L’occhio non riconosce se stesso se
non vedendosi riflesso. (W.Shakespeare)
Quando un
artista di multiforme creatività come Alessandro Nastasio si avventura alla
scoperta di naturali affinità elettive fra la propria Musa ed altre Sue
olimpiche sorelle, si può ben dire che egli ambisca a carpirne di volta in
volta la decora facies per poterla
trionfalmente illuminare in ogni sua palese o recondita grazia prima di
restituirla alla comune madre Mnemosyne. D’altronde la storiografia insegna
come non vi sia poeta, pittore, scultore, musicista, che in qualche misura non
abbia desiderato individuare un punto di raccordo, anzi un’ideale confluenza,
con una o più forme artistiche alternative. L’ecfrasi è notoriamente una figura
retorica in virtù della quale un’arte aspira a correlarsi ad un’altra per
poterne descrivere le intrinseche qualità e magnificarne il valore estetico; e forse
il reciproco ecfrastico danza-pittura approda a risultanze postmoderne davvero
apicali nel momento in cui un palcoscenico viene addirittura visualizzato come
una tela e i danzatori come pennelli con cui dipingerla, secondo quanto si
ardiva proporre con successo in uno spettacolo recentemente allestito a
Civitanova Marche.
Vero è che, nell’immaginario di
Nastasio, le fattezze di Tersicore (e delle inseparabili compagne Euterpe ed
Erato, poiché danza non si dà senza musica che ne assecondi il divenire) sono
perlopiù le stesse che volle attribuirle quel Théophile Gautier ritenuto padre
del balletto classico romantico per eccellenza: ne fanno fede, del resto,
l’annoso culto testimoniato dal Nostro per il corpo di ballo scaligero e la
dichiarata sua ammirazione per alcune fulgide étoiles, la grande Savignano in particolare. E tuttavia i dipinti nastasiani ispirati alla
tematica della danza, numerosissimi attraverso gli anni, dimostrano come non
sia meno spiccato il suo amore per svariate altre forme di ballo anche
riconducibili al café chantant o al music hall. Specie in queste
esplorazioni pittoriche, l’occasionale stesura ad ampie pennellate, o forse
ancor più il ricorso a vivide cromie contrastanti con effetti di intensa
luminosità senza ombre, nell’insieme
sembrerebbero talvolta, ingannevolmente, riecheggiare un certo
sperimentalismo fauvista o post-impressionista (magari à la Matisse?...o Derain?...un
certo Mirò?) in alcuni ritrovati del Nostro: in realtà frutto maturo e autonomo,
questi, di sue personalissime meditazioni in seguito a molteplici proficui
contatti con la gaité transalpina ed
internazionale.
Ci troviamo, senza dubbio, su
tutt’altra lunghezza d’onda; e credo di poterlo affermare con sufficiente
cognizione di causa. Il respiro di Tersicore – nel pensiero poetante di
Nastasio in qualche modo assurta a Musa del
Moto Cosmico tout court -- è
in effetti capillare presenza anche laddove la “danza” non risulta essere il
soggetto esplicitamente formulato: come già per alcune soluzioni coreografiche
di Giacomo Balla (si pensi a Feu
d’Artifice) si poteva parlare di “balletto senza ballerini”, altrettanto correttamente credo si possa
suggerire per il Nostro ogniqualvolta sulla ”sua” ben diversa scena si
protendono simbolici aerodinamogrammi (spiraliformi raggi di sole, falci
lunari, uccelli sorpresi in volo…): oggetti insieme solidi ed eterei,
saldamente ancorati al bronzo di un piedistallo eppure alla vista quasi
vibratili, come abitati da un potenziale di imminente motilità. Volendo
considerare, a riprova, anche soltanto alcune sculture di Nastasio, non pare
casuale che il titolo di Girotondi (dall’autore assegnato a
una triade del 1985-89) sia stato scelto per lavori che palpabilmente trasudano
quel genere di sfida alla fissità nello spazio. Del tutto istintiva quella felice
titolazione e perciò, a mio modo di sentire, tanto più pregnante e poeticamente
autentica rispetto alla troppo lucida intenzionalità delle opere di un
Alexander Calder, ad esempio - quali i suoi famosi Mobiles (litografie, dipinti, giocattoli vari…) che ambiscono
anch’essi a “danzare davanti allo spettatore” per un’analoga aspirazione
dell’artista (però quanto di opinabile “simbolismo” nella razionale
sistematicità proclamata con fierezza dal tecnicista scozzese-americano!) a
voler mimare “il senso del movimento, in ogni sua epifania universale”.
Ma
tornando al rapporto del Nastasio pittore moderno-contemporaneo con l’arte
della danza vera e propria, non sarebbe forse alquanto peregrino un
parallelismo, che so io, con il Severini della Danzatrice in blu? Eppure, chissà, non del tutto improbabile se
qualche critico, tipicamente a caccia di ascendenze ad ogni costo, prescindendo
beninteso dalla decostruzione cubista e dal forte balzo nell’astratto, vi
volesse ravvisare qualche vaga similitudine di intenti: magari nella calcolata
compenetrazione di figura e spazio?... o nel piacere della rappresentazione
dinamica dei volumi?... No: il fatto è che ogni possibile, o parzialmente
condivisibile, accostamento dell’opera di Nastasio a questo come ad altro
artista per qualsivoglia aspetto, nella matrice etico-filosofica dell’ispirazione rimarrebbe monco e rischiosamente mutilante.
Alle prese con le ambigue sembianze di
Tersicore, il pennello di Nastasio sembra anzitutto volerci ricordare come
Animus (la componente mascolina che inconsciamente si annida in ogni psiche
femminile) e Anima (quella femminile che pur sempre latita nell’inconscio del
maschio) – opposti complementari che, secondo Jung, andrebbero in ogni caso
risvegliati e conciliati affinché nell’interiorità individuale ne scaturisca un
superiore equilibrato sodalizio -
platealmente si inverino nei basilari presupposti di ogni danza: nel
classico pas de deux del balletto,
come nelle figure tradizionali di qualunque ballo di coppia, si fa strada in
ogni caso (finanche laddove certi momentanei ‘assolo’ parrebbero attentare alla
dualità…) un’ansia di ricongiungimento catartico nell’alterno preponderare di
uno dei due archetipi junghianamente intesi. E’ fatto curioso che, mentre nel
XVIII secolo tutti i danzatori erano uomini e le parti femminili erano eseguite
en travesti, il maschile nella danza
andò gradualmente abdicando alla sua supremazia; a tal punto che nel 1870, con
la prima rappresentazione di Coppelia,
si giunse addirittura ad affidare il ruolo di Franz ad una donna! Quanto al
fraseggio formale che Nastasio privilegia per modulare in fieri quel variegato gioco delle parti, gli si potrebbe attribuire
l’affermazione di Stravinskij riguardo alle caratteristiche di una sua
composizione orchestrale: “Questo mio tango
non vuole consegnare altro che lo spirito
di quel ballo: con qualsiasi modello armonico definito, a parte il ritmo non
spartisce alcuna analogia.”
Ma c’è molto di più. Già altrove,
colpito dalla vivace stilizzazione di un Cancan (olio su tela, 1990), “di
primo acchito equivocabile per mero ‘dionisiaco’ senza ulteriori risvolti”, avevo
azzardato il termine “olistico” nel tentativo di descrivere il composito balzo
creativo di Alessandro Nastasio: a mio giudizio - e a ben voler percepire
- ovunque improntato ad una perfetta compartecipazione
di foga sensoriale e fervore spirituale:
drammatica dicotomia in genere, da lui straordinariamente risolta in termini
di speculare equipollenza. E preciso ancor meglio: se, da un lato, sul versante
della sacralità come copiosamente raffigurata dal Nastasio, ogni opera comporta
una costante implicazione dell’umano nei vari attributi riconducibili al
Superno, dall’altro, ove l’ispirazione si direbbe solo profana, vi traspare pur
sempre un creaturale appello al Divino per ogni forma di corporeità che il
Nostro ritenga quaggiù sperimentabile con serena, beata naturalezza: di qui un
suo puntuale abbandono così alle pur ancipiti passioni umane in ogni
circostanza vissute con il riverente stupore di un rituale religioso, così alla
cupidigia tattile dell’artigiano nel perlustrare il materico per estrarne una
cristallina spiritualità.
Queste mie convinzioni trovano oggi
una fortuita ma inequivocabile conferma. Soffermandomi su un vecchio dipinto di
Nastasio (cfr. catalogo Omaggio alla Danza, 1994), nella struttura poco dissimile
da uno dei lavori che compongono la presente raccolta, rilevavo la strana
presenza di due medesimi cornetti sul capo della figura di sesso maschile.
Incuriosito dal significato ascrivibile a quel particolare ricorrente, interpellavo
l’autore in proposito. Risposta: “Un mio ovvio richiamo grafico al faunesco
nella natura umana… [e, sin qui, come sorprendersi se a qualche critico, poco
avveduto, questo semplice dettaglio bastasse forse già a strappare un
epidermico raffronto con il Vaclav Nijinski coreografo del debussiano “Prélude”?]…ma, – soggiungeva subito Nastasio --, a dire il vero anche un
simultaneo cenno alle valenze
esoteriche dell’Angelo Metatron… le cui sublimi virtù mi hanno sempre
conquistato.”
E allora? Eccoci al dunque: Senso e
Spiritualità non solo spontaneamente associati dall’autore, ma in un simbolico ossimoro addirittura
consustanziati a dispetto del massimo grado di vertiginosa contrapposizione
concettuale! Se è vero, a detta di Cassirer, che il simbolismo è organo del
pensiero, con questa candida confessione ecco svelata dal Nostro l’ontogenesi
del suo credo poetico-esistenziale: tra
il satiro e l’angelo non più traccia di lacerante inimicizia, bensì salvifica, davvero edenica rappacificazione.
E quindi, di riflesso: Danza da doversi vivere
come gioioso processo di spiritualizzazione del Corpo: leggiadria e agilità
fisica come incarnata metafora dello Spirito: spirito da quella voluttuosa
fusione davvero umanizzato, ricondotto alla sua primordiale funzione motrice di
un corpo d’argilla altrimenti votato al gelo narcotico della terrestrità.
Roberto Vittorio Di Pietro
(aprile 2012)
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