APPUNTI SULLA STORIA DELLA
RAPPRESENTAZIONE
(Da un'antica mia tesi, brevemente riveduta, intitolata "L'Altrove
dell'attore, simulacro dell'Io ovvero Il comico". In questo capitolo
partivo da Aristotele per giungere all'Et in Arcadia ego)
Aristotele nella Poetica individuava
nell’“imitazione della natura” il fondamento ultimo di ogni espressione
artistica. Ma cosa si imita? Quando Nietzsche squarcia il residuo antico velo
dell’“in sé”, lo fa precisamente nominando un altro velo e rimuovendo
–apparentemente – il rapporto dialettico che inevitabilmente ne consegue:
l’apparenza è proprio tutto, e non un termine opposto alla realtà fatta di “in
sé”. È il Crepuscolo degli idoli, se “il mondo vero finì per diventare favola”.
Infatti “abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse
quello apparente? Ma no. Con il mondo vero abbiamo eliminato anche quello
apparente!” Sottrazione per eccesso, dissolto e ricongiunto al Nulla.
Cosa si imita, dunque? Eppoi, diceva Kant, l’occhio innocente è cieco e la
mente vergine è vuota... Chi imita cosa, e come? Per Goodman, d’altro canto, la
somiglianza non sarebbe affatto distintiva della rappresentazione: “La
somiglianza è simmetrica: B è simile ad A quanto A è simile a B, ma mentre un
quadro può rappresentare il duca di Wellington, il duca a sua volta non
rappresenta un quadro” . O, se si preferisce, Ceci n’est pas une pipe: come è
noto, nell’opera di Magritte l’idiosincrasia indagata a livello dei significati
fra figuralità (l’ immagine della pipa) e scrittura (“questa non è una pipa”),
per nulla velata, anzi, macroscopicamente offerta sino alla sfocatura, si
rivela poi in pura apparenza; perché chiaramente l’immagine non è la cosa, in
primo luogo, e certo l’immagine della pipa riprodotta su tela non è l’immagine
della pipa prodotta dai nostri occhi soltanto: noi guardiamo l’immagine
prodotta dai nostri occhi che guardano la riproduzione, da altri occhi mediata
( e non è questo il tempo d’occuparsi di ulteriori mediazioni, giacché ciò
implicherebbe quantomeno un estemporaneo tentativo di definizione estetica del
concetto di “arte”, tentativo qui gratuito abbastanza da meritare
disattendimento, avendo assunto come cominciamento e magari falso passo la
“mimesis” della poetica aristotelica), dell’oggetto.
In mezzo, un altro iato di mancata identità, a tendersi verso l’ Altro che
altro non è dal solito gioco autoreferenziale dell’Io… e come potrebbero il
“ceci” e il “pipe” essere altro dal linguaggio, e successivamente dalla
scrittura, vincolati appunto dal sistema convenzionalmente simbolico dei segni?
La parola che riferisce, rimanda, parola rimane. “Pipe” non soltanto non è l’
oggetto-pipa, ma neanche l’immagine, e meno che mai quell’immagine riprodotta
accanto alla scritta; pure i significanti che “riferirebbero” la pipa si
configurano (fonicamente e graficamente) attraverso un’opposizione dialettica
in simmetria polare: localizzati difatti alle estremità della proposizione,
doppi entrambi che hanno rigettato al di fuori da sé ogni possibile identità,
essi sono congiunti dalla negazione “n’est pas”. Negata così pure l’identità
ultima, quella di un termine con l’ altro, si fa presto a rincasare dalla
finestra; casa-logica affermativa, che pareva minata, mutilata dall’incipit…
lapalissiana, e matematicamente elementare, se
“ceci”≠ “pipe”
Oppure, come dicevamo
Immagine di una pipa≠ l’ oggetto pipa
Abbandoniamo ora la pipa di Magritte
a tale effimera, istantanea riesumazione, per così dire, ricomposta … lasciamo
affiorare, tra le visioni, una tela risalente al 1640 circa (ma ne esiste anche
una versione precedente, datata 1630): I pastori di Arcadia di Poussin.
Immersa in un idillio pastorale che tuttavia si fa già boschereccio e
tetramente opaco, l’epifania barocca di una tomba in pietra che nitida reca
l’incisione “Et in Arcadia ego” è un memento mori davvero di gran moda all’
epoca, in verità. Quattro figure attorno, i loro sguardi, mortuaria visione di
chi resta (a “rimuginare”, direbbe Walter Benjamin), il terrore che aprirà
all’abisso senza fondo della malinconia, immoto e silente… alla Morte stessa la
Parola, come un fumetto, in prima persona: guarda caso, a essa solamente nel
dipinto appartiene. La Parola, e ancor più la Scrittura, questa eternità
incisa… lo sguardo è anzitutto il suo, quello della Morte, ennesimo specchio
tramite il quale può oggettivarsi il panico dei viventi: Tutto fluttuante
ripreso e metabolizzato dall’universo cosale affinché qualcuno o qualcos’Altro,
ad ogni Ritorno, guardi ancora.
Ricordiamo che nel dipinto del Guercino Et in Arcadia ego, precedente a quello
di Poussin, la Morte era addirittura esibita all’esterno, priva di qualsivoglia
monumentalità tombale; ma perfino un teschio necessita didascalia, a quanto
pare, reiterato memento mori del titolo “et in Arcadia ego”: l’uomo non ha mai
creduto ciecamente – è il caso di dirlo – alle immagini, mimesi o meno, in fin
dei conti non confidando affatto nel loro presunto potere rappresentativo. Non
bastavano più e non bastavano mai; l’immagine come sguardo congelato si offre,
sempre mancante, insidioso, ambiguo, e dunque doverosamente oggettivato
dall’esterno in didascalia. Qui la Parola viene inscritta sino ad invadere
l’interno dell’immagine, ed è da quest’interno che lo scritto immobile e
irrequieto (morto di un morto) eccede l’immagine stessa perché corpo estraneo:
nella ripetizione e nel ritorno non può solamente raddoppiarla … vera e propria
apparizione, per nulla intercambiabile con essa, vive di apparenza.
Così la scrittura si fa fantasma dell’immagine, o desiderio inconscio degli
umani attribuito alle immagini; desiderio di Ordine, potere gerarchizzante di
opposizioni. Attraverso un fantasma, tra idilliache spoglie d’Arcadia e natura
in decomposizione, si è preparato l’ ennesimo ritorno al Logos.
Dalla didascalia parodiata di Ceci n’est pas une pipe, altrove nel tempo, alla
morte esibita/occultata in natura, una volta offuscati, trapassati e poi
richiusi i varchi della rappresentazione; natura inanimata, infine, natura
morta che nulla più vuol dire, niente opacità, segreti della visuale mai
rivelati né troppo nascosti. Nessun mistero.
La storia della rappresentazione, in primo luogo crisi della storia giacché
minata come ogni storia, è anche una storia della crisi.
A sinistra I pastori di Arcadia (N. Poussin), a destra Et in Arcadia ego (Guercino)
Coucou, Sèlavy!
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