Ieri sera mi sono goduta in ogni sua scena, un magnifico film. Sono stanca e non in grado di scrivere una recensione, ma nel Web ne ho trovata una che corrisponde a quel che volevo scrivere io, di certo non così bene, ma il contenuto corrisponde al mio pensiero. Mi ronza in testa una frase pronunciata dalla straordinaria attrice che impersona Clementine Hozier, la moglie di Churchill.
Seduta davanti allo specchio della sua toilette, guardandosi in viso, dice:
Ecco come si presenta una donna stanca
quando la contentezza le manca.
Non sono del tutto certa che il secondo verso sia giusto, riguardo la contentezza, ma penso si tratti comunque di un sinonimo. Ho cercato ma non ho trovato e dovrei rivedermi tutto il film per risentirla. Ma è vero, quando manca la serenità, la tranquillità, il volto di una donna si sciupa, impallidisce, si formano occhiaie e piccole rughe d'espressione, che la fanno apparire più vecchia.
Ma ecco la splendida recensione che ho trovato su
"L’ora
più buia": Wright trasforma Churchill nell’Enrico V di Shakespeare
C'è qualcosa di bellissimo in The darkest
hour, l'ultimo film di Joe Wright con un sorprendente Gary Oldman nei panni di Winston Churchill:
si tratta della forza letteraria di questa pellicola. Non perché quello sullo
schermo sia un racconto romanzato di una parte della vita Churchill, non
intendo questo: voglio dire che è lo stile narrativo utilizzato dal regista a
essere squisitamente letterario.
Ciò che ne scaturisce è
l'immagine del più celebre Primo Ministro britannico come di un eroe romantico,
pur nella salda cornice storica in cui i fatti sono proposti. Non è un caso che
Wright – a mio avviso il più raffinato cineasta inglese della sua generazione –
prima di The darkest Hour si sia dedicato a tradurre sullo
schermo opere di letteratura: classici come Orgoglio e Pregiudizio e Anna Karenina, o potenti novelle contemporanee
come Espiazione di McEwan. Sempre con risultati
d'eccellenza.
Ora, per la prima volta, si
dedica a un lavoro importante, la cui sceneggiatura non è basata su di un
romanzo. Però l'approccio è il medesimo: quasi quegli anni che corrono dalla
nomina di Churchill a primo ministro sino all'apice della seconda guerra
mondiale, narrati in The darkest Hour,
fossero materia di un racconto che vede Churchill come protagonista fantastico.
Così, la storia diviene storytelling letterario,
in una sorta di romanzo storico al contrario.
Benché (e credo sia uno svarione da parte
dell'Accademy) Wright non sia tra i nominati all'Oscar come miglior regista, è
proprio la narrazione registica che rende speciale questo lavoro, unitamente a
una sceneggiatura di finissima fattura (neanche questa nominata, sigh!), nella
quale risaltano la bellezza e la profondità dei dialoghi, mai scontati e
brillanti.
Come la definizione dei personaggi, non solo nella
giganteggiante figura di Churchill col volto di Oldman, ma anche in quelli di
secondo piano: la sua segreteria, cui presta il viso la sempre incantevole Lily
James; sua moglie Clementine (figura chiave della vita di Churchill), che pur
nelle sparute pose del film emerge con peculiarità, grazie alla bravura di
un'attrice del calibro di Kristin Scott Thomas; per non parlare della maestria
con cui ci raggiungono dallo schermo i profili umani e storici di uomini come
Re Giorgio, Chamberlain, Halifax, al centro di quel vortice politico che il
film restituisce allo spettatore con grazia, originalità e intelligenza.
Certo, come è stato sottolineato, la recitazione di
Gary Oldman è superba. L'attore, in un camaleontico lavoro sul personaggio,
diventa davvero Churchill: nell'elocuzione stentorea e biascicante di tabacco e
whiskey (che ovviamente il doppiaggio italiano non può restituire in pieno),
nella gestualità, nella postura, nella camminata. Il trucco di Kazuhiro Tusji
fa il resto, compiendo una vera magia.
È la prima volta che Wright non
lavora con Keira Knightley come protagonista – ma gli sforzi di Tusji, anche se
è uno dei più bravi truccatori in circolazione, in quel caso non sarebbero
stati sufficienti a farla somigliare a Churchill. Con Oldman l'impresa riesce
invece alla grande e la sua interpretazione non ha niente da invidiare agli
altri Churchill visti prima sullo schermo (John Lithgow in The Crown, Timothy Spall in The King's Speech, solo per citare i più recenti di una
lunga lista).
Ma, soprattutto, il film racconta la personalità
complessa e affascinante di quest'uomo, attraverso uno spaccato del momento
fondamentale della sua vita: quando, nell'ora più buia del moderno Impero
britannico, il destino lo chiamò – contro la volontà di molti – a portare sulle
spalle tutto il peso della storia: a decidere drammaticamente di opporsi e
resistere al pericolo del Nazionalsocialismo, che pareva dovesse ingoiare
l'Europa di lì a poco.
Churchill nell'opera di Wright diviene così, più
che un primo ministro, un moderno Enrico V: così come il Re raccontato da
Shakespeare si opponeva all'imponenza delle truppe francesi ad Agincourt,
vincendo una battaglia che nessuno credeva affrontabile; così qui Churchill si
oppone ai tedeschi, resistendo laddove tutti volevano trattare.
Lo capisci, lo senti Churchill in questo film: lo
conosci come uomo fuori dagli schemi, oratore impareggiabile, uomo brusco e
impetuoso, amante del whisky e dello champagne (anche ben prima del tramonto),
individualista e intelligentissimo, colto, cocciuto al punto di seguire le sue
idee fino al possibile sfacelo, ironico fino al parossisimo, carismatico come pochi
uomini sono stati nel suo secolo.
A tratti, Wright ne fa
un'incarnazione dell'Inghilterra stessa, proprio come Shakespeare aveva fatto
con Enrico V. Churchill ha, dell'essenza dello spirito inglese, la fierezza che
non si arrende, la self-reliance, quella
fiducia in se stessi che può cambiare il destino; e inoltre l'ironia:
quell'impareggiabile humor che
compare in varie scene, come nel gustosissimo siparietto in cui il Primo
Ministro risponde al suo Re (che, un po' impressionato nel vederlo sorseggiare
whiskey alle prime ore del giorno, gli chiede: "Ma come fa a bere a
quest'ora?"), dicendo semplicemente: "Practice".
"Allenamento".
L'impostazione teatrale della regia al servizio
della sceneggiatura regge sempre narrativamente, salvo forse alcuni momenti che
paiono un po' caricaturali, tipo la scena in cui Churchill prende la metro e si
ferma a conversare col popolo. Ma si tratta di una caduta estemporanea.
Guardando questo film
comparativamente con Dunkirk di Nolan, uscito questo stesso anno
per raccontare da un'altra prospettiva il medesimo drammatico frangente storico
della Operazione Dynamo che Churchill volle in quelle ore concitate, si avranno
quasi due opposti manifesti di poetica cinematografica: là, il primato del dato
visual, in un cinema in cui il dialogo diventa contingente; qui, la forza delle
letteratura tradotta sullo schermo.
Ognuno sceglierà in quale forma di cinema credere.
E, si badi bene, dire di apprezzarle entrambe è una posizione molto debole:
perché qui il giudizio estetico diventa fede in una forma di narrazione. Cosa
ci restituisce di più l'essenza della storia? Il dato visuale o quello
letterario? Nolan o Wright?
Di certo, per fare un film in cui finalmente si
riafferma la centralità della sceneggiatura, del linguaggio, e della
recitazione nell'arte cinematografica, Churchill era il personaggio storico
ideale. Perché lui – non ci dimentichiamo mai: unico uomo politico d'ogni tempo
a essere insignito, non senza ragioni, del Nobel per la letteratura – utilizzò
proprio le parole per cambiare il mondo.
Come Enrico V parlando alle sue truppe ad Agincourt il giorno di San
Crispino, Churchill si rivolse al parlamento e al popolo dell'Impero britannico
per invertire il corso della storia. E furono anzitutto quelle sue parole a
riuscire nell'impresa. Com'è detto nella frase-chiave di tutto il film,
pronunciata dal suo avversario, Churchill "mobilized the english language
and sent it to battle": "ha mobilitato la lingua inglese e
l'ha spedita in guerra".
Cesare
Catà
Vorrei aggiungere un piccolo particolare: in questo articolo ho dovuto correggere alcune volte il nome di Churchill, a volte trovato così: Churcill. Oppure Chamberlain scritto in questo modo Chamberalin) una semplice inversione di lettere, nulla di grave, così come il nome di Timothy Spall era scritto senza la H.
Non si tratta di un rimprovero al bravissimo Cesare Catà, sia chiaro! Ho solo voluto far presente che alcuni refusi sfuggono anche alle grandi firme, e ai correttori di bozze. Mi sono sempre sentita in colpa quando qualcuno mi faceva notare i miei errori di battuta, o quant'altro che inficiava la mia scrittura. Ora mi sento sollevata, capita anche alle migliori firme, di cadere in qualche piccola pecca. La mia anima così si pacifica!
Danila Oppio