J. L. BORGES: FILOSOFANDO CON “ DUBBIA “ SERIETÁ
di
Roberto Di Pietro
( una conferenza
riproposta in nuce )
Nel 1923 il ventiquattrenne Jorge
Luis Borges pubblica la sua prima raccolta di versi – “Fervore di Buenos Aires”
– versi a suo tempo non particolarmente apprezzati dalla critica, ma
sicuramente molto pregevoli nei contenuti e interessanti per il fatto che già
rivelano implicitamente una “sana rinuncia agli artifizi verbali che aspirano
meccanicamente allo stupore e al soprassalto modernizzanti”, come in seguito
vorrà precisare egli stesso. Fin da quell’esordio Borges abbraccia una
filosofia etico-estetica sotto vari aspetti anacronistica, letterariamente
controcorrente. Delle avanguardie europee dell’epoca (il surrealismo, il
dadaismo, l’ultraismo spagnolo…) alle quali peraltro la sua insaziabile
curiosità lo aveva spinto ad avvicinarsi anche attivamente, egli avrà poi modo
di dire con altre parole significative: “Non erano che un fragile capriccio che
i più giovani presero mortalmente sul serio.” Quanto lo distanziava da quei
movimenti letterari non era il gioco in quanto tale, bensì l’arbitrarietà e la
futilità che sembrava ispirarlo: troppo sovente una compiaciuta bizzarria
formale, a scapito dello spessore del pensiero. Per contro il suo mondo artistico,
(soprattutto quello di un narratore poeticamente ispirato) pur
affidandosi ad una fantasia sconfinata, talvolta fin troppo sbrigliata nelle
avventure di un bibliofilo enciclopedico come lui, non cade mai nel gratuito:
nella sua arte l’elemento fantastico è pur sempre saldamente ancorato ad una
logica sotterranea da romanzo giallo (o meglio racconto giallo, dirò poi
il perché), una logica stringente, tesa a srotolare lungo percorsi solo in
apparenza confusi, un gomitolo di indizi che si allacciano a concrete
problematiche esistenziali calate nel dedalo della psiche umana, i cui meandri
tutti da esplorare sarebbero forse meno difficilmente perlustrabili se vi si
procedesse muniti di un filo conduttore. Un filo molto particolare, però,
quello del nostro: un filato ritorto costituito da segmenti diversi fra loro
annodati – mi si passi questa metafora – e quindi una gugliata ricca di nodi,
quello sì, tanti nodi, che però tengono ben stretti insieme degli scampoli di
refe fra loro disposti e distanziati secondo studiate simmetrie. Questo genere
di simmetrica continuità sovente mascherata da un’apparente frammentarietà
Borges la verifica di volta in volta con intimo stupore nei classici
internazionali che, da erudito poliglotta, avidamente legge e maggiormente
ammira, fino a volerla accogliere come fattore determinante nelle modalità del
suo proprio scrivere, confidando che nelle
arcane geometrie che presiedono alla creazione letteraria possa celarsi la
segreta chiave di lettura di un qualche ordine cosmico che tutt’intorno gli
pare invece perlopiù illusorio, falso, ingannevole o inesistente. Quasi per
contrastare un sospettato caos onnipresente con alcune norme più razionali e
affidabili, da artista se le inventa per conto suo, se le impone e vi si
attiene con puntuale sistematicità.
Trattati quindi per analogie o
antitesi pur sempre così simmetricamente concepite, ecco i grandi temi che
Borges già prefigurava in quel suo esordio poetico e dai quali non si
allontanerà mai più: l’assiduo palpito del
mistero metafisico nella quotidianità; le perplessità della coscienza dinanzi
agli enigmi della morte e dell’oltretomba; il richiamo di un ineluttabile
destino nell’esistenza di ogni individuo – un imperativo karmico, lo si direbbe
- che ogni uomo dovrebbe saper individuare al momento giusto (è il concetto
greco di kairòs) e raccogliere solo in quel preciso momento a suo
profitto: cosa tuttavia non facile poiché quel segnale gli si manifesta come un
impalpabile raggio luminoso rifratto in una inquietante fuga di specchi;
la sostanziale caducità delle pur meravigliose gesta eroiche del passato, e
quindi la precaria sopravvivenza del ricordo umano nella storia; più
genericamente, le insidie della memoria, cosa labile che nelle
inaffidabili distinte stratificazioni del tempo terreno si muove, e che perciò
restituisce in ogni caso alla mente umana una concezione inautentica di visione
della storia passata in termini diacronici, essendo il passato in sé riducibile
nel ricordo ad una continua successione di “stati presenti” sovrapposti. In
ogni caso, quasi ovunque nella sua opera successiva – segnatamente negli
emblematici racconti di Finzioni (1944), de L’Aleph (1949) e de L’artefice
(1960), fondamentali per una comprensione dell’autore in termini sia etici che
estetici -- affiorerà quello che la critica ama definire il metafisico sorriso
borgesiano: una finissima, rara capacità
di esorcizzare il nostro umano sconcerto di fronte al vero e al falso, di
fronte alle subdole rispettive interferenze, commistioni e rovesciamenti
persino nel pensiero più razionale (in proposito il magistero di Luciano di
Samosata, fra gli altri, pare che il nostro lo riconoscesse molto volentieri);
e, beninteso, anche l’insopprimibile angoscia del pensiero umano di fronte
all’imperscrutabilità delle cose ultime. Tutto ciò attraverso il filtro
ricorrente dell’ironia, della parodia, delle raffigurazioni grottesche e
paradossali, e quasi ovunque con quel gusto del raffinato puzzle da
risolvere: una vera e propria sfida a scacchi come quella che la realtà
ci impone di accettare e che Borges rilancia al lettore auspicabilmente in
grado di raccoglierla. Non a caso il
nostro affermava provocatoriamente: “Talvolta penso che i buoni lettori siano
cigni ancor più rari dei buoni scrittori.”
Proviamo a leggere (o rileggere)
alcune liriche borgesiane – suggerirei personalmente Specchi, Scacchi, Il Bisonte, Il Suicida, e Sono -- cercando di
cogliere, espressi dalla voce dell’autore, almeno una parte di questi temi cui
ho accennato. Vi troveremo perlopiù vaghi riferimenti indiretti, recepibili
attraverso un’attenta decodificazione di sottili immagini metaforiche, essendo
vero che in poesia l’ambiguità è
fattore sostanziale.
Passiamo alle pagine in prosa di “Borges
ed io” per individuarvi un
altro tema importante, particolarmente caro al nostro: quello dello
sdoppiamento dell’ego. Qui, come
noteremo, Borges lo affronta dal punto di vista dello straniamento fra la
solitudine inaccessibile in cui si forgiano i testi letterari e il prestanome
richiesto a furor di popolo in cui si assolutizza l’autore famoso. Nella sua
ultima serie di novelle, composta in tarda età, riprenderà questo medesimo tema
nel racconto intitolato “L’altro”; ma a quel punto saranno il tempo e la
memoria – quella variabile complice del sogno e dell’irrealtà – le diverse
cause del dualismo. Borges si avventura persino oltre in questa direzione. Vale
la pena di ricordare che, in un suo saggio intitolato “L’inconsistenza della
personalità” (facente parte dell’antologia “Inquisizioni” che, insieme con
quella intitolata “Altre Inquisizioni”, raccoglie il miglior distillato della
critica letteraria borgesiana), l’autore ci offre questa dichiarazione
significativa: “L’io non è altro che una
successione di stati di coscienza; però è arbitrario credere che, semplicemente
sommandoli, se ne ricavi la personalità totale di un individuo.”
In che misura Borges concilia la
filosofia, la propria e quella altrui, con la letteratura? In un’intervista del
1979, l’autore affermava: “Io ho usato
la filosofia, compresa la metafisica, come strumento letterario. Non sono un pensatore. Credo di essere
incapace di pensieri miei. L’involucro vale più del contenuto.” In parte, una
di quelle classiche boutade alle quali pare che, biascicando in modo
lezioso, amasse indulgere nella conversazione – battute “scanzonate” per le
quali fu rimproverato dagli amici che le consideravano nocive per la sua figura
di scrittore tutt’altro che superficiale, e per le quali invece certa critica
lo ha accostato allo spirito solo ingannevolmente frivolo di Oscar Wilde. (Di
particolare interesse al riguardo sono, ad esempio, il dizionario di Borgerias
compilato da Pilar Bravo e la “Biografia Verbal” di Roberto Alifano.) Ma vediamo quale fondo di verità esista in
questa sua confessione. I racconti e le poesie di Borges sono
straordinariamente sensibili alla condizione posta dalla ricerca filosofica in
contrasto con quella meramente scientifica.
Gli scienziati lavorano per uscire quanto più possibile dal dubbio, i
filosofi per addentrarvisi il più possibile. Come Shakespeare, Cervantes,
Thomas Mann, Pirandello... tanto per
fare qualche nome, Borges è “filosofo” in quanto consapevole
dell’irrinunciabilità di certe questioni e al tempo stesso dell’impossibilità
di liberarsene con una sola risposta categorica. I suoi quesiti filosofici – spesso, è vero,
elucubrazioni sul pensiero dei maggiori e minori filosofi della tradizione – si
limitano a spostare le nostre perplessità, attraverso una finzione letteraria
non di rado esaltata da un’impostazione più o meno percepibilmente ironica del
discorso, verso un livello di fin più rarefatte ambiguità che i filosofi
professionisti scarterebbero sdegnosamente, essendo per loro forma mentis portati a svalutare un genere di umorismo
riflessivo dietro il quale sembrano solo nascondersi degli oziosi sofismi.
Leggiamo, ad esempio, Argomentum
Ornithologicum (incluso nella raccolta di novelle“L’Artefice”), dove
facendo il verso a Sant’Anselmo, l’autore sembra sostenere una tesi
escatologica a favore dell’esistenza di Dio.
Dico sembra perché il taglio parodistico è di per sé un caveat. Del resto, già quel titolo così
fantasiosamente concepito può considerarsi una sorta di ammiccamento al lettore
meno distratto.
Fa da contrappeso quasi
simmetrico a questa argomentazione per così dire “idealistica” una lirica
significativa – il critico Fernando Savater in particolare la sottolinea – in
chiave scatologica; ma, per apprezzare meglio gli intenti dell’autore, occorre
tener presente che in lingua spagnola un unico aggettivo escatològico
designa indistintamente sia l’indagine sui destini ultimi dell’uomo e
dell’universo, sia la trattazione di argomenti triviali riguardanti perlopiù
gli escrementi: quello che l’italiano designa, invece, con il termine scatologia. Questa lirica si intitola “La Prova” – ma ricordiamo che anche
l’argomentum ornithologicum già si presentava come una diversa prova. Fa parte della raccolta “La Cifra”, una delle
ultime che Borges pubblicò all’età di ottantadue anni – e, vista se non
altro l’età dello scrittore, rappresenta di per sé una riprova della non
gratuità del gioco per il nostro, a dispetto di chiunque tendesse a sospettare
il contrario.
Dall’altro lato della
porta un uomo
espelle la sua
corruzione. Invano
alzerà questa notte una
preghiera
al suo curioso dio,
che è tre, due, uno,
e che si dirà
immortale. Adesso
ode la profezia della
sua morte
e sa d’essere un
animale seduto.
Fratello, sei
quell’uomo. Ringraziamo
i vermi e l’oblio.
Questa poesia davvero singolare,
dedicata all’uomo nell’atto di soddisfare i propri bisogni corporali dietro la
porta chiusa del bagno, non è il testo di qualche giovane cantautore dei tempi
nostri, desideroso di scandalizzare i benpensanti. Porta la firma di un canuto
vegliardo come si è detto, e di un uomo ormai afflitto da una totale cecità, di
uno squisito scrittore ben consapevole delle sue scelte estetiche, ansioso di
condensare così la sua lunga esperienza esistenziale, il suo patetico
disincanto. Un paio di secoli prima, Johnathan Swift deplorava, in versi, il
fatto orrendo e spoetizzante che la sua eterea e delicata giovane musa dovesse,
ahimè, pur sempre scendere dal piedistallo per…defecare. Swift usava un termine
molto meno scientifico, per la verità. Vi era in lui qualcosa di inguaribilmente
puritano che la lirica di Borges non possiede. Qui troviamo solo
un’argomentazione rassegnatamente materialistica (in questo senso si
contrappone specularmente -- ma con altrettanta sottile ironia, è questa
chiave -- alle conclusioni “idealistiche” del brano che avevamo letto prima.).
Qui la prova irrefutabile che non siamo destinati all’eternità
immortale, ma alla putrefazione, – suggerisceBorges –, non è più quella di Sant’Anselmo; ora si
rovescia presentandosi in questi altri termini ben più pedestri: una strana
divinità viene a sollecitarci qualche volta, sporadicamente -- ma il gabinetto,
in confronto, è assai più assiduo: è un ricordo perenne, uno stimolo costante e
perentorio che si fa sentire almeno una volta al giorno. E l’escremento di cui dobbiamo
liberarci incessantemente, sembra confermare l’idea che prima o poi anche noi
uomini impastati di fango saremo solo concime e niente altro. Stiamo però attenti.
Qui non ci sono propositi dissacratori: il messaggio metaforico – che come
sempre, attraverso l’ironia, e il rovesciamento simmetrico fra tesi e antitesi
da un capo all’altro dell’opera, sottintende una ponderata sospensione del
giudizio da parte del nostro – qui vuole abbassarsi ad una facile constatazione
alla portata di chiunque, per suggerire una riflessione che almeno un poco
serva, chissà, a sollevarci dai continui timori della trascendenza, serva ad
impedirci di considerare con eccessiva ambascia l’idea di un annichilimento pur
sempre ipotizzabile. Potremmo tormentarci di meno, insomma, se magari
pensassimo – con un sorriso, per quanto amaro -- che questo nostro eventuale
sparire nel nulla fosse più o meno paragonabile ad un buon alleggerimento delle
viscere, un sospirato sollievo, un’estrema liberazione nel senso delineato
nella poesia. Borges in realtà sa molto bene che, persino accomodato sulla
fatidica tazza del water, l’uomo continuerà in ogni caso a speculare sino alla
fine sul mistero dell’aldilà. Inevitabilmente, ineluttabilmente -- non potrà
mai impedirselo. E’ il suo destino, una fatalità come il dover defecare giorno
dopo giorno, magari anche più di una volta al giorno. Di qui la smorfia con cui
cerca di sdrammatizzare anche quel senso della vanitas vanitatum che fa
capolino ovunque nella sua opera e la tinge di scettico agnosticismo. “Laddove
vi è uno scherzo si cela sempre un problema filosofico” – parole non sue, ma
che Borges pare amasse ricordare di frequente.
E che cos’altro è se non uno
scherzo finalizzato ad illustrare il suo proprio scetticismo incurabile, ad
illustrarlo con quel gioco di specchi deformanti che tanto lo ossessionava,
anzi lo spaventava, che cos’altro altrimenti potrebbe mai essere, chiedo,
quella strana parodia dissacratoria che Borges fa addirittura di Dante – un
poeta che, come ben sappiamo, Borges osannava? Che ammirava nel senso più
autentico della parola? Quel Dante intorno alla cui opera, nel 1982, pochi anni
prima di morire, ormai stanco e cieco, detta la stesura commossa dei famosi
“Nove Saggi Danteschi”? Mi riferisco al
contenuto dell’importantissimo racconto “L’Aleph” che dà il titolo alla
raccolta omonima. Non so se lo
conosciate, spero di sì, perché mi sarebbe impossibile riassumerlo, anche
perché i racconti di Borges sono talmente complessi da essere difficilmente
riassumibili senza subire violenza. Vi
compare una figura femminile di nome Beatriz (una donna piuttosto fatua,
versione volutamente degradata della donna angelicata, palesemente smitizzante
nei riguardi della Beatrice dantesca); e questa risulta sentimentalmente legata
al personaggio di Carlos Argentino
Daneri (nome pressoché anagrammatico di
Dante Alighieri), lo scopritore dell’aleph (la prima lettera dell’alfabeto ebraico, che
nella tradizione cabalistica simboleggia la divinità e l’armonia
dell’universo). Il Daneri è però definito un poetastro di terz’ordine,
presuntuoso e vanesio, il quale ammanta la propria inettitudine di ridicola
retorica, convinto com’è che l’aleph gli sia stato rivelato perché egli
possa comporre il suo “immortale poema”, cito fra virgolette. Come si può
giustificare questa irriguardosa quanto assurda strumentalizzazione di Dante e
Beatrice? Proprio da uno dei massimi
estimatori del nostro Alighieri? E, di pari passo, la sostanziale dissacrazione
di quel grande simbolo esoterico che è l’aleph e che Borges qui riduce
ad un caleidoscopico giocattolo? Così, infatti, lo descriveva in una
lettera ad un suo amico letterato. Tutti questi elementi congiunti, nelle
intenzioni del nostro (sottoscrivo con sicurezza quanto segnala in proposito il
critico Tommaso Scarano, curatore di varie opere di Borges), privando di
solennità l’incontro sconvolgente col divino e contaminandolo audacemente con
una canzonatura questa volta addirittura smaccata, servono dopotutto a
tradurre, forse qui più scopertamente che altrove, tutto il radicale
scetticismo che caratterizza il libero pensiero di Borges. Un pensiero
forse “scandalosamente” troppo bisognoso di ribadire questo suo drammatico
perenne confronto filosofico con una realtà giudicata strutturalmente troppo
composita perché la si possa mai pretendere del tutto decifrabile e tanto meno
a senso unico. Perché, secondo Borges, la realtà è un infido caotico magma,
tanto più ingannevole nei punti in cui tende a presentarsi come cosmos,
ovvero come una figura architettonica dall’aspetto illusoriamente ordinato,
essendo di fatto piena di infiniti trabocchetti nascosti – una visione del
mondo, anzi dell’universo, di cui, non a caso, il labirinto diviene per il
nostro metafora centrale. “Un labirinto
è un edificio pieno di simmetrie costruite per confondere gli uomini” – così si
esprime Borges nel racconto L’Immortale che apre la raccolta L’Aleph. E, traendone spunto, certa critica non ha
escluso che, pur nello straripante sincretismo filosofico del nostro, sarebbero
riscontrabili soprattuttoelementi di derivazione gnostica: ad esempio l’idea di
un mondo come burla grottesca, fuorviante improvvisazione di un demiurgo che è
“ombra di ombre di altre ombre.”Senza dubbio Borges ben conosceva, fra l’altro,
certa cosmolologia gnostica secondo cui l’universo in cui riteniamo di esistere
sarebbe opera di un creatore minore annidato in un universo creato da un
demiurgo superiore all’altro, a sua volta annidato in un altro universo, e così
via per trecentosessantacinque volte. Di qui, secondo alcuni illustri critici
(cfr. J.M. Coetzee), la vertiginosa consapevolezza di Borges che l’universo in
cui abitiamo non sarebbe di per sé che un simulacro, anzi forse un simulacro di
simulacri che procedono all’infinito. Sta di fatto, e giova tenerne conto, che --
come dimostrerebbe l’analisi dei racconti che formano l’importante raccolta del
“Giardino dei sentieri che si biforcano” (1939-41), fra cui figurano Orbius
Tertius e La Biblioteca di Babele -- si
delinea effettivamente nel pensiero del nostro un’angosciosa coscienza che le
cose passate non esistono se non nelle idee che l’umanità ne intrattiene nel
presente. E idee come nostre attuali umane finzioni, le quali inglobano
ineluttabilmente già precedenti finzioni altrui: finzioni su finzioni che ci accompagnano, quindi, perennemente
sovrapposte, condizionanti e fuorvianti.
Andiamo ora a guardarci quel
breve racconto La casa di Asterione, (compreso ne “L’Aleph”), dove viene riproposto il mito del Minotauro
imprigionato nel labirinto, nella riscrittura di un autore che qui si rivela,
per qualche verso, fratello spirituale di Franz Kafka. Borges, a
proposito di queste sue pagine, rifletteva: “La mostruosità di Asterione per me è
soltanto quella di un freak: l’eccezionalità di una creatura per caso nata
spiritualmente diversa dalla comune umanità, la cui croce è quindi fatalmente
la segregazione e la solitudine; un essere patetico, dal cuore afflitto, nella
cui vita non c’è né amore, né amicizia, né comunione; eun essere ingenuo che
inutilmente si interroga sul perché della propria condizione.” In effetti,
attraverso il racconto straniato che qui Asterione fa della sua realtà e dei
suoi atti, Borges sottrae il Minotauro
al suo spazio mitico consueto, ricollocandolo in una dimensione esistenziale
interamente e drammaticamente umana. Si
ricordi, incidentalmente, che, nella sua opera teatrale “Los Reyes”, lo
scrittore argentino Julio Cortàzar, dichiarato ammiratore e “allievo” di
Borges, riprendeva lo stesso argomento in una luce analoga, pur apportandovi
qualche ulteriore riflessione filosofica in altre direzioni, a modo suo.)
Incisivi e piuttosto commoventi
in questo racconto di Borges, tre passi in particolare: anzitutto il momento in
cui la gente nel vedere il “mostro” fuori del labirinto, nel riconoscerlo,
fugge terrorizzata strappandogli questa triste considerazione: “non posso
confondermi con il volgo, anche se la mia modestia lo vuole…”; poi quel
conforto alla propria solitudine che Asterione inutilmente cerca sdoppiandosi (e
si ricordi qui il valore di questo tema per Borges…), immaginando ingenuamente
la possibilità di un compagno in tutto uguale a lui con il quale poter
condividere i suoi spazi interiori; e
finalmente la speranza di poter trovare dopo la morte una divinità che,
assomigliandogli, sia davvero in grado di comprendere il significato e il peso
della sua diversità, della sua eccezionalità, cioè della sua mostruosità
nel senso etimologico della parola – una speranza che, rafforzandosi, lo induce
a farsi uccidere serenamente, senza opporre resistenza. Un racconto amaro, che indubbiamente getta
non poca luce sulle intime perplessità esistenziali dello stesso autore; e
pagine peraltro insolitamente scevre dai risvolti ironico-umoristici con cui il
nostro ama tanto farsi scudo.
Di che stoffa è fatta la vena
ironica del nostro? Se un genere di umorismo come quello di Borges – non di
rado anche noir -- sfugge di solito ai filosofi accademici per i quali è
d’obbligo considerare la propria disciplina alla stregua di una scienza, esso
si presta invece ad essere recepito come autentico stimolo al ragionamento
aperto e al filosofare disinteressato da parte del lettore che, sintonizzandosi
sulla stessa lunghezza d’onda, non si ponga particolari problemi di rigore
metodologico. Dice giustamente il critico Fernando Savater: “Una delle
intuizioni più geniali di Borges (a riprova della sua profonda comprensione
dell’attività filosofica per il benessere della psiche umana) è che contempla
le grandi architetture speculative non già come semplici prodotti asettici
della ragione, ma come capolavori dell’immaginazione.” Infatti, con la
consueta leggerezza del suo tono scherzoso, in una delle note al suo saggio
“Discussione”, Borges afferma: “Io ho compilato una volta un’antologia della
letteratura fantastica. Ammetto che
quell’opera è fra le pochissime che un secondo Noè dovrebbe salvare da un
secondo diluvio, ma denuncio la colpevole omissione degli insospettati massimi
maestri di quel genere. Parmenide, Platone, Giovanni Scoto Eriugena, Alberto Magno, Spinoza, Leibniz, Kant…Infatti,
che cosa sono i prodigi di Herbert George Wells, di Edgar Allan Poe – un fiore
che ci arriva dal futuro, un morto sottoposto all’ipnosi… – in confronto
all’invenzione di Dio, alla teoria laboriosa di un essere solo che in qualche
modo è trino e che solitariamente perdura fuori dal tempo?” Ma qui, se pensiamo
a quanto si è già detto poc’anzi, Borges avrebbe potuto citare anche altre
sublimi creature per lui ugualmente immaginarie, quali il tempo e lo spazio,
l’essere, la natura, l’io, l’infinito…tutto un ventaglio di astrazioni organizzate
per puro intervento della ragione, o meglio della fantasia: originate in un
primo impeto affabulatore che non differisce del tutto da quello che muove i
grandi letterati. Torniamo così ad uno dei
giochi intellettuali più cari al nostro. Borges si chiede: che cosa
succederebbe se leggessimo i filosofi in modo diverso, se invece di
considerarli parenti un po’ ampollosi degli osservatori scientifici, li
disponessimo nella nostra biblioteca vicino a Giulio Verne, a Robert Louis
Stevenson, o a Lovecraft, o a Le Fanu, ad un qualsiasi altro autore di racconti
di avventure, di fantascienza o di fantasmi? Persino al Chesterton dei Racconti
di Padre Brown (altra passione del nostro), o addirittura al raffinato
giallista Ellery Queen, che Borges, in una sua recensione, dimostra di non
disdegnare affatto. Ebbene – Borges lo suggerisce – questo “viaggio”
ironicamente inconsueto sarebbe un viaggio di andata e ritorno, per così dire:
nel senso che, se abbiamo il coraggio di leggere i testi filosofici come
letteratura fantastica, senza per questo svalutarli nella loro serietà,
possiamo leggere come opere di filosofia anche certe opere decisamente
immaginative senza demerito alcuno. Senza dubbio l’eclettismo del pensiero
borgesiano non è la semplice conseguenza, come egli volle farci credere, del
suo non riuscire a dare alla luce idee personali, bensì quella di un
connaturale scetticismo sempre in bilico tra filosofia e poesia – il quale
comporta ciò nondimeno una presa di posizione speculativa. Essere veramente scettici significa giudicare
il percorso della filosofia dopotutto in base ai presupposti della filosofia
stessa. E lo scetticismo borgesiano in effetti non assolutizza neppure la
propensione al dubbio: l’acuta capacità di diffidare non lo porta a invalidare
oziosamente la proposta delle credenze empiriche e neppure a rifiutare la
relativa validità di alcune di esse rispetto ad altre. Nel suo saggio “Metempsicosi della
Tartaruga” (incluso in “Discussione”, e uno fra quelli che dedicò agli
inquietanti paradossi sofistici di Zenone di Elea, osserva: “E’ azzardato pensare che una coordinazione
di parole – altro non sono le filosofie – possa assomigliare all’universo. Noi (l’indivisa unità che opera in noi) abbiamo
sognato il mondo resistente, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo,
ma abbiamo pur sempre ammesso nella sua architettura eterni interstizi di
assurdità che ci consentono di capire che è finto, o meglio è diverso e
sovrapposto rispetto alla realtà.”
Ovvero, esprimendoci nel linguaggio di oggi, che esso è virtuale,
perché ogni pensiero non fa altro che proporre e giocare con una realtà
virtuale. Il che – attenzione – non è un
invito a prescindere dall’impegno filosofico, ma a sottoporlo a un’essenziale
cura di saggezza. Come? Attribuendogli tutta la serietà di un gioco
infantile. Spoudàios pàizein – giocare seriamente: con questa
espressione Platone stesso caratterizzava il mestiere del filosofo. Del gioco la filosofia possiede il carattere
non strumentale, la leggerezza di quanto si sottrae provvisoriamente alle cure
della quotidiana necessità e della sopravvivenza. E soprattutto la filosofia è giocherellona
per via del suo tono eternamente giovanile, perfino puerile: i più minacciosi
accusatori di Socrate, con la mano stretta all’elsa della spada, gli
rinfacciavano fra le altre cose definite immorali, quella sua caparbia
volontà di perdersi in divagazioni mentali tipiche dei bambini o degli
adolescenti sciocchi e sognatori, lontane dagli interessi concreti degli uomini
fatti, e in definitiva solo malsane. Eppure la grandezza di Socrate stava
proprio lì: in quel suo volersi confrontare a tutti i costi da birichino
impenitente con i meccanismi del pensiero, così come i bambini hanno perennemente
voglia di giocare in qualche modo – e giocare non già per distrarsi, ma per concentrarsi,
e farlo con l’impegno più totale e più serio di questo mondo.
Jugar en serio – giocare
con serietà – così molto appropriatamente il filosofo argentino Ezequiel de
Olaso ha intitolato un suo affascinante libro di saggi su Borges, giustificando
con queste parole la scelta di un titolo che potrebbe sembrare altrimenti
riduttivo: “Io credo che nessuno abbia mai giocato letterariamente con tanta
autentica serietà quanto Borges. Borges
elogiò coloro che rischiavano la vita agli angoli di strada, fra i coltelli o
in attesa di una carica di cavalleria, mentre lui rischiava la propria al
tavoliere degli scacchi, del pachisi e del gioco dell’oca, o nell’insolita area
della biblioteca. Ma la posta non era meno alta, perché ciò che si gioca e si
perde vivendo intensamente, è sempre la vita. Ciò che conta, è che questo
particolare rischio lo scrittore lo conosca, lo viva in piena coscienza.”
Dal canto suo, il celebre filosofo contemporaneo Cioran, tracciando un acutissimo ‘ritratto’ del
nostro, afferma ammirato: “Il gioco in Borges ricorda l’ironia romantica, l’esplorazione
metafisica dell’illusione, il funambolismo dell’Illimitato. Borges potrebbe
diventare il simbolo di un’umanità senza dogmi, né sistemi: se c’è un’utopia
che abbraccerei volentieri, sarebbe la speranza che ogni essere umano
desiderasse modellarsi su di lui, su uno degli spiriti meno pesanti che mai
siano esistiti, sull’ultimo dei delicati.” Ad altri, invece (e non dei
menointelligenti…), causa fastidio proprio questa levitas, questa peculiare dimensione ludica in cui svagatamente ama
muoversi il nostro. Ho scoperto per caso che, nei suoi appunti pubblicati
postumi, Elias Canetti rientra fra questi recalcitranti: “Borges non mi piace
affatto,” asserisce Canetti, “non cozza
con la pietra, la blandisce.” Curioso da parte di uno come Canetti che, per sua
propensione intellettuale, potrebbe ritenersi il lettore simbiotico di Borges!
Che l’ultrariflessivo Canetti fosse in realtà meno ‘filosofo’ del nostro?
Forse. E forse perché nell’avvicinarsi entrambi ad una stessa montagna, il
primo preferì approdarvi armato di una corazza che talvolta, nei rimbalzi,
risuona fragorosamente a vuoto; mentre il nostro non vi si posò mai a lungo,
svolazzò intorno a qualche cima come un aquilotto, sfiorandola ogni tanto
festosamente a colpi d’ala. Sicché il ‘serioso’ Canetti riuscì a farsi prendere
sul serio fino in fondo e, nel 1981, ad ottenere il Premio Nobel; mentre
Borges, per aver voluto sorridere troppo, o meglio troppo seriamente per essere preso davvero sul serio (su questa terra può
dirsi un’utopia, eccome,
quell’auspicio formulato da Cioran!) non conseguì mai questo riconoscimento.
Pare glielo avessero negato all’ultimo momento perché accettò di ricevere, con ‘imprudenza’
(o connaturale gusto per le sfide provocatorie?) un tributo di stima personale
per mano del dittatore Pinochet. Sapendosi tutt’altro che un reazionario in
cuore, non volle dare nessun peso alle peraltro ipotizzabili conseguenze
politiche di quel suo gesto: con un altro dei suoi fuorvianti sorrisini, agli
amici che seriosamente lo ammonivano di ‘agire con saggezza’, volle a suo modo dimostrare
che in discussione avrebbero dovuto essere, in fin dei conti, soltanto le sue eventuali qualità
letterarie. Ma l’etica del sorriso coraggioso è, purtroppo, una forma di
ostinazione troppo spesso incompresa, anzi nociva e controproducente in questa
nostra società perlopiù fintamente compassata, sussiegosa e suscettibile. Del
resto, di quella punizione non gliene importò mai più dio tanto: di quel
premio, quell’annuale retorica dell’acclamazione e non sempre del merito
effettivo, erano dopotutto stati privati anche i suoi stimatissimi Kafka e
Joyce. In “Dialogo di Morti”, un
racconto che fa parte della raccolta “L’Artefice” (ed eravamo nel 1960, più di
vent’anni prima del fatto…) compare questa frase piuttosto indicativa delle
intime convinzioni del nostro, quasi premonitrice, si direbbe: “L’adulazione
dei posteri non vale più di quella dei contemporanei, che non vale niente e che
si ottiene con qualche medaglietta.”
Vorrei concludere questo incontro
con la lettura di una lirica che interpreteremo a tre voci. Non si tratta di un’opera di Borges, ma di un
mio personale umilissimo omaggio al grande Jorge Luis. In questo componimento
mi ispiro ad alcuni capisaldi del suo pensiero come sin qui ho cercato di
delinearveli. Non solo, ma, nel riprendere la tematica del tempo umano
precariamente sospeso fra la memoria e l’oblio, e soprattutto la tesi della
necessaria sospensione del giudizio di fronte ad impressioni superficiali
spesso fallaci, ho anche cercato di recuperare in concreto quel modo, tipico
del nostro, di accostarsi alla realtà per sorprenderla con spirito ironico e
demistificarla scetticamente in tono semiserio. Tutto ciò strutturando anche lo
sviluppo concettuale di questa mia
poesia (nel verso scandita, fra l’altro, da endecasillabi dal ritmo canonico
come già sempre i suoi) conformemente al fondamentale concetto borgesiano di
scrittura come ordito di richiami interni logico-simmetrici mai casuali. Non mi
è stato molto difficile, del resto: si tratta nel complesso di punti di vista
etico-estetici che non solo condivido in buona parte sul piano critico, ma che
ritrovo radicati nelle mie stesse scelte creative in qualche modo controcorrente
– altrove le ho provocatoriamente definite “a testa in giù”, per cui c’è anche
dell’autoironia sottintesa nell’incipit della lirica -- osando
dichiararmi propenso, più o meno come già il nostro a suo tempo, a non reputare
la forma poetica una variabile necessariamente ‘capricciosa’ in epoca
postmoderna, bensì a considerarla ancora ponderata funzione di un qualche
pensiero-guida e delle intime emozioni umane che quel pensiero accompagnano e
trasfigurano.
Secondo Borges, lo abbiamo
accennato, tutta la realtà è intrisa di giallo e non basta una vita intera per
decodificarla. Ma bisogna in ogni caso provarci. Anche le opere letterarie possono contribuire
ad allenarci a questo genere di necessaria prova esistenziale. Condivido
appieno questo suo atteggiamento. Oggi
più che mai, con l’informazione che ci insegue dappertutto, che ci perseguita
attraverso i giornali sempre più numerosi, e la televisione con canali sempre
nuovi, e la navigazione sul Web, districarsi in una selva di notizie ovviamente
in parte autentiche e in parte spurie, diventa un esercizio sempre più
indispensabile se vogliamo, come dovremmo, salvaguardarci dalle trappole del
tutto falso che sembra tutto vero o, forse peggio, dalle infinite mezze verità
e mezze falsità che si accavallano; oppure ancora da tutto quanto è
sostanzialmente inutile e invece, a suon di astuti battages pubblicitari,
ci viene ingannevolmente presentato come addirittura indispensabile. Borges non
volle mai scrivere un romanzo perché riteneva che quel genere letterario di per
sé richiedesse troppe pagine descrittive secondo lui superflue, pleonastiche
quantomeno rispetto al suo preciso obiettivo di letterato-filosofo: quello di
fornire al lettore una minima serie essenziale di indizi sul “giallo” di una
realtà già di per sé abbastanza confusa ed angosciante per essere ulteriormente
e inutilmente complicata. Reputò quindi più congeniale il taglio del racconto
breve – o della poesia, non di rado di taglio ‘narrativo’. Per ricorrere ad
un’immagine che penso non gli dispiacerebbe: pur essendo relativamente limitato
il numero di pedine su una scacchiera, la partita richiede già un
impegno intellettuale sufficiente; e, se si volessero occupare anche i
quadretti vuoti con altre pedine supplementari, il numero di mosse possibili si
ridurrebbe in proporzione, mentre soprattutto al lettore-giocatore dovrebbe
essere consentita l’autonomia di svariate mosse pluridirezionali lungo gli
spazi liberi.
Alcune indicazioni sommarie per
poter rendere più immediatamente accessibile, e spero anche godibile, questo mio componimento ad un primo ascolto.
Borges è morto a Ginevra ed è stato tumulato nel cimitero di Plainpalais, poco
distante dal centro di quella città. E’
un cimitero-parco senz’altro chic, e un modello di ordine svizzero a
tutti gli effetti: esemplare sia per la disposizione razionale dei sepolcri,
sia per il numero di cartelli e di freccine segnaletiche destinate a facilitare
al massimo l’individuazione delle varie tombe di interesse del visitatore, sia
per la presenza strabocchevole di panchine simmetricamente sistemate di fronte
alle singole tombe. Recentemente, con
mio divertimento, scoprivo che, a due passi dal cimitero stesso, esiste una
sorta di mescita, un lussuoso bar chiamato con macabro umorismo “Aux Adieux”
(Agli Addii), frequentato giorno dopo giorno dai familiari ed amici dei
defunti, i quali vi si danno convegno per festeggiare – con rumorosa esuberanza
di sentimenti, incredibilmente poco elvetica -- il trapasso dei cari estinti,
diciamo il loro felice passaggio a miglior vita. Partendo da questo curioso particolare, mi si
prospettava all’immaginazione una situazione borgesianamente
fantastico-grottesca che, soprattutto, mi dava modo di rielaborare,
intrecciandole in un contrappunto di simmetrie, alcune di quelle
tematiche essenziali alle quali ho accennato e che mi auguro ritroviate
abbastanza percepibili fra le righe del mio componimento Due parole ancora per
facilitarvi il compito: nel titolo, il parolone “odeporico” (memorie di
viaggio) intenderebbe suggerire già una larvata sfumatura di ironia; già
nell’attacco scanzonato, in apparenza gratuitamente bizzarro, si preannuncia
invece, a ben vedere, il tema chiave del credere e non credere, o meglio
del credere in parte e in parte dubitare, che viene poi portato avanti fino in
fondo alla lirica per continui richiami – fino al momento nodale, direi,
rappresentato dalla discutibile impressione circa il sentimento d’amore più o
meno vero, più o meno falso, di quella “dama riccia e brilla” nei confronti di
Borges. Chi era in realtà quella che qui chiamo l’ultima musa del vecchio
Borges ormai cieco da una ventina d’anni? Era una giovane di padre giapponese
(quasi una sconosciuta: pare che il nostro l’avesse vista appena quando lei era
solo una bambina, e da allora mia più!), la quale gli fece da “infermiera
badante” dopo la tardiva scomparsa della ultranovantenne madre del nostro, e
che egli finalmente sposò poco tempo prima che lo cogliesse la morte per una
forma di tumore maligno. Gli amici del nostro pare ne sorridessero e
malignassero, ritenendola una furba calcolatrice. Quella “dama” si chiamava in
realtà Maria Kodama. Mi è piaciuto immaginarmela vicina al modello della
parodiata Beatriz dell’Aleph, ricordando però anche la frase con cui l’autore
chiude quel racconto: “La nostra mente è porosa all’oblio. Io stesso sto deformando e perdendo, sotto la
tragica erosione degli anni, i tratti di Beatriz.” Borges, nel finale della mia lirica,
esprimendosi per ambigue sentenze filosofiche, lascia intendere questo: impara a dubitare anche tu delle apparenze.
Impara perché, parlandoti di me come ha fatto, quella donna può anche
ragionevolmente aver mentito -- e mentito in buona fede. Può, cioè, aver
desiderato mascherare con un atteggiamento falsamente cinico un
sentimento ben diverso nei miei riguardi.
Di fronte a te potrebbe aver indossato una maschera anche lei, come ho
fatto spesso anch’io con le mie scherzose finzioni per occultare la mia
profonda sofferenza di uomo-artista spiritualmente diverso e incompreso. “E
dietro i miti e le maschere, l’uomo che è solo”: tristi parole del nostro, da voler
ulteriormente ricordare. Potrebbe aver
finto anche lei: così faccio trasparire dalle battute che assegno al Borges
della mia lirica. E’ come se qui, pur nella reticenza, volesse insinuare: mi
auguro che quella donna abbia finto, ma non lo so di sicuro nemmeno io, perché,
da scettico incurabile, non riesco a dare mai niente per scontato: nemmeno
l’amore, nemmeno la sincerità di quelli che, là fuori in quel bar, oggi stanno
celebrando l’anniversario della mia morte con tragica o farsesca
esuberanza. Chi avesse letto il racconto di Borges intitolato “La ricerca di
Averroè” saprebbe però che l’oggetto di quella “ricerca” filologica è
proprio il significato di tragedia e commedia; e ricorderebbe che il senso poi
curiosamente attribuito da Averroè al termine tragedia è “arte di tessere un
panegirico”. Questo particolare mi è piaciuto ricordarlo e ricondurlo ad una
citazione inquietante sulla quale ho fatto leva -- quella che chiude il famoso
racconto “L’immortale”, dove Borges fa dire a Cartaphilus, protagonista
il cui nome è già un programma di ironia: “Quando s’avvicina la fine, non
restano più immagini del ricordo; restano solo parole.” E conclude,
commentando: “Parole, parole sradicate e mutilate, parole di altri, fu la
povera elemosina che gli lasciarono le ore e i secoli.” Nella strofa
conclusiva, ho anche voluto richiamarmi ad un altro passo del nostro: la brusca
scomparsa di Averroè, il quale nel racconto omonimo, si volatilizza
all’improvviso, è in fondo quella stessa che ho immaginato per il mio Jorge
Luis, giocoso filosofo trapassato e fantasma redivivo.
Oltre a questi ed altri indiretti rinvii intertestuali (ad
esempio, alcune citazioni occulte da Shakespeare e Blake, tanto amati dal
nostro), ci sarebbero ancora parecchi particolari da segnalare. Mi limito a
quest’altro soltanto: non a caso metto sulle labbra del mio Borges una famosa
frase di Francesco Bacone, tratta dal celebre “Essay on Truth” (Saggio sulla
Verità). E’ risaputo che il nostro apprezzava moltissimo questo pensatore;
tant’è vero che, in epigrafe all’importante racconto che apre la raccolta L’Aleph,
troviamo una citazione ricavata proprio dai saggi di questo filosofo – e, non
sembri strano, riguarda una alquanto curiosa riflessione proprio sulla
“memoria” e “l’oblio”.
Resti a voi l’eventuale volontà di posare la lente
d’ingrandimento sulle non-gratuità del mio stesso scrivere: anch’esso in superficie
talvolta provocatoriamente scanzonato, anch’esso sofferta maschera di
irrinunciabile serietà.
Amer savoir celui qu’on tire du voyage!
Le monde, monotone et petit, aujourd’hui,
Hier, demain, toujours, nous fait voir notre
image :
Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui.
(C. Baudelaire)
A Jorge Luis il
Grande – le cui spoglie
giacciono in
pace (forse, almeno sembra…)
nella tranquilla
Helvetia, a Plainpalais.
IN UN
DIARIO ODEPORICO
(“Aux
Adieux”)
Artisti a testa in
giù…brrr! Figurarvi
se, in picchiata
sul lago di Léman,
con il biplano di
un collega – un cinico,
ch’è poliglotta e
sfotte anche in patois…--
credessi io mai che
“…a noi cosmopoliti,
financo ai pochi
indegni di un Nobèl,
la Svizzera
elargisce fior di esequie
e, all’occorrenza,
requie in un caveau!”
Dal cielo giunto
incolume, ringrazio
di non dover finire
a Plainpalais.
Finché, in hotel,
non sento da un ”…emerito
docente
ginevrino…insomma, indigeno…”
(rassicurante,
ancora, il mio aeronauta!)
che “…là sta,
morrrto, un grrrande, un…perrruviana?
o meddiosangue anglais…un
cerrrtooo…Borrrg.
Eppure, oui!
(lo punge qualche dubbio)
Vi dico ch’è così…j’en
suis certain!
In terra
là…seppolto…se-pe-li-to…”
Mi dico: fra sti vivi,
io che ci faccio?
Salto su un carro
funebre e…m’avvio.
* * *
Ci misi un’ora
(oddìo, si sa, i furgoni…);
sul posto, invece,
tutta un’altra cosa.
“Che camposanto, “
penso, “è un orologio!
Perfetto omaggio
alle tue simmetrie;
però, con ste
lancette che s’inseguono,
ha un ticchettio
che non concilia il sonno.”
E infatti non
dormivi – ti ricordi?
(Aveva un paio
d’occhiaie! da far spavento.)
Con ironia più
accesa del consueto,
come uno spettro in
armi m’accoglievi:
“Soy ciego yo,
o sei tu!…che non la vedi?…
la stradannata
insegna di quel bar?
Sei sordo?
Non lo senti sto rimbombo
che viene da quel
covo di superstiti?
Sti elevetici!
Compunti, compassati,
soltanto ai
funerali se la spassano.
E, ahimè, le
sepolture quotidiane
qui son delizie
luuunghe! E fragorose.
Stamani, poi!
Dall’alba gozzovigliano.
Per chi? Vedrai…per qualche calvinista
che in vita sua non
ha mai alzato il gomito.
Botti e
petardi!…come a Capodanno!
O siano forse…i
tappi di champagne?
Compari nei piaceri
della carne,
nemici quanto ai
beni dello spirito!
Da’
un’occhiatina. Va’!…non sei curioso?
E’ incline al dolo,
al furto, al tradimento,
l’uomo che non ha
musica in se stesso
ma gode nel
frastuono, come un bruto.
T’aspetterò. Mi serve un resoconto
Su sta buvette
che chiamano ‘Aux adieux’”.
* * *
Ci andai e, in un
baleno, fui coinvolto.
“Entrez!
Venez, monsieur! Siete strranniero?
Un verre de
Veuve Cliquot? Buvez ! Corragio!” –
mi fece un gran
dama, riccia e brilla,
cui pare si dovesse
quel festino –
“Io…sollo vin
nouveau…per riccordare
mon compagnon…un celebre écrivain!
Ogg...è l’anniversaire
del suo décès.
Ah un serrrvellone
d’anciclopedista…
e un raconteur che, fa venti ani e più,
scrivveva comme
un fou! E poi? Un cancer.
Ma prreego…una
tarrtina di foie d’oie?
Et moi? La beela giovvine Maria…”
(“Ma no! – mi dissi
– è…lei! Uhm, strana volpe!
L’ultima musa
sua…che fa la svizzera!
E come posa!” Intuì?
Cambiò pelliccia.)
Non ero che una
larva…da dipingere!
Come per Edgar Poe
la sua Annabelle.
E avesse almeno
chiuso coi pennelli
quel giorno che, bon
Dieu, perse la vista!
Nemmeno più la tela
distingueva
e, scema io, a
fargli da modella!…
Comprende? Però adesso…a giochi fatti…
guardi che
bendidìo! Grazie al suo argent.”
* * *
Tornai. E trasalii nel ritrovarti
seduto al fresco, a
leggerti il giornale!
Parevi trasformato,
eri brioso:
“Quale miglior
panchina di un sepolcro
per aggiornarmi
sull’eternità!…
Orbo? Oramai una
lince! Ma mi limito
ai necrologi – ah,
quelli! mi elettrizzano.
Cum mortuis loquor, et in lingua mortua.
Così esorcizzo il
mito che le storie
dei neofantasmi
passino alla storia.”
Tanto insinuavi. E,
arcuando un sopracciglio,
“Allora? Com’è andata alla…kermesse?
Hai scoperto se ha
torto chi asseriva
che il tempo ha uno
zainetto in cui raccoglie
oboli per l’incuria
degli ingrati?
No, taci! Che puoi dirmi? Imparerai
quanto spesso chi
mente è in buona fede.
‘La verità…what’s that? – disse, celiando,
Pilato – e non
attese una risposta.’:
Bacone. Non lo hai letto? Lo consiglio.”
Ridendo sospiravi –
o viceversa?
Gli eccentrici,
pensai, valli a capire!
“Mi sembri
alticcio…oh oh, t’han fatto bere.
Al mondo che
procede…o alla memoria?
Amico mio, chi
brinda a un dipartito
già celebra
l’inizio dell’oubli.”
Strizzavi l’occhio;
e biascicando (un vezzo?):
“Credo ne cras…scompaia
anche il ricordo!
E’ un attimo…e, se
poco poco indugia,
annoia – come fa in
letteratura.
Ancora? Et encore!…” – e mi additavi il bar –
“Tragedia o
farsa…l’enfasi simbolica…
come un tumore, è
il brufolo di troppo.
Li…senti?” (Annuii:
ormai sentivo anch’io
l’enorme oscenità di quel soverchio. )
“Di giorno può
cantare un usignolo,
quando le oche
strillano? Parrebbe
fin meno musicale
di uno scricciolo.
Solo le circostanze
riconducono
le cose belle al
loro giusto pregio.”
* * *
E sparve Jorge Luis! Non feci in tempo
a dirgli, oh che ne
so, che non sbagliava?…
ma che c’è il pro e
il contro in ogni cosa?
Defunto o redivivo,
tagliò corto.
Compresi: era lo spunto del romanzo
che mai non scrisse
– mai, per non tradire
l’arcano immenso
della Brevità.
Roberto Vittorio Di Pietro
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