POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

martedì, settembre 9

LETTERA A SESìL: Il problema della libertà


PREMESSA 

Sarà un bel racconto? Il racconto sarà bello?
Sarà come quando cucino qualcosa di nuovo.
Non tutti i palati lo apprezzeranno.
Non tutti gli stomaci lo digeriranno allo stesso modo.
‘ Man kann nicht alle befriedigen ‘ è il mio motto da quando ero giovane.
‘ Non si può accontentare tutti ‘ e, quando ero giovane, aveva un piacevole doppio senso.
Comunque sia, gli avventori possono star certi che quello che ho composto è stato composto con onestà, come sempre.
E adesso.
Il piatto è servito.

Angela Fabbri


           (Scritto tra la mattina del 21 dicembre 2013 e la sera del 26 gennaio 2014)

Dedicato a Sesìl e ai suoi vent'anni, ricordando i miei. 



Scrivo questa breve storia, un piccolo pezzo di autobiografia, spinta dal pensiero della mia giovane amica Sesìl in un momento complicato di scelta nella sua vita.
Ho ricordato, grazie a lei, quello che tanti anni fa ho fatto io, prendendo finalmente in mano la mia.
La situazione e il clima rispecchiano i tempi della crisi di oggi (2011, 2012, 13, 14 e prosieguo), almeno adesso così dicono paragonandoli a quell’ultima parte degli anni settanta del ‘900.





Ferrara, Emilia-Romagna, Italia.

Era il Capodanno 1977. Pranzo a casa della Zia Gina e dello Zio Alfredo e di mia cugina Daniela con mamma, papà, il fratello grande Daniele e il fratello piccolo Stefano.
Da 3 mesi esatti (se ci si prendono questi impegni si è sempre molto precisi) avevo smesso di bere, quando mi ero resa conto che sobillare il mio cervello non mi aiutava certo a metterci ordine dentro.
A me la crisi fece bene, mi aprì gli occhi e mi disse di avere la mente lucida e il cuore forte.
Era il primo dopopranzo, quando con fratelli e cugina, inframmezzato dai sorrisi e dalle brevi intromissioni dei miei genitori, dagli andirivieni sala-cucina-sala della zia che comunque le permettevano di tenerci tutti sott’occhio (lo zio Alfredo era già andato di là a pisolare per la solita oretta nella sua comoda poltrona accanto alla stufa), dicevo, con fratelli e cugina si cominciava il nostro chiacchierare.
Anche fra noi lo spazio per intervenire era, accettato per tradizione familiare, relativo alle nostre rispettive età. Stefano era il più giovane (17 anni) e faticava a farsi sentire. Ma a dire il vero faticavo anch’io (25) perché dall’alto della sua venerabile età e con l’aiuto di una bella voce squillante, mia cugina Daniela (30) faceva la parte del leone. Mio fratello Daniele (28) era il numero due.
A me era consentito avviare un nuovo argomento ma, visto che ero considerata una specie di genietto talentuoso troppo fuori da tutti gli schemi, mi mettevano sempre con abilità in un angolo.
E ci stavo, anche volentieri talvolta, per il grande affetto che mi lega a entrambi. Succede anche adesso, dopo strati di anni che si sono accumulati sopra di noi e abbiamo più o meno l’età che allora avevano i nostri genitori.
Solo che proprio quel giorno io avevo un gran bisogno di parlare, soprattutto di dire delle cose. E quel rimbalzello Daniela-Daniele mi faceva sentire come un cane a cui il pallone viene lasciato solo un attimo per quietarlo, e subito ripreso via.
D’improvviso avevo bisogno di risposte. Di attenzione. Gli effetti del non-bere si facevano sentire.
Avevo bisogno di affetto, volevo essere ascoltata, toccata, abbracciata e parlare del futuro.
E presi un’improvvisa decisione di cui nessuno si accorse. Andai in cucina.
A mia zia che riordinava dissi che dovevo uscire per un po’, che dovevo assolutamente andare a
trovare una persona che non avevo visto ieri, la notte dell’ultimo dell’anno.
Ero così agitata che la zia disse solo sì senza alcuna domanda.
Non ricordo se gli telefonai per sincerarmi se era a casa. Dentro di me ero certa di trovarlo. Camminavo in fretta, senza pensare, divoravo la strada come se stessi divorando la mia stessa vita.
Insomma, stavo andando da lui.



Claudio era il mio primo amore, ma il 1° gennaio del 1977, a 30 anni suonati, faceva ancora l’Università, e anche a me ne erano suonati 25 in quella crisi. Economica, psicologica, sociale.


Nel suo caso e nel mio avevamo un papà che stava bene a portafoglio, la cosiddetta classe media, così Claudio si era gingillato all’Università e io avevo vagolato tra lo scrivere, i circoli culturali, un’Università che non avevo mai voluto incominciare sul serio e mi creava solo pesi e sensi di colpa e tentativi di lavoro estivo (fragole) o autunnale (mele e pere). Perché l’agricoltura mi sembrava terra libera dove non si guarda all’età, al sesso, alla lingua parlata, al credo e a se uno non crede in niente o magari solo all’azzurro del cielo sulla sua zucca.
Ma anche qui, un tempo e oggi, ci sono comunque entrati i soprusi. Lo racconta bene mio cugino Paolo nel suo libro “ Il filo della penna d’oro “, ambientato all’inizio degli anni cinquanta del secolo appena trascorso, dove i braccianti del ferrarese scioperano per avere un aumento e i padroni fanno arrivare i sostituti dal ravennate.
<< “ Una lira! Una lira! Una lira per non crepare! “ >> è lo slogan dei nostri.

Ma la polizia li carica e li bastona.
Non vengono fatti a pezzi loro, ma le loro biciclette sì, che per un ferrarese è tuttora come sfracellargli tutti e due i piedi e per quei braccianti di allora era togliergli il mezzo di trasporto tra la propria casa e il posto del lavoro.
Tuttavia, visto che i veri piedi non glieli avevano massacrati, funzionavano ancora come mezzo di locomozione: buon cuore delle forze dell’ordine e dei loro mandanti, in un’epoca appena appena
post-squadrista.
Per entrare a fare la Stagione Saccarifera occorreva avere Santi molto speciali che possedevano le chiavi d’accesso allo Zuccherificio. Anche perché, entrati una volta, quel posto di lavoro diventava un feudo rinnovabile tutte le annate successive, un po’ come fanno i ‘borghesi’ con i posti  dell’abbonamento a teatro.
Lavori di pulizia? Ahimè era tutto patrimonio delle Cooperative legate al PCI. Senza la tessera di quel partito, dove volevi cercare mai di entrare?
E, a dir la verità, io non avevo la tessera di nessun partito, anche se avevo la mia idea di società che significava prima di tutto lavoro. Se a qualcuno poi venisse in mente di curiosare su quale fosse il mio orientamento politico o partitico di allora, sappia che, allora, il voto era ancora tenuto segreto.
Era ancora l’epoca in cui noi ragazzi restavamo uno strano miscuglio fra le aspettative dei nostri genitori, costruite naturalmente attraverso i loro sacrifici, e quello che potevano essere i nostri desideri. Quando anche questi ultimi si erano delineati ben precisi (in me ad esempio scrivere e disegnare) si scontravano dentro di noi con l’educazione ricevuta che dava sempre ragione al certo e emarginava l’incerto.
Voglio dire che non era per niente semplice dar forza ai propri sogni e aspirazioni personali (eresie per la nostra famiglia come sono da sempre le novità portate dai giovani perché sovvertono la tradizione, cioè la ‘stabilità’ faticosamente costruita e soprattutto sono ‘in prova’, da dimostrare) visto che riconoscevamo del buono nel pensiero dei più grandi di noi e rifiutarlo o accantonarlo in parte creava, almeno a me, grandi sensi di colpa e di smarrimento. Mi sentivo ancor più inadeguata di quello che era già normale che fosse prima dei vent’anni, quando sei per natura sempre fuori posto.

Claudio era il mio primo amore, un bel ragazzone mezzo veneto e mezzo ferrarese, era bello stare fra le sue braccia calde così come dava calore il solo pensiero che esisteva. E un infinito senso di vuoto quando non c’era, come ieri notte, l’ultimo dell’anno. Aveva fatto sapere di avere la febbre e non sarebbe uscito.
Lo avevo trovato come al solito inopportuno, farsi venire la febbre proprio ieri.
Un altro sarebbe venuto lo stesso, così invece mi faceva rabbia, ma, tant’è, forse mi piaceva proprio perché quando diceva no era no.
Avevo solo lui, al di fuori di me, era come un faro e con la sua luce mi confrontavo in quella piccola città di provincia dove ero nata.
Fu lui a aprirmi la porta, i suoi erano andati a riposare e entrammo nel piccolo salotto al pianterreno.
Ci fu qualche gioco d’amore, forse più insistente del solito. Poi, dalla poltrona dove ero seduta, lui in ginocchio davanti a me, cominciai a parlargli. Di miei sogni, di mie fantasie, che ne so, ma lui era tutto preso da me non riuscivo a avere la sua attenzione.
Allora, allora gli spiccicai tutto un mio ragionamento nuovo: che mi sarebbe piaciuto avere molti uomini e un figlio da ogni uomo che avrei amato.
Allora, allora lui si alzò, si allontanò da me e cominciò a attraversare pesantemente il salotto in lungo in largo e in tondo. E siccome il salotto era piccolo, Claudio sembrava proprio un leone in gabbia come l’animale che sta nel suo segno.
Allora non mi ero accorta (?) che stavo parlando all’amico, mentre era l’innamorato che mi ascoltava.
Il risultato fu il disastro. Dentro di lui.
Constatarlo e poi le sue parole, proiettarono invece un film di speranza dentro di me.
Lui, lui voleva sposarsi, metter su famiglia, i figli sì, ma presto, che suo padre l’aveva avuto da vecchio e non si erano mai parlati.
Allora tutto fu chiaro. Anche il rischio che avevo corso. Di esser chiusa in prigione. Nella naturale prigione di ogni giovane femmina d’epoca.
Io volevo disperatamente lui, non una vita con lui.
Le altre cose che disse non le ricordo, forse mi rimproverò le mie parole assurde e fulminanti,  doveva essere piuttosto confuso, mentre io ero lucida fino alla follia.
E avevo in testa solo questo “ Ho fatto le cose per bene. E’ finito tutto il primo dell’anno. Facile da ricordare per sempre “.
Quando sono uscita da casa sua ho camminato di corsa, ho pianto, ma avevo saputo una cosa: ero libera di fare quello che volevo della mia vita.
Sollecitai di nuovo un aiuto a trovare lavoro. Credo quella sera stessa, quando mio cugino Andrea si fermò a cena da noi. Andrea lavorava all’Honeywell di Torino. Capì la mia disperazione e mi offrì poco tempo dopo una chance prendere o lasciare. Andare 2 mesi a Torino a fare un corso di programmatore informatico, con esito sul fronte del lavoro tutto a punti interrogativi.

                                                  - Fine della Prima Parte -



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