Sarà un bel racconto? Il racconto sarà
bello?
Sarà come quando cucino qualcosa di
nuovo.
Non tutti i palati lo apprezzeranno.
Non tutti gli stomaci lo digeriranno
allo stesso modo.
‘ Man kann nicht alle befriedigen ‘ è
il mio motto da quando ero giovane.
‘ Non si può accontentare tutti ‘ e,
quando ero giovane, aveva un piacevole doppio senso.
Comunque sia, gli avventori possono
star certi che quello che ho composto è stato composto con onestà, come sempre.
E adesso.
Il piatto è servito.
Angela Fabbri
(Scritto tra
la mattina del 21 dicembre 2013 e la sera del 26 gennaio 2014)
Dedicato a Sesìl e ai suoi vent'anni, ricordando i miei.
Dedicato a Sesìl e ai suoi vent'anni, ricordando i miei.
Scrivo questa
breve storia, un piccolo pezzo di autobiografia, spinta dal pensiero della mia
giovane amica Sesìl in un momento complicato di scelta nella sua vita.
Ho ricordato,
grazie a lei, quello che tanti anni fa ho fatto io, prendendo finalmente in
mano la mia.
La situazione
e il clima rispecchiano i tempi della crisi di oggi (2011, 2012, 13, 14 e
prosieguo), almeno adesso così dicono paragonandoli a quell’ultima parte degli
anni settanta del ‘900.
Ferrara, Emilia-Romagna, Italia.
Era il
Capodanno 1977. Pranzo a casa della Zia Gina e dello Zio Alfredo e di mia
cugina Daniela con mamma, papà, il fratello grande Daniele e il fratello
piccolo Stefano.
Da 3 mesi
esatti (se ci si prendono questi impegni si è sempre molto precisi) avevo
smesso di bere, quando mi ero resa conto che sobillare il mio cervello non mi
aiutava certo a metterci ordine dentro.
A me la crisi
fece bene, mi aprì gli occhi e mi disse di avere la mente lucida e il cuore
forte.
Era il primo
dopopranzo, quando con fratelli e cugina, inframmezzato dai sorrisi e dalle
brevi intromissioni dei miei genitori, dagli andirivieni sala-cucina-sala della
zia che comunque le permettevano di tenerci tutti sott’occhio (lo zio Alfredo
era già andato di là a pisolare per la solita oretta nella sua comoda poltrona
accanto alla stufa), dicevo, con fratelli e cugina si cominciava il nostro
chiacchierare.
Anche fra noi
lo spazio per intervenire era, accettato per tradizione familiare, relativo
alle nostre rispettive età. Stefano era il più giovane (17 anni) e faticava a
farsi sentire. Ma a dire il vero faticavo anch’io (25) perché dall’alto della
sua venerabile età e con l’aiuto di una bella voce squillante, mia cugina
Daniela (30) faceva la parte del leone. Mio fratello Daniele (28) era il numero
due.
A me era
consentito avviare un nuovo argomento ma, visto che ero considerata una specie
di genietto talentuoso troppo fuori da tutti gli schemi, mi mettevano sempre
con abilità in un angolo.
E ci stavo,
anche volentieri talvolta, per il grande affetto che mi lega a entrambi.
Succede anche adesso, dopo strati di anni che si sono accumulati sopra di noi e
abbiamo più o meno l’età che allora avevano i nostri genitori.
Solo che
proprio quel giorno io avevo un gran bisogno di parlare, soprattutto di dire
delle cose. E quel rimbalzello Daniela-Daniele mi faceva sentire come un cane a
cui il pallone viene lasciato solo un attimo per quietarlo, e subito ripreso
via.
D’improvviso
avevo bisogno di risposte. Di attenzione. Gli effetti del non-bere si facevano
sentire.
Avevo bisogno
di affetto, volevo essere ascoltata, toccata, abbracciata e parlare del futuro.
E presi
un’improvvisa decisione di cui nessuno si accorse. Andai in cucina.
A mia zia che
riordinava dissi che dovevo uscire per un po’, che dovevo assolutamente andare
a
trovare una
persona che non avevo visto ieri, la notte dell’ultimo dell’anno.
Ero così
agitata che la zia disse solo sì senza alcuna domanda.
Non ricordo se
gli telefonai per sincerarmi se era a casa. Dentro di me ero certa di trovarlo.
Camminavo in fretta, senza pensare, divoravo la strada come se stessi divorando
la mia stessa vita.
Claudio era il
mio primo amore, ma il 1° gennaio del 1977, a 30 anni suonati, faceva ancora l’Università,
e anche a me ne erano suonati 25 in quella crisi. Economica, psicologica,
sociale.
Nel suo caso e
nel mio avevamo un papà che stava bene a portafoglio, la cosiddetta classe
media, così Claudio si era gingillato all’Università e io avevo vagolato tra lo
scrivere, i circoli culturali, un’Università che non avevo mai voluto
incominciare sul serio e mi creava solo pesi e sensi di colpa e tentativi di
lavoro estivo (fragole) o autunnale (mele e pere). Perché l’agricoltura mi
sembrava terra libera dove non si guarda all’età, al sesso, alla lingua
parlata, al credo e a se uno non crede in niente o magari solo all’azzurro del
cielo sulla sua zucca.
Ma anche qui,
un tempo e oggi, ci sono comunque entrati i soprusi. Lo racconta bene mio
cugino Paolo nel suo libro “ Il filo della penna d’oro “, ambientato all’inizio
degli anni cinquanta del secolo appena trascorso, dove i braccianti del
ferrarese scioperano per avere un aumento e i padroni fanno arrivare i
sostituti dal ravennate.
Ma la polizia
li carica e li bastona.
Non vengono
fatti a pezzi loro, ma le loro biciclette sì, che per un ferrarese è tuttora
come sfracellargli tutti e due i piedi e per quei braccianti di allora era
togliergli il mezzo di trasporto tra la propria casa e il posto del lavoro.
Tuttavia,
visto che i veri piedi non glieli avevano massacrati, funzionavano ancora come
mezzo di locomozione: buon cuore delle forze dell’ordine e dei loro mandanti,
in un’epoca appena appena
post-squadrista.
Per entrare a
fare la Stagione Saccarifera occorreva avere Santi molto speciali che
possedevano le chiavi d’accesso allo Zuccherificio. Anche perché, entrati una
volta, quel posto di lavoro diventava un feudo rinnovabile tutte le annate
successive, un po’ come fanno i ‘borghesi’ con i posti dell’abbonamento a teatro.
Lavori di
pulizia? Ahimè era tutto patrimonio delle Cooperative legate al PCI. Senza la
tessera di quel partito, dove volevi cercare mai di entrare?
E, a dir la
verità, io non avevo la tessera di nessun partito, anche se avevo la mia idea
di società che significava prima di tutto lavoro. Se a qualcuno poi venisse in
mente di curiosare su quale fosse il mio orientamento politico o partitico di
allora, sappia che, allora, il voto era ancora tenuto segreto.
Era ancora
l’epoca in cui noi ragazzi restavamo uno strano miscuglio fra le aspettative
dei nostri genitori, costruite naturalmente attraverso i loro sacrifici, e
quello che potevano essere i nostri desideri. Quando anche questi ultimi si
erano delineati ben precisi (in me ad esempio scrivere e disegnare) si
scontravano dentro di noi con l’educazione ricevuta che dava sempre ragione al
certo e emarginava l’incerto.
Voglio dire
che non era per niente semplice dar forza ai propri sogni e aspirazioni
personali (eresie per la nostra famiglia come sono da sempre le novità portate
dai giovani perché sovvertono la tradizione, cioè la ‘stabilità’ faticosamente
costruita e soprattutto sono ‘in prova’, da dimostrare) visto che riconoscevamo
del buono nel pensiero dei più grandi di noi e rifiutarlo o accantonarlo in
parte creava, almeno a me, grandi sensi di colpa e di smarrimento. Mi sentivo
ancor più inadeguata di quello che era già normale che fosse prima dei
vent’anni, quando sei per natura sempre fuori posto.
Claudio era il
mio primo amore, un bel ragazzone mezzo veneto e mezzo ferrarese, era bello
stare fra le sue braccia calde così come dava calore il solo pensiero che
esisteva. E un infinito senso di vuoto quando non c’era, come ieri notte,
l’ultimo dell’anno. Aveva fatto sapere di avere la febbre e non sarebbe uscito.
Lo avevo
trovato come al solito inopportuno, farsi venire la febbre proprio ieri.
Un altro
sarebbe venuto lo stesso, così invece mi faceva rabbia, ma, tant’è, forse mi
piaceva proprio perché quando
diceva no era no.
Avevo solo
lui, al di fuori di me, era come un faro e con la sua luce mi confrontavo in
quella piccola città di provincia dove ero nata.
Fu lui a
aprirmi la porta, i suoi erano andati a riposare e entrammo nel piccolo salotto
al pianterreno.
Ci fu qualche
gioco d’amore, forse più insistente del solito. Poi, dalla poltrona dove ero
seduta, lui in ginocchio davanti a me, cominciai a parlargli. Di miei sogni, di
mie fantasie, che ne so, ma lui era tutto preso da me non riuscivo a avere la
sua attenzione.
Allora, allora
gli spiccicai tutto un mio ragionamento nuovo: che mi sarebbe piaciuto avere
molti uomini e un figlio da ogni uomo che avrei amato.
Allora, allora
lui si alzò, si allontanò da me e cominciò a attraversare pesantemente il
salotto in lungo in largo e in tondo. E siccome il salotto era piccolo, Claudio
sembrava proprio un leone in gabbia come l’animale che sta nel suo segno.
Allora non mi
ero accorta (?) che stavo parlando all’amico, mentre era l’innamorato che mi
ascoltava.
Il risultato
fu il disastro. Dentro di lui.
Constatarlo e
poi le sue parole, proiettarono invece un film di speranza dentro di me.
Lui, lui
voleva sposarsi, metter su famiglia, i figli sì, ma presto, che suo padre l’aveva
avuto da vecchio e non si erano mai parlati.
Allora tutto
fu chiaro. Anche il rischio che avevo corso. Di esser chiusa in prigione. Nella
naturale prigione di ogni giovane femmina d’epoca.
Io volevo
disperatamente lui, non una vita con lui.
Le altre cose
che disse non le ricordo, forse mi rimproverò le mie parole assurde e
fulminanti, doveva essere piuttosto
confuso, mentre io ero lucida fino alla follia.
E avevo in
testa solo questo “ Ho fatto le cose per bene. E’ finito tutto il primo
dell’anno. Facile da ricordare per sempre “.
Quando sono
uscita da casa sua ho camminato di corsa, ho pianto, ma avevo saputo una cosa:
ero libera di fare quello che volevo della mia vita.
Sollecitai di
nuovo un aiuto a trovare lavoro. Credo quella sera stessa, quando mio cugino
Andrea si fermò a
cena da noi. Andrea lavorava all’Honeywell di Torino. Capì la mia disperazione
e mi offrì poco tempo dopo una chance prendere o lasciare. Andare 2 mesi a
Torino a fare un corso di programmatore informatico, con esito sul fronte del
lavoro tutto a punti interrogativi.
- Fine della Prima Parte -
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