DINO BUZZATI E “ LA
BOUTIQUE DEL MISTERO “
di Roberto Vittorio Di Pietro
( Una conferenza riproposta
in nuce )
...tu stesso ti fai grosso
col falso immaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l'avessi scosso.
(Dante, Paradiso, I)
Dino Buzzati nasce nel 1906 a San Pellegrino, nei pressi
di Belluno, nella villa cinquecentesca di proprietà della famiglia. I genitori risiedono stabilmente a
Milano. Il padre, professor Giulio
Cesare, insegna diritto internazionale all’Università Bocconi e all’ateneo di
Pavia. La madre, Alba Mantovani,
veneziana come il marito, è l’ultima discendente della famiglia dogale Badoer
Partecipazio. Dino, dopo aver
frequentato il ginnasio Parini di Milano, nel 1928 si laurea in legge, mentre
già lavora alle dipendenze del “Corriere della Sera” come addetto al servizio
di cronaca: è quindi poco più che ventenne quando intraprende, dalla gavetta,
la sua lunga e brillante carriera giornalistica, destinata ad influire non poco
sulle sue scelte etiche, e in fondo anche stilistiche, di letterato
eminentemente propenso -- lo si rileverà da tutto quanto illustreremo -- a
concepire la propria attività di scrittore
come “arte per la vita”. In questo
senso, il giornalismo fu per il nostro
un tirocinio estremamente proficuo, essendo stato praticato con l’onestà
intellettuale, la sensibilità e lo spirito vigile di un cronista-filosofo che
intese il proprio lavoro come attenta verifica critica del quotidiano, e quindi
come confronto diretto e continuo con una realtà autentica, di per sé ricca di
“fantastici” spunti di riflessione sugli enigmi della psiche e del
comportamento umano, con quel tanto di “mistero imponderabile” che,
trascendendo di volta in volta la contingenza fenomenica della semplice
attualità, si colloca nella sfera dell’atemporale e dell’universale.
Buzzati affermava: “Il giornalismo per me non è stato un
secondo mestiere, ma un aspetto del mio mestiere. L’optimum del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura. E
non vedo come la pratica del giornalismo, se si tratta di buon giornalismo,
possa nuocere a uno scrittore. Certe
esperienze di cronaca, anzi, penso che siano nettamente vantaggiose agli
effetti artistici.” Rara intuizione, la sua – e di fatto giustamente apprezzata
all’estero (penso alla Francia soprattutto, dove la critica lo scelse come
primo autore italiano al quale dedicare dei Cahiers,
e dove sorse addirittura l’Association
Internationale des Amis de Dino Buzzati; e penso all’interesse particolare
manifestato da Albert Camus nei suoi confronti; ma ho in mente anche la
Germania e i paesi anglosassoni, dove l’opera del nostro, in traduzione, fu
oggetto di immediati elogi). In Italia, invece, le cose andarono piuttosto
diversamente. La figura e la presenza di Buzzati nel Novecento italiano – è
risaputo -- furono condannate in un primo tempo all’isolamento e a un sussiegoso
disinteresse. La critica letteraria italiana ebbe, addirittura, la tentazione
di liquidare i suoi scritti come “curiose novellette, in bilico fra la cronaca
e la favola.” Il suo apparente distacco dalla storia, dall’ideologia, dai miti
della modernità, il suo rifiuto di aderire a gruppi e correnti letterarie di
moda, lo avevano rinchiuso in una specie di sottordine letterario. Era uno
scrittore che, di primo acchito, pochi a casa nostra presero sul serio; e non
lo fu certamente per lo stesso motivo per cui Umberto Saba, subì da principio
una sorte non molto dissimile: quello di non temere di usare “parole trite”,
anzi di “amarle” (come, notoriamente, dichiara Saba in una sua provocatoria
professione di poetica); ossia di non ricercare l’artificio verbale, bensì
soprattutto un messaggio umanamente autentico, veritiero, da affidarsi con
fiducia alla pagina scritta. Fino al 1965, malgrado fossero usciti numerosi
interventi, soprattutto su quotidiani e riviste, i giudizi dei critici nostrani
in effetti non individuarono l’importanza essenziale
del messaggio di Buzzati, che con la cosiddetta bella pagina letteraria non ha
nulla a che fare. Eppure già nel 1960, era uscita una sua raccolta di aforismi
intitolata “Egregio signore, siamo
spiacenti di…” dove l’autore informava i lettori (e i critici) che si
continuava a non “capire” la sua opera, e che perciò egli sentiva l’esigenza di
dire come stavano realmente le cose. Lo stesso proposito si può ravvisare in
modo fin più convincente nella sua “Presentazione all’opera completa di Bosch”
– testo in genere trascurato, anche se forse indispensabile per poter valutare
appieno il discorso antropologico ed extraletterario di Buzzati.
Nei racconti che fra poco passeremo in rassegna, noterete
(andandoveli a consultare direttamente) che Buzzati utilizza parole piane,
dimesse, comunissime parole del linguaggio
parlato -- e non dimentichiamoci, per inciso, il suo vivo amore per il
teatro e la sua notevole attività in quel settore. Le difficoltà di lettura non sono insite
nelle scelte lessicali, ma nei significati ulteriori fra le righe, quelli sì
fascinosamente ambigui, che Buzzati propone alla nostra sensibilità. Vi chiedo:
significati ultimi a lui ben noti razionalmente in partenza? O piuttosto
domande rimaste sospese, enigmatiche anche per l’autore? Allegorie
unidirezionali o simboli plurivoci? Questa
è senza dubbio una verifica che ogni critico serio dovrebbe voler esperire,
e alla quale oggi desidererei poter stimolare.
Dino terrà da sempre una sorta di zibaldone, in cui, a
parte qualche breve lacuna fra il 1966 e il 1970, annoterà quotidianamente o
quasi ogni sorta di impressioni, giudizi, motivi tematici da sviluppare – e ciò
addirittura fino a nove giorni prima
della morte, sopravvenuta nel gennaio del 1972.
In questo suo diario, è interessante rilevare come i fatti di cronaca si
affianchino alle considerazioni filosofiche più consone al suo temperamento
speculativo, per poi trasformarsi in altrettanti spunti fondamentali per la sua
attività di narratore. Vi emergono anche le passioni alle quali resterà fedele
per tutta la vita:
-
l’amore per la montagna, intesa come rifugio degli
spiriti contemplativi, simbolo di un luogo arcano che ha radici perse nella
notte dei tempi, quando l’uomo nasceva al mondo e alla vita senza distinzione
di classe e di ordini (e si noti che il suo primo testo letterario, composto
all’età di soli quattordici anni, è intitolato “La Canzone delle Montagne”; seguiranno più tardi in questo stesso
filone, “Barnabo delle Montagne”
e “Il
segreto del bosco vecchio”);
-
il disegno e la pittura, nel cui ambito Buzzati otterrà
lusinghieri riconoscimenti;
-
la musica, che lo indusse a scrivere volentieri alcuni
libretti operistici (ivi compreso quello per il melodramma “Il mantello” tratto
dal suo racconto omonimo), musicati in buona parte dal maestro Luciano Chailly.
-
la poesia (e il Buzzati poeta è autore fra l’altro di
un incisivo poema satirico intitolato “Tre
colpi alla porta”, 1965, -- oltre che delle “Storie Dipinte” (‘58) , del “Poema
a Fumetti” (‘69); e de “I miracoli di
Val Morel”, una raccolta di testi caratterizzati dalla sovrapposizione fra
il disegno e una poesia squisitamente intesa come ritmo musicale.
Non mi soffermerò a fornirvi
ulteriori dati di carattere biografico, né a fornirvi il classico elenco
cronologico delle opere. Volutamente non lo farò -- per due motivi: anzitutto
perché oggi più che mai, simili notizie sono reperibili fin nei minimi dettagli
sui siti Internet, oltre che nei testi tradizionali, in cui, per giunta, non
mancano tutti i giudizi critici possibili e immaginabili dei diversi storiografi
della letteratura; e secondariamente, o forse principalmente, perché mi preme,
attraverso questo mio piccolo intervento mirato, favorire un approfondimento autonomo:
spingervi a superare, cioè, quel genere di pigrizia mentale che oggigiorno, in
quest’era del consumismo a tutto campo,
induce sempre più a voler trovare ogni cosa già bell’e pronta, oserei
direi offerta sul piatto predigerita come gli omogeneizzati al Plasmon. Mi
augurerei di potervi invogliare a leggere, o a rileggere con più gusto e
maggiore consapevolezza, direttamente le pagine di Buzzati per poterne ricavare
delle impressioni personali, in aggiunta a quelle che potrò suggerirvi io, e al
di là di ogni opinione già espressa magari da critici più o meno celebri e
rispettabili – pareri di professionisti che certamente è molto opportuno
conoscere e ponderare il più possibile (se non altro per evitare malaugurate
interpretazioni del tutto arbitrarie…), pareri autorevoli sicuramente
raccomandabili, ma non per questo sempre automaticamente degni di cieca
sottoscrizione. E’ un consiglio, questo,
che non mi stancherò mai di ripetere; ma lo sottolineo tanto più volentieri in
questa occasione tenendo conto anche dell’atteggiamento ribelle manifestato
dallo stesso Buzzati al riguardo. Nel suo “Viaggio agli inferni del secolo”
(dal titolo già abbastanza allusivo), il nostro esclamava: “I critici, si sa,
una volta che hanno messo un artista in una casella, ce ne vuole a fargli
cambiare parere!” Aggiungerei: non solo
gli artisti, gli individui in genere – e per questa via purtroppo, in
conclusione, ognuno resta, quello che ad altri pare, o preferisce credere. I
giudizi, comunque, che più lo indispettivano erano quelli che amavano
segnalarlo come una sorta di emulo di Kafka, seppure di un Kafka “domesticizzato”,
per citare un aggettivo che trovo usato dal Manacorda in particolare. In un suo
elzeviro del marzo 1965, Buzzati dichiara con insofferenza: “Da quando ho
cominciato a scrivere, Kafka è stato la mia croce! Non c’è stato mio racconto, romanzo, commedia
dove qualcuno non ravvisasse somiglianze, derivazioni, imitazioni o addirittura
sfrontati plagi. Certi critici
denunciavano colpevoli analogie anche quando spedivo un telegramma o compilavo
un modulo Vanoni!” E aveva ottime
ragioni per contestare questo accostamento, piuttosto semplicistico secondo me,
se si pensa che le buie, insormontabili chiusure interiori tipiche di Kafka
sono in effetti fondamentalmente estranee alla natura scettica sì, ma non
disperata, né tanto meno solipsistica, del nostro. Negli eventi misteriosi che
Buzzati registra, non c’è mai spazio per il cupo spavento; ma questo
particolare lo distingue anche da Edgar Allan Poe, un altro autore al quale
venne talora superficialmente paragonato: uno scrittore tipicamente estetizzante,
Poe, assolutamente privo di motivazioni etiche, a differenza del nostro. Ciò
che traspare dalle opere di Buzzati è, per contro, un turbamento affettuoso,
un’assidua trepidazione per la fragile condizione umana che l’autore sente di
condividere intimamente.
Diciamo di no, quindi, in omaggio ai desideri del nostro
Dino – del quale, incidentalmente,
proprio lo scorso ottobre 2006, ricorreva il centenario della nascita. Da parte nostra stasera nessuna volontà di
incasellamento improprio: quello del resto, pur essendo comodo, è sempre
riduttivo se non nocivo; ma nemmeno grandi pretese di ordine critico, solo
alcune constatazioni sotto forma di ‘postille marginali’ che potrebbero persino
giungergli gradite, se servissero a farci individuare meglio alcune
particolarità del suo ‘messaggio’, rimaste, se non erro, insufficientemente
evidenziate dalla critica (o magari sottintese?...) – a quanto ho modestamente
potuto desumere sfogliando, per mia curiosità personale, la bibliografia più
seria oggi disponibile sull’autore.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento ed esaminare
queste particolarità, ritengo tuttavia opportuno mettere a fuoco se non altro
il grande leitmotiv filosofico che
informa il suo indiscusso capolavoro, “Il
Deserto di Tartari” (Rizzoli 1940, poi Mondatori 1945): la concezione della
vita come inutile e vuota attesa di qualcosa che mai arriverà, mentre, nel vano
aspettare, entusiasmi e desideri si smorzano fino a sfociare in una rassegnata
accettazione della fine – rassegnata ancorché dignitosa, qualora ci si sia spiritualmente preparati a quel traguardo. Si tratta di un nucleo tematico ovunque
insistentemente ripreso sotto varie angolature nei successivi romanzi come nei
racconti brevi del nostro, e senz’altro presente anche nella raccolta specifica
che sono qui a voler commentare – “La
Boutique del Mistero” -- una selezione di trentun racconti che l’autore
dichiaratamente intendeva riproporre, nel 1968, come “il meglio di quanto
sinora ho scritto”. Anche qui, come in tutto il resto dell’opera, emerge la
volontà di indagare oltre le fuorvianti apparenze: l’assidua ricerca, nelle
cose e negli uomini, di ciò che si sottrae allo sguardo e in definitiva
inganna.
In linea generale, si può dire che ogni libro di Buzzati
risulterà legato all’altro in quanto rappresentazione delle fasi di una vita
umana. Nel flusso del tempo universale,
lo scrittore enuclea un brandello di storia che si dilata fino a diventare un
romanzo, o talvolta anche solo un racconto.
I personaggi buzzatiani, le cui origini non sono mai definite, sono
perlopiù trascinati in una trama che, in qualche modo, li avvia passo passo
verso un tracollo tipicamente preceduto da una progressiva dissoluzione di
quelle facoltà di discernimento che, se conservate intatte, potrebbero invece
consentire una migliore qualità della vita, o, diciamo, qualche inutile
angoscia in meno. Si tratta di un orientamento filosofico maturato fin dai
tempi di “Barnabo” e del “Bosco Vecchio”, romanzi che già prefiguravano gli
sviluppi successivi. Muovendosi idealmente dal misterioso bosco montano della
fanciullezza alla “pianura vile” e desertica dell’età adulta, Buzzati, con
l’occhio attento del cronista, capta dovunque una costante, purtroppo quasi
fatale deformazione psichica dell’uomo che ha smarrito la purezza originaria e
il senso del mistero che la caratterizzava. Constata con un certo pessimismo le
diverse forme di negatività; ma al tempo stesso le contesta fiduciosamente,
allargando così in positivo l’impegno etico della parola scritta. I mezzi
offerti dalla letteratura (il regno della phantasia)
non sono allora che strumenti di affabulazione di un’imaginatio vera che gli consente di agire creativamente sul reale
con onesta obiettività, per meglio dipingere soprattutto i vari “mostri della
normalità” (come li definisce il nostro, con un inquietante ossimoro), sapendo
di poterli rendere più incisivamente memorabili se paradossalmente calati in
situazioni tese ai limiti del surreale o addirittura del grottesco; nel caso
specifico inquadrandoli in parabole allegorico-simboliche (ci soffermeremo fra
poco a precisare brevemente la necessaria distinzione). Parabole spesso
enigmatiche ma che, pur nella loro ambiguità, come è stato giustamente
osservato “non si spingono mai tanto in là da non poter essere ricondotte ad
aspetti concreti del reale”. In ogni caso – ed è questo che mi preme rilevare
più di quanto non mi sembra sia stato mai fatto dalla critica – parabole
perlopiù intese a presentarci tali “mostri della normalità” come vittime
normalmente ignare di esserlo, normalmente in balìa di suggestioni fallaci, di
ubbie e di impulsi assolutamente irrazionali che tendono ad essere vissuti come
logici, reali e razionali anziché, come storture assurde e deprecabili. Così
impostato, il vivere non può che tradursi in un’attesa angosciante in quanto
costellata di strane paure inconsce, subliminali: timori immotivati e
ingovernabili che ostacolano l’azione o la retta decisione a tempo e luogo. Ma
anche, per converso, certe forme di incoscienza, di caparbia cecità che impediscono
di avere saggiamente paura del pericolo e di prendere tempestivamente i
provvedimenti adeguati per scongiurarlo -- come avremo modo di verificare
attraverso l’esame di alcuni racconti piuttosto rappresentativi. E spesso per queste precise ragioni la vita
diviene un’attesa senza sbocchi utili, risulta privata di un senso che se non
sia quello di accostarsi da sprovveduti, ossia in definitiva nel peggiore
dei modi, all’inevitabile evento finale. Occorre dire, al tempo stesso, che
Buzzati denuncia così i vari sintomi di una diffusa malattia spirituale, ma lo
fa umilmente: senza escludersi, cioè, dalla schiera dei malati,
ritenendosi anch’egli colpito e condizionato in qualche misura, in quanto
figlio dei suoi tempi -- o forse in quanto uomo come tale, in senso lato? Sta
qui una domanda di ordine metafisico dovunque sottintesa nelle pagine di
Buzzati: la domanda di un uomo in ogni caso “diverso” poiché individuo
anzitutto pensante nel senso eticamente più elevato del termine, ma anche
sensibile o direi meglio ‘sensitivo’, capace di percepire a fior di pelle, con
straordinario acume sensoriale, a differenza della media degli umani, la
misteriosa problematicità del nostro mondo interiore.
Se c’è un altro scrittore al quale Buzzati avrebbe semmai
avuto diritto di sentirsi più o meno giustamente affratellato, secondo me, è
Nathaniel Hawthorne – coevo di Poe, ma a differenza di quest’ultimo, purtroppo
noto in Italia quasi esclusivamente come autore della famosa “Lettera
Scarlatta”, anziché come creatore di interessantissimi racconti brevi che si
presentano sotto forma di parabole: narrazioni apparentemente solo fantasiose,
ma in effetti intimamente legate a problematiche esistenziali concrete quanto
altre mai, ricchissime indagini di ordine psicologico-morale in ogni caso
oscillanti anch’esse fra allegorismo e simbolismo Vi inviterei quindi a cercare i racconti di
Hawthorne, meglio se in lingua originale per chi è in grado di leggere
l’inglese, e a volerne poi confrontare l’atmosfera, e il valore dei contenuti, con
quanto di più caratteristico emerge nei racconti di Buzzati. Ma eccoci arrivati ad un punto cruciale: si
tratta di allegorie o simboli?
Il richiamo etimologico è di per sé un prezioso supporto
per comprenderne la differenza. Il
sostantivo simbolo è riconducibile al verbo greco ‘symballo’, cioè associo, unisco, metto insieme; ma, è fondamentale
osservarlo, il risultato non è un accostamento bensì un amalgama in cui
significante e significato convergono, si confondono, si identificano
indissolubilmente. Il termine allegoria
indica propriamente in greco un argomentare con immagini diverse, ossia un logos (discorso, ragionamento) regolato
da criteri di studiato parallelismo semantico fra un’esposizione puramente
denotativa e un elaborato icastico che è ‘allo’:
e non si dimentichi che, in greco, ‘allo’
vale sì diverso, ma curiosamente anche estraneo. Si può desumere quindi che nel
primo caso, a differenza del secondo, l’associazione si articola in un clima di
massima libertà e spontaneità in quanto essa è tutt’altro che finalizzata alla
dimostrazione di una qualche tesi precostituita. L’allegoria è, in fondo,
un’equivalenza aritmetica, un’espressione algebrica: (a + b) x (a – b) = a2 +
b2. Il simbolo per sua natura si sottrae, invece, a qualunque genere di equipollenza
matematica di questo tipo. Vi rimanderei a un capitolo intero dell’ Estetica di
Gyorgy Lukàcs su questo argomento, documentatissimo e affascinante. Mi limito oggi a ricordare, in proposito, la
calzante definizione di simbolo che ci offriva quel grande critico di casa
nostra che fu Giacomo Debenedetti, in un suo saggio sull’arte di Pirandello:
“Il simbolo è senso che emana dagli oggetti, siano persone o cose o eventi. E’
un’apparizione che non sa e non può e non vuole dire altro che se stessa, il
senso di se stessa: non simboleggia che se stessa, se mi si perdona questa
espressione tautologica, d’altronde inevitabile perché il simbolo stesso è una
tautologia. Provatevi ad alterare i connotati di un simbolo. Lo distruggerete:
potrete ottenere qualche significato della cosa che si è presentata nel
linguaggio pregnante del simbolo, ma avrete perduto la totalità indivisibile,
compatta, non analizzabile, del suo senso. Sarebbe come cambiare una nota in
una melodia: non solo la musica non è più quella, ma esprime un’altra
cosa.” L’allegoria, per contro, è una
similitudine prolungata, un’ingegnosa
metafora intellettuale o narrativa: si ottiene prendendo il significato di una
cosa e decidendo o constatando che quel significato si può esprimere o raffigurare
presentando un’altra cosa che ha lo stesso significato, o a cui si attribuisce
lo stesso significato. Spero risulti
chiara questa sostanziale differenza. E
Buzzati? In questa luce, dei suoi racconti che cosa si può dire? Vorrei che foste poi voi a riflettere,
giudicare e concludere di volta in volta, ad ogni lettura che si raccomanderà.
E a che pro, potreste chiedervi? E’ impensabile voler sviscerare l’argomento in
questa sede. Ma, per mettervi un pochino sulla giusta strada e farvi venire il
desiderio di approfondire, risponderei così:
perché ben lungi dall’essere un problema squisitamente letterario,
questa distinzione assume un valore etico
tale da corrispondere ad una vera e propria scelta ideologica. Infatti, ridurre
i giudizi sull’uomo e le sue vicende a mere equivalenze aritmetiche, significa dimenticare che ogni singolo
individuo umano, come del resto ogni aspetto del vivere e dell’interagire
storico, è caratterizzato da una complessità tale da non ammettere sentenze
critiche univoche, sommarie, definitive e mutilanti. In due parole: se
l’allegoria traduce pur sempre un giudizio morale precostituito, il simbolo
rispecchia in assoluto la sospensione di ogni giudizio – la cosiddetta epoché.
Ho necessariamente dovuto selezionare solo alcuni di
questi racconti, a mia discrezione. E
l’ho fatto con il proposito di mettere in evidenza un filo conduttore, direi, o
un “messaggio” specifico coerente e ricorrente che, riprendendo in mano questo
libro a distanza di trent’anni anni circa dalla mia prima lettura, mi si è di
colpo rivelato più chiaro nei suoi intendimenti etici: una sorta di ‘vademecum’
filosofico, prezioso e decisivo. Dovendone riassumere con parole povere la
sostanza, e schematizzando, potrei direi che nel comporre una buona parte di
questi racconti, l’autore senza dubbio medita e vorrebbe, di riflesso, farci
meditare sull’importanza che determinati
errori di giudizio e di comportamento assumono a scapito della migliore
gestione della vita umana e delle sue risorse. Abbagli dovuti ad una diffusa
drammatica incapacità di affrontare serenamente, razionalmente cose, persone,
circostanze – come del resto abbiamo già accennato. Ma, a ben vedere si tratta
sempre di errori per eccesso,
puntualmente riconducibili a due tipi
essenziali di cause contrapposte: da un lato la tendenza a sopravvalutare un pericolo
perlopiù immaginario, tendenza dalla quale dipendono impedimenti interiori
ingiustificati e quanto meno indesiderabili; e, dall’altro, l’inclinazione – fin più nociva -- a sottovalutare un qualche
pericolo viceversa reale e concreto, bisognoso di essere preso in ben più seria
considerazione. Va rilevato per inciso che l’eziologia, per così dire, qui non
interessa: Buzzati non pretende di indagare sulle cause ultime; Buzzati
registra il fenomeno e, inquadrandolo creativamente in drammatiche situazioni
estreme, per ciò stesso tanto più coinvolgenti, stimola semmai in noi lettori
l’eventuale bisogno di scoprire – ciascuno per conto proprio, di fronte alla
propria natura intima e alla propria coscienza -- l’origine riposta di tante
forme aberranti di condotta in cui è difficile non riconoscersi in qualche
misura. E’ ovvio che sto così
schematizzando una tesi che non può rendere piena giustizia alle qualità di un filosofo-artista
come Buzzati, il quale si affida ad una tavolozza ricca di sottilissime
sfumature di colore per poter suggerire ‘visivamente’ le sue sconcertanti
intuizioni. Eppure, questo bipolarismo della sottovalutazione e della
sopravvalutazione del rischio insito nelle esperienze esistenziali, ritengo
sia uno schema di riferimento molto utile se ci limitiamo ad utilizzarlo come
una sorta di canovaccio entro cui muoverci con buona approssimazione,
riservandoci di volta in volta ogni ulteriore analisi più precisa che i singoli
racconti richiedono.
LA SOTTOVALUTAZIONE
DEL RISCHIO
Da questa angolatura filosofica accostiamoci perlomeno ai
tre racconti seguenti che figurano nella “Boutique”: “Eppure battono alla porta” ;
“I Topi”; “Una cosa che comincia per “L”. Questi ci presentano un tema di
fondo pressoché analogo. Buzzati è stato, fra l’altro, anche accusato dalla
critica di essere ossessivamente ripetitivo nelle sue scelte tematiche. E’ abbastanza
vero, se vogliamo; ma è un demerito? Oserei suggerire, con un’immagine
metaforica, che un certo albero lo si può giustamente voler fotografare in
varie posizioni o situazioni. E allora l’albero, pur rimanendo oggettivamente
lo stesso, ci rivelerà alcune sue caratteristiche ogni volta diverse: sarà in
grado di suscitare in chi lo osserva emozioni e pensieri di varia intensità su
diversi piani, a seconda che ci si fermi a guardarlo di giorno, fisso come un
monumento in pieno sole; o che lo si veda ondeggiare come ombra incerta fra le
ombre del tramonto; o che lo si colga quando viene scosso da un’improvvisa
folata di vento che preannuncia un’imminente bufera.
1. Eppure battono alla porta
Atmosfera di crisi, di grave pericolo imminente; la
minaccia sempre più sicura e palpabile di una catastrofe alle porte, della
quale tuttavia ci si rifiuta ostinatamente di prendere coscienza per potersi
assumere le proprie responsabilità e quindi correre tempestivamente ai ripari.
“Tesaurizzare il tempo”: sembra una battuta irrilevante, un qualunque titolo di
giornale. Da mettersi in relazione non solo con l’intero contesto del racconto,
bensì con quello che prima segnalavo come tema centrale nell’opera di Buzzati:
il tempo dell’esistenza che non andrebbe passivamente sprecato, eppure troppo
spesso viene speso come inutile, abulica attesa di una fatalità. Qui come in
altri racconti, la tendenza nociva è quella di non voler vedere, di voler nascondere ad ogni costo la testa
sottoterra come gli struzzi. L’atteggiamento della protagonista,
l’aristocratica padrona della bella villa gradatamente invasa dal fiume in piena,
è il più incisivamente rappresentativo in proposito: un radicato istinto
accecante di orgogliosa autostima, che pur potendosi configurare al lettore
come una forma di psicologica autoconservazione anziché di vera e propria viltà
(quel non voler capire ed accettare per un bisogno di autodifesa interiore,
diremmo) di fatto, però, si traduce in clamoroso autolesionismo, e culmina in
un disastro irreversibile. Ma qui risulta deleterio non solo in termini di
equilibrio individuale – no: perché quanto si delinea in queste pagine, e non
mi pare casuale, è il destino fallimentare di una famiglia relativamente agiata e potente, tragicamente chiusa in se stessa
e compiaciuta della propria autosufficienza, insensibile alle istanze di una
qualche realtà storica esterna in
evoluzione. Forse ciecamente distrutta da un’esasperata, troppo fiera ‘coscienza
di classe’? Alla lettura, certamente si rileverà quanti elementi strutturali,
come al solito misuratamente parcellizzati da Buzzati, possono portare anche -- seppure non esclusivamente,
beninteso -- a questo genere di supposizione.
E come non ricordare, in termini di analoga ‘atmosfera
pre-rivoluzionaria’, la famosa biografia “Marie Antoinette” di Stephan Zweig? O
quella che caratterizza la decadenza e prelude alla caduta dei Romanov, come
splendidamente delineata da Colin Wilson nella sua indagine biografica su
Rasputin? O, se queste opere letterarie non si conoscessero, anche solo il
caratteristico piglio svagato e irresponsabile del personaggio di Luigi XVIII
come psicologicamente raffigurato in un recente film televisivo di particolare successo,
dedicato a Napoleone Bonaparte.
2. I topi
Qui si noterà come la denuncia della sottovalutazione del
pericolo si riaffacci puntuale, ma in un’altra prospettiva. Lì per lì, tante le
analogie, volendo. A tal punto che qualcuno, ricollegandosi al racconto
precedente, potrebbe azzardare: quei topi invasori, che alla fine estromettono
i proprietari della casa, i quali, da incoscienti e irresponsabili si rifiutano
di cautelarsi contro la loro temibile avanzata, non sono che un’altra metafora
per indicare più o meno la stessa cosa. Nel primo caso il racconto si
concludeva con la fuga degli sconfitti. In questo caso si conclude con il loro
assoggettamento, la loro detenzione in prigionia. E, se qualche lettore/critico di tendenze
politiche reazionarie volesse malauguratamente strumentalizzare questo
racconto, oggigiorno avrebbe persino la possibilità di insinuare che questi “topi”,
beh, sono una sorta di sottile premonizione buzzatiana: un’allusione metaforica
ante litteram all’attuale avanzata
irrefrenabile degli immigrati, degli extracomunitari, dei clandestini, dei
barbari invasori…
Ma qualcun altro, a buon diritto, potrebbe altrettanto plausibilmente suggerire:
non proprio -- forse sono, in fondo, tutti coloro che disonestamente tramano
alle nostre spalle e, approfittando della nostra buona fede, della nostra
eccessiva distrazione (l’ingenuità colpevole, in fondo, è pur sempre nostra),
in qualunque settore della vita ci scalzano e ci sopraffanno. Interpretando
anche così il racconto, lo si trasformerebbe in una banale allegoria -
inquietante sì, ma, specie nel primo esempio, a dir poco di cattivo gusto. E,
soprattutto, chi così decidesse, forzerebbe la lettura in senso univoco, senza alcuna
giustificazione effettiva da parte dell’autore.
Il che, invece, è sempre determinante. In realtà, contrariamente a
quanto fa nel racconto precedente, Buzzati qui non fornisce alcun elemento
strutturale che ci indirizzi verso una concepibile lettura per così dire anche
“politica”. Qui ci autorizza in compenso a filosofare in senso più generico,
ampio ed elevato. Quanti topi, quante
bestiacce immonde si insediano subdolamente nella nostra anima sotto forma di
vizi del pensiero e della volontà, “mostri” che ci rifiutiamo di esaminare con
razionale autocensura, mostri che un po’
per volta diventano parte integrante della nostra personalità e quotidiana
“normalità”: mostruosi difetti caratteriali con i quali in definitiva
conviviamo da vittime “normalmente” rassegnate -- come quella padrona di casa
che, nel racconto, finisce addirittura per nutrirli come parassiti, senza via
di scampo. E l’autore, in questo
racconto veramente ‘aperto’, ci
autorizza persino a sconfinare verso un’ipotesi di ordine metafisico; a
chiederci: quelle creature minacciose sono poi presenze reali? O sono i fantasmi
immaginari che noi stessi alberghiamo nella nostra psiche e per opera dei quali
ci trasformiamo un po’ per volta in abuliche larve senza reattività? In tal
modo i fantasmi diventano veri e gli esseri viventi si rivelano fantasmi. A
grandi linee, la medesima tesi del recente film di successo “The others” – ma certo non altrettanto
gratuitamente strampalata, qui traducibile in un prezioso insegnamento concreto
di quotidiana filosofia esistenziale.
3. Una cosa che comincia per “L”
Nel mirino dell’autore ancora una volta la
sottovalutazione di un rischio -- che, però, in questo caso, è un pericolo non
più solo concepibile, in qualche misura prevedibile, ma del tutto palese,
sicuro, inequivocabile. (Lo stesso albero, ma ora osservato in piena luce, per
tornare alla similitudine che avevo usato.) In questa vicenda, il lebbroso si
segnala chiaramente, agita la campanella; quella campanella continua a suonare
e a richiamar ripetutamente l’attenzione. La colpa del protagonista consiste in
una distrazione gravemente irresponsabile.
Ed è significativo che il malcapitato non voglia ammettere questo suo
errore, che si scagioni aggressivamente.
Troppo spesso tendiamo ad attribuire ad un destino avverso, al quale ci
ribelliamo con la stessa irascibilità del personaggio di Buzzati, certi nostri
errori che potevano essere oculatamente evitati, e che invece, persino a
malanno avvenuto, ci rifiutiamo di riconoscere come tali. Ecco allora il contagio per mancanza di precauzioni: anche solo se interpretato
in senso letterale, questo racconto dovrebbe farci meditare; ad esempio, quanti
rischi concreti si corrono oggi più che mai attraverso i rapporti carnali
promiscui perlopiù affrontati, addirittura ricercati, con totale
incoscienza. Ma una lettura meno
restrittiva (così ci ammonirebbe Buzzati) consente, deve consentire, di poter anche
qui dilatare il significato di quel contagio, estendendolo alla sfera morale:
di poterlo concepire come una altrettanto temibile contaminazione dello spirito
attraverso il contatto diretto con individui in altro modo pericolosi:
individui interiormente malsani, psichicamente inquinati, affetti da qualche
brutto morbo dell’anima: persone che tuttavia non esitiamo a voler incautamente
frequentare, pur avendo avuto modo di comprenderne chiaramente la natura, pur
avendo sentito più volte suonare una “campanella”, una funesta campana a morto,
il cui cupo rintocco preferiamo spensieratamente ignorare.
LA SOPRAVVALUTAZIONE DEL RISCHIO.
Il racconto intitolato “Il
Colombre” si pone agli antipodi di quelli che abbiamo sinora esaminato, in
quanto ci invita a voler riflettere su un altro errore di giudizio, nettamente
contrapposto, che nella vita è sovente anch’esso causa di ingiusta infelicità: l’assurdo timore di un rischio
irrazionalmente sopravvalutato. Si
tratta di uno degli scritti giustamente più celebri di Buzzati; un’opera ricca
di fascinose sfumature sulle quali è un peccato mortale dover sorvolare, come
sarà invece necessario fare in questa sede. Limitiamoci a coglierne il succo. Anzitutto,
che cos’è un colombre? Una sorta di leggendario squalo; “tremendo e misterioso,
più astuto dell’uomo, -- precisa testualmente il nostro, -- per motivi che
nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l’ha scelta, la insegue per
un’intera vita finché è riuscito a divorarla.
E lo strano è questo. Che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima
stessa e le persone del suo stesso sangue.” Il protagonista, il dodicenne
Stefano, degno figlio di un marinaio, è un ragazzino entusiasta della
navigazione; un giorno ha la sfortuna di avvistare quello squalo all’orizzonte;
viene pertanto persuaso dal padre a trovarsi un lavoro che gli garantisca
sicurezza, a rinunciare per sempre e rassegnatamente alla sua passione per il
mare, pena la sua stessa vita. Morto il
padre, Stefano, pur consapevole del terribile destino che lo ha segnato, non sa
però resistere a lungo al richiamo del mare da un lato, e, dall’altro, al
fascino del rischio che per lui quella scelta comporta; in questo stato
d’animo, poco più che ventenne riprende quindi la navigazione e così prosegue,
non senza perenne angoscia tuttavia, fino ad avanzatissima età. Sentiamo le parole di Buzzati: “Vecchio e amaramente
infelice perché l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di
pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma più grande che le
gioie di una vita agiata e tranquilla era stata pur sempre la tentazione
dell’abisso.” Alla fine del racconto, ecco il colpo di scena: quello squalo
tanto temuto e detestato, si rivela in realtà un gentile e generoso amico
purtroppo incompreso: confessa candidamente al vecchio Stefano di avere
inutilmente tenuto in serbo per lui un prezioso gioiello che, da anni e anni,
avrebbe solo desiderato potergli consegnare.
Invitandovi a voler leggere con rinnovato interesse questo
racconto, lascio a voi ogni ulteriore riflessione. Solo una piccola osservazione: era “una perla di grandezza spropositata”,
dice l’autore; ma, in seguito, la definisce solo “un piccolo sasso rotondo”. Come
mai? Che intenderebbe suggerire? Pensateci su per conto vostro.
Buzzati, con la precisione di un cronista, registra
vicende singolari, ma le sue metafore, per quanto eccentriche, fantasiose,
surreali, si rivelano fatte di sostanza umana e molto più vicine a noi di
quanto in apparenza non sembrino. Variano situazioni e personaggi, ma ogni
racconto è un momento essenziale di indagine psicologica, volta a penetrare il
mistero che circonda l’uomo e la realtà concreta in cui egli si muove – quella moderna? contemporanea? Rivalutando
la cosiddetta “attualità” delle metafore di Buzzati, a certa critica è piaciuto
ricorrere a questo genere di qualificazione restrittiva – ma direi si tratti piuttosto
della natura umana tout court, con le debolezze e i paradossi che la
caratterizzano ab aeterno, e
continueranno forse sempre a contrassegnarla, immutabili in ogni tempo e in
ogni luogo finché mondo sarà. Forse che un Dostojevski, ben al di là del panslavismo
che notoriamente lo ispirava, non ci trascina in ogni caso verso considerazioni
filosofiche e antropologiche assai più profonde, estese e di valore atemporale?
Sin qui abbiamo insistito sul fattore pericolo -- ora non
preso in sufficiente considerazione, ora assurdamente temuto. Ma questo
processo psicologico di sopra/sottovalutazione del rischio Buzzati lo verifica
anche in altre circostanze, in cui non si tratta più di concrete minacce
esterne impropriamente interiorizzate, malamente vissute, bensì di
atteggiamenti errati in un senso o nell’altro, semplicemente attribuibili ad un
gusto per il falso immaginare. Quello, in qualche modo, sinora era
sempre stato presente, obietterete. Verissimo.
Ma voglio dire che in certi racconti, quel difetto caratteriale viene
eminentemente valutato in sé e per sé.
Si potrebbe allora parlare dei meccanismi autonomi della “phantasia”, o dei piccoli trabocchetti
delle illusioni prepotenti alle quali
tendiamo a voler indulgere. Oppure ancora di un altro elemento
imponderabile, persino più inquietante. In un racconto intitolato “Se vorrei”, apparso su un numero del
Corriere della Sera nel 1952, Buzzati scriveva: “Talora noi obbediamo allo
stesso impulso che induce l’uomo a tentare il pericolo, a toccare un filo
elettrico, a porgersi da una ringhiera aerea, a saggiare un veleno con la punta
della lingua. Il demone della perdizione cosiddetto, forse.” E chi può dire di non
essere stato vittima occasionale in vita sua proprio di questo tremendo,
dannato demone capace di spingerci a voler fare o dire impulsivamente cose
talvolta spesso irreversibili e assolutamente imperdonabili? Delle quali
risulta poi insperabile potersi credibilmente rammaricare, sinceramente
pentire, scusare in lacrime, in ginocchio e a mani giunte.
Riconducibile al tema del falso immaginare e delle sue
conseguenze, nel contesto della “Boutique” emerge senz’altro uno dei più famosi
racconti del nostro, “Sette piani”,
dove l’autore si sofferma a tratteggiarci, con mirabile inventiva, quell’ingannevole
e insopprimibile bisogno umano di credersi – ad ogni età, in fondo -- pur sempre lontani dalla fatidica ora della
morte: da una fine che con un certo
distacco riusciamo ad accettare vedendola toccare di volta in volta agli altri,
ma che non può…non ancora, non ancora!...voler essere proprio la nostra. Queste
pagine buzzatiane sono talmente note (ne è stato ricavato persino un ottimo
film) che mi astengo dal riassumerne l’elaborato intreccio psicologico,
magistralmente giocato fra il giallo grottesco e il tragicomico. Vi inviterei
soltanto a volervele riguardare alla luce di certe particolari ‘chiavi di
lettura’ che ho sin qui ritenuto di dovervi offrire. E’ una sorta di ‘operetta
morale’ che risulterà tanto più pregnante, direi, per un lettore che abbia raggiunto
la cosiddetta ‘terza età’ – visto che, lo ammetterete, specie in questi tempi
di affannoso giovanilismo oltranzista, il sessantenne chiama volentieri
“vecchio” chi di anni ne ha ormai settanta, e il settantenne chi ne ha già
settantacinque, e l’ottuagenario? dirà “vecchio decrepito” chi ne ha magari
solo un paio più di lui! Finché, zac, la
falce arriva impietosa: inverosimile fatalità in quanto, purtroppo,
continuamente, caparbiamente, ottusamente rimossa. E qui il messaggio ultimo
può essere maggiormente apprezzato se ci rifacciamo anche al tema fondamentale
di tutta la narrativa buzzatiana: la vita da volersi vivere non già come una
futile attesa costellata di autoinganni, bensì come percorso possibilmente costruttivo durante il quale prepararsi
gradatamente, con saggia maturità, al grande evento finale. E tuttavia, come
negare che questo genere di particolare ‘illusione’ – quella, ricorrente, della
propria corporea immortalità – non possieda un suo fascino irresistibile e
ineluttabile per ogni creatura umana? Vi pare quindi che la ‘denuncia’
dell’autore sia del tutto categorica? convinta?
Quanta abilità rivela l’arte narrativa di Buzzati nel proporci metafore che da
sole si sottraggono ad una decifrazione univoca, ovvero orientata in senso tipicamente
allegorico!
Passiamo ora ad un altro racconto della “Boutique”,
decisamente affascinante e altrettanto significativo sulla tematica essenziale
del falso immaginare: “Il cane che ha
visto Dio.” La storia di un cane
randagio qualunque, di per sé non meritevole di particolari attenzioni, non più
di qualsiasi altro della sua specie, eppure rispettato, riverito e ben nutrito
da tutta la popolazione di un paese a causa di un equivoco generale. Un falso
immaginare contagioso, si direbbe. Quale equivoco? Lo scopriamo alla fine del
racconto, con uno di quegli straordinari colpi di scena alla fantasia di
Buzzati tanto congeniali, e per il lettore sempre accattivanti: erroneamente
l’intero villaggio si è andato convincendo che la bestia raminga e affamata sia
il cane di un vecchio eremita deceduto, un sant’uomo che aveva visto Dio, e il
cui cane di riflesso sarebbe il muto depositario delle stesse facoltà di
mistica veggenza appartenute al suo venerabile padrone defunto. Non solo: quel
cane che si aggira dappertutto con occhio vigile, sembra scrutare tutti nel
profondo dell’anima, per cui diviene oggetto di una sorta di amore-odio
viscerale. Grazie al suo misterioso sguardo onnipresente, ritenuto accusatore, quel comune randagio
costringe tutti, volenti o nolenti, a mutare abitudini di vita: di colpo,
dappertutto si smette di bestemmiare, ci si comporta onestamente, si compiono
delle buone azioni altrimenti impensabili… Ma lo si vorrebbe vedere morto, quel
cagnaccio! Perché, solo per causa sua, la gente non riesce più a fare i propri “porci
comodi” (per usare un’espressione, esplicita, di Buzzati). Ognuno agisce bene, ma si rammarica della
propria ‘debolezza’, vuole nasconderla agli altri; tant’è vero che nessuno
vuole mai farsi scoprire nell’atto di riempire la ciotola del cane per la
strada. Sembra doveroso rispettarla quella misteriosa presenza; ma quel
rispetto, in pubblico, va
opportunamente tenuto nascosto come una mostruosa vergogna.
C’è del positivo,
osserva Buzzati (ed è una battuta-chiave, poiché ricorre non a caso anche in
altri racconti) – una positività nel senso che, da quel falso immaginare
collettivo, in questo caso qualcosa di buono è oggettivamente scaturito. Ma positivo fino a che punto? E’ senza dubbio una conquista di dubbio valore
in quanto non attribuibile ad una libera
scelta morale, bensì ad una sciocca sopravvalutazione. Buzzati suggerisce che
forse le nuove buone abitudini hanno ormai attecchito, e forse a tal punto che non
sarà più possibile tornare indietro. Ma questo ce lo dice prima della
sorpresa finale. E cosa succederà invece dopo la scoperta cruciale
riguardo alla vera identità del cane? Un bastardo qualunque, dopotutto? Quella
gente si ricrederà davvero? O magari tornerà ad essere malvagia come prima? Le
ipotesi vengono lasciate aperte: il lettore mediti e decida.
Intorno alle strane conseguenze del falso immaginare, fa
riflettere anche “Il corridoio del grande albergo”: una situazione ‘teatrale’
esilarante e sconcertante al tempo stesso, in cui, per un assurdo senso di
pudore nei riguardi di un comunissimo atto fisiologico, nessuno degli ospiti
dell’albergo vuol far notare all’altro di aver bisogno di urinare o defecare, e
quindi di doversi per forza avvicinare ad un’unica ‘toilette’ disponibile, situata
al fondo di un lungo corridoio. Ciascuno dei clienti evita di farsi vedere
dall’altro, dando per scontato che l’altro immagini
nello stesso modo che si tratti di un bisogno in qualche modo indecente, o
quantomeno una cosa che va tenuta nascosta.
Un’allegoria? Una metafora da dover interpretare? Decodificare? Ve lo chiederebbe,
maliziosamente, forse lo stesso Buzzati.
Il quale, nel racconto che ho volutamente lasciato per ultimo in questa
pur limitata rassegna, scopre finalmente le carte a questo riguardo, e ci invita
apertamente a non voler immaginare quello
che non c’è, poiché è proprio e soltanto il falso immaginare come tale che
rappresenta il difetto ultimo, il grave difetto fondamentale sul quale alla fin
fine si posa la sua lucida lente di ingrandimento. Si tratta di un racconto molto conciso, ma pienamente rivelatore: “La
goccia”.
Dal nulla si materializza intorno alla protagonista uno
stupido ticchettio, costante e inspiegabile; il rumore persistente di una
semplice goccia che cade: una bazzecola in sé e per sé, che però, ingigantita e
stravolta da una mente alterata, ossessiona fino allo spasimo, toglie
progressivamente la serenità ed è capace di incidere catastroficamente sulla
qualità dell’esistenza. Quella nostra
breve esistenza terrena che, così facendo, abbandonandoci ad impulsi
irrazionali in una direzione o nell’altra (secondo tutto quanto abbiamo sin qui
rilevato dai vari racconti) noi uomini trascorriamo “con buffi salti veloci” – precise parole di Buzzati -- come tanti “conigli
sotto la luna”, per citare in chiusura il titolo di un altro bel racconto
di questa serie: emblematico già nel titolo, se si pensa che il coniglio
tradizionalmente simboleggia la pusillanimità e la luna il regno delle visioni
inconsistenti. Scrive malinconicamente il nostro: “Come i conigli noi stiamo
sul prato, immobili, con la stessa inquietudine che ci avvelena. Dove è tesa la tagliola? Aspettiamo,
aspettiamo. E intanto la luna ha
compiuto un lungo arco nel cielo. Nella notte, in mezzo alla campagna non siamo
più che ombre, fantasmi scuri con dentro l’invisibile carico di affanni. Dove è
tesa la tagliola? Al lume favoloso della
luna cantano i grilli.”
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