Prendo il giornale e leggo che….
Se ben ricordate, almeno chi non è più tanto giovane, c’era una canzone
di Celentano, che iniziava proprio così, e prosegue…di giusti al mondo non ce n’è. Come mai il mondo è così brutto? Si,
siamo stati noi a rovinare questo capolavoro sospeso nel cielo.
Ho esordito con questi versi, perché capita anche e me, a tutti noi, di
aprire il giornale o di ascoltare un Tiggì, e rendermi conto che i giornalisti
pare provino una sadica soddisfazione a raccontarci i fatti più
raccapriccianti. Ci parlano di guerre, di stermini in Africa e in altri luoghi
del mondo, di attentanti (l’ultimo a Parigi), di famiglie che si
autodistruggono, ed è perfettamente inutile che debba scendere in particolari
che fanno tanto male al cuore.
Di solito, per questa giornata, si parla di aborto e di come evitarlo,
perché si sa, la vita inizia già allo stato embrionale.
Per una volta, desidero andare oltre questi schemi ormai ribaditi da
anni. Vorrei parlare della vita a più ampio raggio, in quanto la vita comprende
tutto l’arco del tempo che trascorriamo su questo nostro Pianeta.
Penso che sia inutile partecipare a raduni di piazza, fiaccolate e
quant’altro, se non si cambia radicalmente il nostro modo personale di porci
davanti alle problematiche esistenziali.
Ognuno di noi ha il dovere di analizzare il proprio operato. Come?
Semplicemente guardando al modo in cui affronta i vari problemi.
Abbiamo un anziano che ha bisogno di assistenza, magari il nostro
stesso genitore, il nonno, una zia e, per motivi di lavoro, non siamo in grado
di occuparcene tutto il giorno. Allora assumiamo una badante, e sapendo che si
tratta di persona fidata, le lasciamo l’impegno di prendersi cura dell’anziano.
Così anche nel caso che debba essere affidato a una casa di riposo. E spesso
non gli dedichiamo il tempo che merita, pensando che è già ben accudito. Non è
così: l’anziano ha bisogno non solo di cure fisiche, ma soprattutto dell’amore
dei propri cari. Gli necessita sentirsi ascoltato, amato, coccolato, altrimenti
la sensazione che prova, è quella di una drammatica solitudine, di sentirsi
accantonato come un “qualcosa” di nessuna utilità. Allora, fargli ricordare i
tempi vissuti, ascoltare i suoi racconti, anche se li conosciamo a memoria, è
dargli la possibilità di sentirsi parte della famiglia. A mio parere, però, il
gesto più cristiano è quello di fare il possibile perché possa vivere in casa
con noi.
Il medico che non vive la sua professione come vocazione e non fa il
possibile per approfondire lo studio delle patologie che il paziente lamenta,
non aiuta l’ammalato soprattutto se è ricoverato in un ospedale, il quale si
sente trattato alla pari di un numero di letto e non di una persona.
L’insegnante che non usa un pizzico di psicologia per comprendere lo
studente, ma si limita ad avere un rapporto con lui di “docente-allievo” manca
anch’egli di quell’attenzione alla persona che è necessaria affinché il bambino
o l’adolescente possano crescere e diventare persone mature, in grado di
affrontare la vita e rispettarla. La propria e quella altrui.
E si comincia da noi, si allarga nella famiglia, nella scuola,
nell’ambiente di lavoro.
Di quest’ultimo è doveroso parlarne. Se c’è il lavoro – e il dubbio è
presente in questa società che non dona sicurezze – occorre che sia retribuito
secondo parametri equi, perché la vita dipende soprattutto dall’ottenimento di
almeno il necessario per un’esistenza dignitosa. Per il lavoratore, operare in un ambiente che
lo faccia sentire utile, che non sia a rischio salute, è un diritto che non gli
deve essere negato.
Tornano alle informazioni che leggiamo sui giornali, davvero viene la
voglia di stracciarli, così come di non accedere il televisore, perché è facile
dire: nel mondo succede questo o quello, senza dare un’indicazione di quale
strada percorrere affinché qualcosa cambi in meglio.
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