POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

domenica, dicembre 15

APPUNTI SULLA STORIA DELLA RAPPRESENTAZIONE di Coucou, Sèlavy!


APPUNTI SULLA STORIA DELLA RAPPRESENTAZIONE

(Da un'antica mia tesi, brevemente riveduta, intitolata "L'Altrove dell'attore, simulacro dell'Io ovvero Il comico". In questo capitolo partivo da Aristotele per giungere all'Et in Arcadia ego)


Aristotele nella Poetica individuava nell’“imitazione della natura” il fondamento ultimo di ogni espressione artistica. Ma cosa si imita? Quando Nietzsche squarcia il residuo antico velo dell’“in sé”, lo fa precisamente nominando un altro velo e rimuovendo –apparentemente – il rapporto dialettico che inevitabilmente ne consegue: l’apparenza è proprio tutto, e non un termine opposto alla realtà fatta di “in sé”. È il Crepuscolo degli idoli, se “il mondo vero finì per diventare favola”. Infatti “abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no. Con il mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!” Sottrazione per eccesso, dissolto e ricongiunto al Nulla.
Cosa si imita, dunque? Eppoi, diceva Kant, l’occhio innocente è cieco e la mente vergine è vuota... Chi imita cosa, e come? Per Goodman, d’altro canto, la somiglianza non sarebbe affatto distintiva della rappresentazione: “La somiglianza è simmetrica: B è simile ad A quanto A è simile a B, ma mentre un quadro può rappresentare il duca di Wellington, il duca a sua volta non rappresenta un quadro” . O, se si preferisce, Ceci n’est pas une pipe: come è noto, nell’opera di Magritte l’idiosincrasia indagata a livello dei significati fra figuralità (l’ immagine della pipa) e scrittura (“questa non è una pipa”), per nulla velata, anzi, macroscopicamente offerta sino alla sfocatura, si rivela poi in pura apparenza; perché chiaramente l’immagine non è la cosa, in primo luogo, e certo l’immagine della pipa riprodotta su tela non è l’immagine della pipa prodotta dai nostri occhi soltanto: noi guardiamo l’immagine prodotta dai nostri occhi che guardano la riproduzione, da altri occhi mediata ( e non è questo il tempo d’occuparsi di ulteriori mediazioni, giacché ciò implicherebbe quantomeno un estemporaneo tentativo di definizione estetica del concetto di “arte”, tentativo qui gratuito abbastanza da meritare disattendimento, avendo assunto come cominciamento e magari falso passo la “mimesis” della poetica aristotelica), dell’oggetto.

In mezzo, un altro iato di mancata identità, a tendersi verso l’ Altro che altro non è dal solito gioco autoreferenziale dell’Io… e come potrebbero il “ceci” e il “pipe” essere altro dal linguaggio, e successivamente dalla scrittura, vincolati appunto dal sistema convenzionalmente simbolico dei segni? La parola che riferisce, rimanda, parola rimane. “Pipe” non soltanto non è l’ oggetto-pipa, ma neanche l’immagine, e meno che mai quell’immagine riprodotta accanto alla scritta; pure i significanti che “riferirebbero” la pipa si configurano (fonicamente e graficamente) attraverso un’opposizione dialettica in simmetria polare: localizzati difatti alle estremità della proposizione, doppi entrambi che hanno rigettato al di fuori da sé ogni possibile identità, essi sono congiunti dalla negazione “n’est pas”. Negata così pure l’identità ultima, quella di un termine con l’ altro, si fa presto a rincasare dalla finestra; casa-logica affermativa, che pareva minata, mutilata dall’incipit… lapalissiana, e matematicamente elementare, se

“ceci”≠ “pipe”
Oppure, come dicevamo

Immagine di una pipa≠ l’ oggetto pipa

Abbandoniamo ora la pipa di Magritte a tale effimera, istantanea riesumazione, per così dire, ricomposta … lasciamo affiorare, tra le visioni, una tela risalente al 1640 circa (ma ne esiste anche una versione precedente, datata 1630): I pastori di Arcadia di Poussin.
Immersa in un idillio pastorale che tuttavia si fa già boschereccio e tetramente opaco, l’epifania barocca di una tomba in pietra che nitida reca l’incisione “Et in Arcadia ego” è un memento mori davvero di gran moda all’ epoca, in verità. Quattro figure attorno, i loro sguardi, mortuaria visione di chi resta (a “rimuginare”, direbbe Walter Benjamin), il terrore che aprirà all’abisso senza fondo della malinconia, immoto e silente… alla Morte stessa la Parola, come un fumetto, in prima persona: guarda caso, a essa solamente nel dipinto appartiene. La Parola, e ancor più la Scrittura, questa eternità incisa… lo sguardo è anzitutto il suo, quello della Morte, ennesimo specchio tramite il quale può oggettivarsi il panico dei viventi: Tutto fluttuante ripreso e metabolizzato dall’universo cosale affinché qualcuno o qualcos’Altro, ad ogni Ritorno, guardi ancora.

Ricordiamo che nel dipinto del Guercino Et in Arcadia ego, precedente a quello di Poussin, la Morte era addirittura esibita all’esterno, priva di qualsivoglia monumentalità tombale; ma perfino un teschio necessita didascalia, a quanto pare, reiterato memento mori del titolo “et in Arcadia ego”: l’uomo non ha mai creduto ciecamente – è il caso di dirlo – alle immagini, mimesi o meno, in fin dei conti non confidando affatto nel loro presunto potere rappresentativo. Non bastavano più e non bastavano mai; l’immagine come sguardo congelato si offre, sempre mancante, insidioso, ambiguo, e dunque doverosamente oggettivato dall’esterno in didascalia. Qui la Parola viene inscritta sino ad invadere l’interno dell’immagine, ed è da quest’interno che lo scritto immobile e irrequieto (morto di un morto) eccede l’immagine stessa perché corpo estraneo: nella ripetizione e nel ritorno non può solamente raddoppiarla … vera e propria apparizione, per nulla intercambiabile con essa, vive di apparenza.

Così la scrittura si fa fantasma dell’immagine, o desiderio inconscio degli umani attribuito alle immagini; desiderio di Ordine, potere gerarchizzante di opposizioni. Attraverso un fantasma, tra idilliache spoglie d’Arcadia e natura in decomposizione, si è preparato l’ ennesimo ritorno al Logos.

Dalla didascalia parodiata di Ceci n’est pas une pipe, altrove nel tempo, alla morte esibita/occultata in natura, una volta offuscati, trapassati e poi richiusi i varchi della rappresentazione; natura inanimata, infine, natura morta che nulla più vuol dire, niente opacità, segreti della visuale mai rivelati né troppo nascosti. Nessun mistero.

La storia della rappresentazione, in primo luogo crisi della storia giacché minata come ogni storia, è anche una storia della crisi.
















A sinistra I pastori di Arcadia (N. Poussin), a destra Et in Arcadia ego (Guercino)

Coucou, Sèlavy!


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