX secolo i manufatti in bisso non mancarono nelle grandi esposizioni universali di Londra o Parigi, dove furono venduti ad un prezzo che superava di cento volte quello della lana più pregiata. Nel 1914, Vittorio Alinari fotografa, a Sant’Antioco, alcune ragazze intente alla filatura del bisso nella scuola di Italo Diana, maestro di un’arte ormai perduta. Tra queste, Leonilde Mereu, la nonna dell’ultimo maestro rimasto: Chiara Vigo.
A diciotto anni, Chiara presta giuramento al bisso e al mare, di cui divenne sposa fedele. In virtù del rispetto sacrale che nutre nei confronti dell’acqua e della vita, studia per anni il modo di estrarre, senza uccidere il mollusco, i filamenti dalle conchiglie oggi specie protetta: ne preleva soltanto i fiocchi terminali, re-insabbia accuratamente le pinne e infine si assicura che abbiano riaperto le valve. I bioccoli così ricavati vengono sottoposti a lunghi e pazienti trattamenti: dissalati per giorni in acqua dolce, asciugati in luoghi ben ventilati e immersi nel succo di limone per farne risaltare la lucentezza, sono poi cardati a spillo con piccole spazzole che ne eliminano impurità e incrostazioni. La difficile filatura manuale con fusi a piombo costituisce l’ultima fase di una lavorazione millenaria prima che il bisso venga affidato al telaio.
Il laboratorio di Chiara Vigo è un museo vivo: non si paga per entrare, non ci sono percorsi obbligati. Lei riceve secondo le esigenze dei visitatori e racconta loro una storia antica che intreccia i propri fili col vento e con le onde del mare. Dell’arte – sostiene Chiara – non si può fare mercato perché ciò che vive nelle profondità del nostro essere è inalienabile.
Non lo capirono, agli inizi del XX secolo, due nomi legati al mondo del bisso e il filo di seta che legava Sant’Antioco a Taranto si tinse di cupidigia. I racconti intorno al dottor Basso-Arnoux in Sardegna e Rita Del Bene, tessitrice, in Puglia, sono storie di moderna mercificazione, se non di avidità. Tentarono entrambi la strada della vendita del bisso su larga scala: Basso-Arnoux riuscì a mettere insieme quarantatré chili di ciuffi di bisso e ne propose la lavorazione a diverse filande del nord Italia. “Fa ridere – si legge nei suoi scritti – il sentire gli industriali chiedere quante tonnellate possono averne! Quasi si trattasse di alghe marine o di juta…”. Anche in Svizzera, una fabbrica celebre per le sperimentazioni sui tessuti si rifiutò di trattare il bisso, perché le impurità avrebbero bloccato le macchine per giorni.
Sulla vicenda della Del Bene, molto simile a quella del dottore sardo, aleggia un’aura di leggenda. Pare fosse donna molto avida, la tessitrice tarantina. Sesta di otto figli e sempre angustiata da problemi economici, riteneva di poter diventare molto ricca grazie alla vendita e alla filatura industriale del bisso, intravedendovi il suo riscatto personale. Raccolse, si dice, tremilacinquecento chili di bisso perché venisse filato, ma il giorno in cui li consegnò alla fabbrica, morì di colpo per un infarto e i padroni della seteria, che avevano tentato di piegare il bisso all’automazione, videro tutte le loro macchine andare distrutte.
Ancora oggi, il bisso impone le sue regole quasi mistiche: la sua lavorazione non si può ipotizzare che abbia un futuro, almeno secondo i parametri dell’economia globalizzata. Una seta che può essere reperita solo in piccolissime quantità e non consente altra tessitura che quella manuale, non può essere considerata appetibile attività d’impresa. Le ricerche compiute dalla Scuola di Maricoltura di Taranto e finalizzate all’allevamento assistito della pinna nobilis, hanno evidenziato che, pur proteggendo i fondali dalla pesca a strascico con scogliere sommerse sperimentali e trapiantandovi giovani esemplari del mollusco, i risultati ottenuti non possono che relegare il bisso all’interno delle attività tessili “amatoriali”.
Del resto, il bisso stesso non desidera diventare una voce di bilancio. È quel tipo d’oro che può sfavillare solo sotto una particolare luce: quella di uno sguardo pieno di stupore. La fascinazione del mare e del vento non può essere svenduta, ma soltanto offerta a chi è aperto a comprendere che la vita stessa è una complessa tessitura i cui fili di bisso dorato sono la nostra intima disponibilità alla meraviglia.
L’esistenza della pinna nobilis va preservata esattamente come i fondali incontaminati in cui vive. Le conoscenze antiche e i maestri che le tramandano sono tesori viventi che, anche quando non possono essere capitalizzati, sono comunque fonti di ricchezza inestinguibile. Tutto sta nel capire a quale tipo di ricchezza tendere: la pazienza richiesta dalla tessitura disciplina il cuore, il vero valore del bisso risiede nella devozione che esige, non nella sua rarità. E se c’è un filo che lega tutti noi è quello dell’intimo e profondo desiderio di armonia, un’armonia che per Chiara Vigo, l’ultimo maestro di bisso, viene dal mare della sua Sardegna.
Miriam Corongiu
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