LA FISIONOMIA DI EROS SECONDO WILLIAM
SHAKESPEARE
di Roberto Vittorio Di Pietro
(Testo
integrale della conferenza tenuta per il Centro Studi P.A.N.I.S. di Torino in
data 21 aprile 2004 )
che potete trovare al sito ALLA BOTTEGA
http://www.allabottega.it/index.php/2017/12/14/la-fisionomia-di-eros-secondo-william-shakespeare-di-roberto-vittorio-di-pietro/
che potete trovare al sito ALLA BOTTEGA
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PRIMA PARTE
Nell’ambito del ciclo di
conferenze organizzato per l’anno in corso dal Centro Studi P,A,N.I.S., Torino,
intitolato “Albe d’amore” (in altre parole, “amore allo stato nascente”), il
taglio particolare che mi sono scelto per questo excursus sulla
concezione dell’amore secondo Shakespeare, potrebbe, lì per lì, colpirvi quasi
come una divagazione fuori tema. Ma siccome dal mio ponderato punto di vista
non è dopotutto così, vorrei darvene subito una giustificazione preliminare,
augurandomi che questa assuma sempre maggiore consistenza alla luce di quanto
andremo via via verificando.
Carla Stroppa, una psicanalista
di scuola junghiana, in un suo libro intitolato “L’Anima -- acrobata nel
vuoto”, nel definire Eros la sola forza spirituale che ci permetta di
sentire gli altri come integrazione indispensabile di noi stessi, indica il
dispiegamento di quella forza come un processo
dinamico di graduale trasformazione della coscienza.
Durante questo processo, le cui fasi successive sono intimamente concatenate e
fra loro inscindibili, lo sguardo dell’uomo riesce insomma a posarsi sempre più
consapevolmente, quantunque non senza intimo travaglio, sugli altri e su se
stesso. Qualora Eros – nel senso più elevato e nobile del termine, beninteso –
si sia davvero dimostrato la prima grande ferita di una coscienza
sensibile, al termine di quel percorso evolutivo potrebbe anche configurarsi
come l’ultima doglia e il primo sintomo di una sopravvenuta guarigione. Come la
luce del sole sulla terra procede senza posa dall’oscurità della notte e a
questa spontaneamente si ricongiunge, anche il ciclo di Eros nell’anima umana
sarebbe in qualche modo analogo. Jung, per sottolineare l’accostamento, si richiama
inoltre ad una ripartizione cara agli alchimisti, notando come il percorso
luminoso – quello che per loro doveva condurre alla realizzazione della pietra
filosofale -- presupponesse in ogni caso
come fase iniziale la Nigredo (la putrefactio nel buio della
notte), cui seguivano a ruota l’Albedo (il primo raggio incerto dell’aurora),
la Citrinnitas (il pieno fulgore del mezzogiorno) e la Rubedo (il rosso
sanguigno del tramonto). Ma se una simile evoluzione interiore governata da
Eros ha inizio mediante una ferita di per sé paragonabile alla natura di
Nigredo piuttosto che a quella di Albedo, ciò avviene – lo suggerisce ancora
junghianamente la succitata saggista, dopo aver definito questa forza nei
termini già detti – perché quella ferita il grande Amore dai connotati nobili e
sublimi la infligge selettivamente, esclusivamente all’anima malinconica: ossia
soltanto a quell’anima che per sua costituzione sia destinata ad albergare in
sé i germi di Nigredo, mossa com’è da un desiderio di bellezza infinita e duratura,
commisto con un profondo ed angosciante sentimento della transitorietà delle
cose terrene. In altre parole, l’alba d’amore (albedo) diverrebbe
filosoficamente concepibile solo come conseguenza di una notte (nigredo) che,
nelle anime superiori, deve necessariamente precederla; e, a sua volta, assume
un significato solo in quanto è presupposto di ulteriori indispensabili sviluppi
nel tempo, i quali potranno convalidarne la bontà oppure denunciarne
l’illusorietà e determinarne il fallimento. Che l’anima di Shakespeare sia
stata una delle grandi anime in questo senso superiori perché sostanzialmente
malinconiche, assetate quindi di Eros/Amore e di quella bellezza spirituale impervia
al tempo che esso idealmente lascia intravedere, spero possiate rilevarlo
dalle cose che diremo.
Amore, sì. Ma di che cosa intendiamo esattamente parlare? Mentre il termine greco “eros” si è svilito a
tal punto, rispetto alla sua ampia accezione classico-mitologica originaria, da
non poter più trasmettere quasi altro, nel linguaggio corrente, se non un’idea
fondamentale di carnalità, è anche vero che la parola “amore”, forse in ogni
lingua del mondo, figura ormai fra le più ambigue dell’intero vocabolario.
Almeno in Occidente, il verbo “amare” si è andato caricando di connotazioni
semantiche tanto differenziate da richiedere spesso precisazioni supplementari
sotto forma di perifrasi atte a chiarirne meglio di volta in volta il
significato; fino a voler arrivare, a scanso di rischiosi equivoci, a
specificazioni anche in chiave paradossalmente negativa, del tipo: mi piaci, mi
sei simpatico/a, ti voglio bene… ma non ti amo. Dico paradossalmente in
quanto con questo genere di precisazione, ritenuta perlopiù necessaria, si
snatura il concetto primigenio del sentimento d’amore rappresentato da una
grande triade le cui componenti, pur conservando le loro forme individuali
caratterizzanti, risultano del resto idealmente unificabili in rapporto ad
altre note triadi di matrice tradizionale-iniziatica: soma/sarx, psychè,
pneuma; corpus, anima, spiritus; materia, calore, luce. E arriviamo al dunque. Come da sempre e
tuttora fanno coloro che si esprimono in lingua inglese – una lingua
solitamente definita povera in quanto piuttosto sintetica sotto vari aspetti,
ma sotto questo aspetto particolare forse meno impropriamente analitica e più
umanamente autentica -- il nostro Shakespeare ricorre ad un’unica
parola “love” per denotare un sentimento di per sé composito come
l’amore, che, secondo quanto detto, si esplica perlomeno su tre livelli di
massima:, anche se la psicologia e la psicoanalisi moderna ci hanno giustamente
rivelato quante e quali siano le sottili interferenze che talvolta si
verificano fra un livello e l’altro:
1) l’amore come libido
in atto, o semplice concupiscenza della carne; 2) l’amore come philia, o legame affettivo dell’anima
(amicizia, amore filiale, fraterno e simili); 3) l’amore come agape, o affettività verso il prossimo
nel senso più lato del termine, da intendersi quindi come balzo della
spiritualità nella misura in cui un singolo individuo si dimostra capace di
protendersi per puro altruismo verso superiori ideali di fratellanza e di
solidarietà umana.
Si può quindi intuire quali dilemmi incontrino i
traduttori dall’inglese verso altre lingue per così dire più analitiche: da un
lato c’è chi, imbattendosi nella parola “love” si sente in dovere di
interpretarne il senso a propria discrezione, decidendo di circoscriverlo
meglio di volta in volta secondo gli usi della lingua di arrivo, ma sottraendo
così pur sempre arbitrariamente qualcosa all’indeterminatezza del vocabolo
originario; dall’altro, c’è chi opta pari pari per il sostantivo amore e per il
verbo amare nella lingua di arrivo, bene facendo se questi termini avessero
potuto conservare anche in altre lingue tutto l’insieme delle sfumature che in
fondo hanno ragione di rivendicare; ma in questo caso il rischio consiste,
invece, in un’indebita sottolineatura, talvolta ingiusta verso le reali
intenzioni dell’autore, di quelle valenze di tipo concupiscente-sessuale che in
altre lingue perlopiù tendono ad essere implicitamente ricondotte al sostantivo
amore e al verbo amare. (1)
Specie nel caso di Shakespeare, un’interpretazione
corretta del termine love è assolutamente doverosa. Vi farò ascoltare in
seguito, inquadrandolo in un’altra argomentazione che affronterò, un celeberrimo sonetto – il ventesimo -- in
cui questo genere di problema risulta determinante poiché dalla sua soluzione,
non sempre facile in altre lingue, può dipendere anche un giudizio di ordine
morale nei riguardi dell’autore. Ma è
importante soprattutto perché l’intera opera del bardo inglese può dirsi a buon
diritto incentrata sul concetto stesso di amore, forza di armonia
coesiva per eccellenza secondo la tradizione filosofica non solo occidentale, operante
però in un costante rapporto dialettico con il suo rovescio che potremmo
definire anti-amore, forza centrifuga che separa generando discordia,
conflitto, disgregazione, catastrofe. E’ del resto evidente che eros e
anti-eros (nel sento lato e quantomeno triplice di love) hanno in ogni
caso un comune denominatore in quanto
per il loro rispettivo esercizio – ora nella funzione di unire, ora in
quella di disgiungere – presuppongono in ogni caso l’esistenza di che cosa?...
Di una presa di contatto autentica e consapevole fra gli individui, fra
il sé e l’altro da sé -- dove, per giunta, va detto sin d’ora, l’altro da sé
non lo si incontra soltanto nella relazione interpersonale, ma come termine di
confronto anche all’interno della coscienza del singolo in conseguenza del
contatto avvenuto con le coscienze altrui.
Mi spiego meglio chiedendovi: che
cosa caratterizza necessariamente una qualunque opera di teatro? Sempre e soltanto un concorso di voci
interdipendenti, rappresentative dei rapporti umani reciproci che il
drammaturgo si prefigge di stabilire attraverso l’azione scenica per i suoi
scopi artistici. Questo sostanziale
rapporto di scambio polifonico fra “personalità” diverse (characters si
dicono in inglese i personaggi di un dramma), ora in consonanza, ora in
conflitto, è un elemento drammaturgico imprescindibile. Così sulla scena, così
nel dramma quotidiano del vivere. E Shakespeare? Nel suo teatro affronta, più
sistematicamente e più compiutamente di ogni altro, sta qui il suo genio,
pressoché l’intera gamma delle passioni umane riconducibili all’attrazione
fra gli individui da un lato, e alla loro ripulsa (antiamore)
dall’altro. Shakespeare pone al centro assoluto della propria indagine
artistica proprio eros/love, nella sua più ampia accezione, e i molteplici
sintomi del suo snaturamento. Insomma, Eros condiziona tutti i rapporti
interpersonali in quanto vuoi per rinsaldarli, vuoi per distruggerli, anzitutto
li crea. Per vie contrapposte,
uno stesso impulso viene comunque chiamato in causa come punto nodale di
riferimento. In effetti, sviscerando come fa i presupposti reconditi sia di
quei sentimenti che avvicinano armonicamente gli uomini fra loro, sia, forse
più spesso, di quelli negativi che, infrangendo sotto diversi aspetti le leggi
d’amore, li allontanano spiritualmente gli uni dagli altri e contemporaneamente
anche dalla propria migliore indole umana, si può giustamente sostenere che
l’essenza del teatro shakespeariano illumini le due facce inscindibili per
quanto contrapposte di questa unica medaglia. Ma così anche i suoi 154
sonetti (composti per la parte più significativa già intorno agli anni 1595-98,
ossia agli inizi della carriera drammaturgica del nostro) i quali prefigurano,
in chiave lirico-confessionale, quasi tutti i maggiori contrasti psicologici
connessi alla sfera affettivo-amorosa che verranno successivamente vagliati,
affinati e approfonditi dal nostro nell’opera teatrale. I sonetti sono forse lo specchio più fedele e
attendibile dell’anima di Shakespeare – a tal punto che, con caratteristico
acume provocatorio, Oscar Wilde osava avanzare l’ipotesi che la famosa dedica
enigmatica a W.H. dovesse correttamente interpretarsi come a William Himself,
ossia a William Medesimo, insomma interamente a se stesso, alle specificità della
propria intima sostanza caratteriale. E’ anche vero che, specie in terra
d’Albione, sostenendo tesi più o meno ‘scientifiche’ e però talvolta anche
diametralmente opposte fra loro, legioni di critici di prestigio o commentatori
di minor rango (a partire dall’immaginifico ‘biografo’ Frank Harris, l’amico di
Bernard Shaw, su su fino al Middleton Murry, e al dotto Sidney Lee, e al
ferratissimo filologo moderno Chambers…), si sono variamente impegnati a
sviscerare in lungo e in largo le pagine dei Sonetti senza tuttavia fornirci
nessuna esegesi che possa dirsi definitiva, del tutto convincente circa gli
spunti ‘autobiografici’ effettivamente
presenti in quell’opera. Ma tant’è. Resta un dato di fatto che nei Sonetti si affacciano
tematiche che nel teatro shakespeariano ovunque riaffiorano, ampiamente
sviluppate e approfondite in varie direzioni. Il teatro si farà indubbiamente
anche strumento di autoanalisi per il nostro; e tuttavia in questa sua
operazione introspettiva, laddove scandaglia i sottili dilemmi della coscienza
e gli errori di giudizio in cui eros e antieros tendono talvolta
a sfumare l’uno nell’altro, a mescolarsi fino a sovrapporsi e a confondersi
reciprocamente, Shakespeare ci offre una straordinaria prova di conoscenza
dei misteri della psiche umana in quanto tale: una miracolosa conoscenza che
gli permette non solo di universalizzare l’elemento soggettivo, ma anche di
evitare che i suoi personaggi fittizi (salvo alcune eccezioni nelle opere meno
riuscite, anche Omero talvolta sonnecchia) si traducano in rigide allegorie con
finalità didascalico-moraleggianti (secondo il famoso modello medievale dell’Everyman
o delle Morality Plays) in cui talvolta cadono, invece, i drammaturghi
inglesi della sua epoca -- e persino il raffinatissimo letterato Ben Jonson, se
pensiamo al sostanziale schematismo psicologico del suo “Volpone”, ad esempio.
Delimitando impropriamente quindi una materia labile che
in Shakespeare spesso circoscrivibile non è,
tenterò, attraverso riferimenti diretti all’opera, di precisare come si
profilano nella concezione del nostro le tre forme essenziali di amore insite
nella parola love: -- lo ripeto: eros come concupiscenza
corporeo-sensoriale (soma-libido);
eros come attrazione di ordine prettamente psichico, o amicizia dell’anima (psyché-philia);
eros come superiore urgenza spirituale di armonia assoluta con i propri simili
e con il creato (pneuma-agape). Quest’ultimo aspetto si fa più palese
negli ultimi drammi di S., e spicca segnatamente nella Tempesta, dove il
messaggio implicherebbe, secondo diversi critici, alcuni richiami
esoterico-iniziatici. Con quale esito, lo vedremo in conclusione stasera. Ritengo più utile iniziare dal meno
complesso, passando in veloce rassegna le principali passioni negative, quelle
che si configurano come contraltare dell’amore ideale: subdole passioni che
denunciano l’incapacità di instaurare rapporti armoniosi con l’altro da sé, o
addirittura una nefanda volontà di insidiare, alterare, sconvolgere e
annientare quei rapporti. Sono le passioni più incisivamente presenti nei
drammi del nostro, soprattutto in quelle tragedie che i non specialisti forse
ricordano meglio: svariate passioni memorabili la cui importanza consiste
oltretutto nel confermare, per assurdo, l’immenso valore positivo dell’amore maiuscolo
e paradigmatico proprio nel momento in cui ne sfidano le leggi. E quali sono? Sono tutte quelle che in
qualche misura inaridiscono “il latte dell’umana benevolenza”: dai drammi
storici più celebri (Giulio Cesare, Re Giovanni, con al vertice sicuramente il
Riccardo III…) fino al terribile Macbeth, da cui ho tratto questa emblematica
citazione, sono l’ambizione smodata, la sete sfrenata di potere e la tirannide
che si alimentano di crudeltà mentale,
di codardia, di cieco egoismo, di brutale cinismo, di sopraffazione delittuosa;
e ancora l’ingratitudine, nefasta presenza anche nei drammi suddetti e in tanti
altri, ma somma protagonista in Re Lear; o l’invidia cupa, macchinosa,
agghiacciante, raffigurata in assoluto dal mefistofelico Iago; ma si noti come
ognuna delle citate colpe contro l’amore abbia in comune con tutte le altre un
identico fattore onnipresente: ossia un fondamentale sottofondo di falsità, di
subdola doppiezza, di nera ipocrisia,
che di fatto ne rende possibile lo sviluppo e l’attuazione pratica a vari
livelli. Così anche la gelosia di Otello
– l’accecante “mostro dagli occhi verdi”, un aspetto di eros che, per eccesso,
per snaturamento, non può che risolversi tragicamente nel suo contrario – abbisogna
pur sempre di un elemento scatenante che è ancora soprattutto l’ipocrisia di Iago.
Ma, a riprova di quanto dicevamo prima sulla
non-allegoricità dei messaggi shakespeariani, persino in quel sanguinario
tiranno che è Riccardo III, il nostro sa infondere un briciolo di commovente
umanità: “Non c’è creatura che mi ami…non avrò nessuno che pianga la mia
morte.” E il Moro omicida riconosce alla fine di essere stato “uno che troppo
amò, non troppo saggiamente.” Ma persino nel paradigmatico slancio d’amore
totale fra Giulietta e Romeo ci sono elementi di squilibrio – avventatezza,
irruenza, irrazionalità, debolezze caratteriali tipicamente giovanili…-- che
Shakespeare, pur esaltandone il fresco fascino indiscutibile, non esita a
sottolineare qua e là, per contrappeso, come abbagli nocivi da dover gradatamente
superare affinché una passione autentica, decantandosi e stabilizzandosi, possa
non certo sbiadire o sfumare col tempo, bensì evolversi per rifulgere
pienamente nella sua migliore maturità. (L’albedo, per non vanificarsi e
dimostrarsi futile infatuazione, deve insomma potersi trasformare in citrinnitas.)
L’arte del nostro trova spesso il modo di verificare il pro e il contro anche
nelle passioni apparentemente solo positive.
Se è vero che l’apertura esistenziale all’Amore avviene attraverso la
progressiva presa di coscienza di determinati errori commessi, certa critica ha
suggerito che persino le più scanzonate commedie degli equivoci abbiano
dopotutto per il nostro, al di là delle mode letterarie, un’indiretta funzione
per così dire iniziatica.
Ma che peso ebbe Eros nell’esperienza personale di Shakespeare?
Come si configurò la sua alba d’amore? Quali sviluppi ebbe di
fatto quella ‘prima ferita’ e in che misura il nostro attinse all’elemento
autobiografico per trasfigurarlo attraverso l’arte?
Nel nono dei diciotto episodi di cui si compone l’Ulisse
di Joyce, si ricorderà che Stephen Dedalus, facendosi implicito portavoce
dell’autore, tiene una conferenza su Shakespeare. alla biblioteca nazionale di
Dublino. Qui si sostiene che Ann
Hathaway, “dolce…sfacciata fraschetta di Stratford”, dopo aver sedotto in un
campo di segale il diciottenne William, di lei molto più giovane, e averlo
costretto a sposarla, avrebbe in seguito preso a tradirlo con due dei suoi tre
fratelli, Richard e Edmund, nel corso del lungo soggiorno londinese da cui il
marito tornava a casa solo una volta al mese.”
Joyce aggiunge: “la fede in se stesso gli è stata prematuramente
uccisa.”, intende dire fiducia nel valore della sua virilità. Pur se qualche stimolo della carne lo spinge
ancora verso la donna, verso qualche nuova passione più oscura della prima,
rimane qualche residuo rancore che offusca la sua comprensione di se stesso. “Chi sono io?” è in effetti la domanda
cruciale che Joyce ritiene essere il primo motore dell’indagine psicologica
shakespeariana: una domanda alla quale Shakespeare fornisce, però, una
fondamentale risposta in prima persona nel Sonetto
121 – ci arriveremo. Ma Joyce ha ragione, essendo vero che lo stesso
Shakespeare dichiara testualmente: “il solo modo di conoscere l’umanità è
conoscere se stessi”. Sta di fatto che,
come sostiene Joyce per bocca di Dedalus, le risultanze di quel primo scacco
amoroso si possono leggere come su una filigrana nel teatro del nostro. Per
esempio nel tema del fratello traditore o usurpatore o adultero o tutti e tre
in una volta, così assiduamente ricorrente nei suoi drammi, a partire dal più
celebre di tutti, l’Amleto, in cui il
nostro pare non recitasse mai nella parte del protagonista, ma dello spettro
del padre, tradito dal fratello e dalla sposa, che appare al proprio figlio
Hamlet, così simile nel nome al vero figlio del nostro, Hamnet, la cui morte
prematura a soli nove anni il nostro aveva legato nel suo animo all’adulterio
della moglie. Meno casuale ancora è il fatto che i veri nomi dei fratelli di
Shakespeare risultino tanto frequentemente attribuiti nelle sue opere alle
figure dei fratelli traditori. Così si spiegherebbe ancora il tema altrettanto
fondamentale, del “ruffiano e becco”, di colui cioè che agisce e subisce, il
cui desiderio e la cui gelosia si alimentano del desiderio altrui, da lui
stesso destato, in un circuito perverso in cui il rivale così creato e
l’oggetto desiderato finiscono per essere accomunati in una medesima pulsione
di morte. In tutti i suoi personaggi
Shakespeare mette una parte di sé: egli
è Amleto padre, re assassinato e Amleto figlio principe spodestato, è Otello
pazzo di gelosia, ma è anche Iago “pazzo di corna che senza posa vuol far
soffrire il Moro che egli alberga in se stesso.” A questa lettura in chiave
psicologica la critica, oggi più che mai incline a un formalismo letterario che
rimuove il dato biografico, ha sempre fatto spallucce. Eppure essa conserva un nucleo irriducibile
di verità e non a caso sta alla base di una delle interpretazioni recenti più
stimolanti di Shk, quella dell’antropologo francese René Girard, secondo il
quale la grandezza letteraria del nostro, come quella di Racine, Molière,
Dostoevskji, Proust, Nietzsche e dello stesso Joyce consiste nel descrivere,
sul fronte delle pulsioni amorose, il meccanismo del “desiderio mimetico” che
starebbe alla base di ogni rapporto umano e tenderebbe a renderlo
necessariamente violento. L’uomo, dice Girard, è una struttura desiderante,
ogni sua azione è mossa dal desiderio, ma desidera sempre qualcosa che altri
mostra di desiderare. Il suo, cioè, è sempre un desiderio rivale, ma è anche un
desiderio solo a condizione che abbia un rivale. Esibiamo con orgoglio
l’oggetto dei nostri desideri perché altri possa desiderarlo e, desiderandolo,
perpetuare il nostro stesso desiderio e il piacere del suo possesso. Ma in
questo modo ci trasformiamo in apprendisti stregoni che scatenano il meccanismo
infernale del “desiderio invidioso”, o meglio dell’emulazione invidiosa che in
seguito noi stessi non riusciamo a controllare.
L’invidia – dice Girard, -- brama l’essere superiore che né l’oggetto
desiderato né colui che lo desidera, ma soltanto una congiunzione dei due,
sembra possedere. Coloro che desiderano
lo stesso oggetto sono uniti da un legame così intenso che, fino a quando
sussiste la possibilità di condividerlo sono amici strettissimi; ma appena esso
viene meno, essi si trasformano in acerrimi nemici.” Sarebbe questa la radice psicologica dei
conflitti umani – giocati come si vede sul rapporto attrazione-ripulsa,
amore-antiamore in funzione di un tertium desideratum -- di cui si
occupa la drammaturgia shakespeariana. E qualche riscontro cogente lo si trova.
Ad esempio, già nel poemetto intitolato “Il Ratto di Lucrezia”, uno dei primi
lavori giovanili del nostro, dove Lucrezia viene concupita e stuprata da
Tarquinio, che non l’aveva mai vista, solo dopo che questi ha semplicemente ascoltato
l’elogio entusiastico che della sua bellezza gli fa il marito innamorato (e
qui, per inciso, mi viene da ricordare quanto suggerirà poco diversamente anche
quel fine psicologo che fu il La Rochefoucaud, in una delle sue celebri
“Massime” del 1665, meditando sulla sua convinzione che un desiderio invidioso
sia pur sempre la molla segreta di tutte le azioni umane: “Vi sono persone che
non si sarebbero mai innamorate se per caso non avessero sentito parlare
dell’amore.”) E successivamente, in questo filone psicologico: il padre di
Amleto viene ucciso dal fratello che vuole impossessarsi non di una donna in
quanto tale, ma di una cognata e per giunta in possesso del potere regale cui
egli aspira; la gelosia comincia a far presa su Otello solo dopo che egli si è
convinto del fatto che Desdemona piace a Cassio, trasformato da amico fidato in
rivale dalla trama di insinuazioni di Iago; e infine, ancor più lampante, il
modello ricompare nel “Racconto d’Inverno” (siamo ad uno degli ultimi drammi
del nostro): Leonte spinge deliberatamente la moglie verso il suo migliore
amico, ma gli basta osservare la loro intesa, peraltro innocente e amichevole,
per dare sfogo alla propria gelosia persecutoria nei confronti della moglie… In
tutti questi casi, il desiderio non si alimenta tanto dell’oggetto desiderato,
cioè di un sentimento autentico nei suoi confronti, ma del piacere di prevalere
su un desiderio altrui, cioè della propria “rivalità mimetica”. Secondo Girard, questo fatto in sé
comporterebbe una volontà di predominio tale da rendere potenzialmente
conflittuali tutti i rapporti umani. Una
conflittualità che si manifesterebbe prima di tutto come violenza sacrificale.
Il meccanismo della “rivalità mimetica” e del “desiderio invidioso”,
trascinerebbe progressivamente l’individuo fuori di sé e questi, per redimersi
dal male che origina da se stesso, avrebbe bisogno di una vittima sacrificale.
Anziché combattere il male dentro di sé, egli si illuderebbe di eliminarlo
uccidendone la causa immaginaria, vale a dire un innocente. Il sacrificio dell’innocenza diventa così la condizione
per la redenzione del male e, secondo Girard, sarebbe lo stesso meccanismo
della violenza sacrificale che sta alla base delle religioni e del sacro. Il sacro si sarebbe così, per secoli,
affidato al colpevole equivoco di presentare un assassinio come sacrificio.
Queste implicazioni ultime del pensiero girardiano hanno innescato un vasto
dibattito entro la teologia cristiana, come si può immaginare; ma, per quanto
riguarda il rapporto complesso di Shakespeare con Eros hanno il merito di
mostrare la struttura triangolare, semplice e ripetitiva, del meccanismo del
capro espiatorio. Sé, l’oggetto amato e desiderato e il rivale. Un tale meccanismo è ampiamente
rintracciabile nel teatro shakespeariano, ma appare in forma addirittura
esemplare nei Sonetti: devo dare per scontato che conosciate almeno a grandi
linee il contenuto dei Sonetti dove il poeta rivendica la superiorità
spirituale dei propri aneliti affettivi e del proprio genio artistico nei
riguardi del fair friend (amico “biondo”, “bello”, ma anche “leale”
nella triplice accezione dell’aggettivo “fair” -- figura dominante di questo
canzoniere, fin più di quanto non lo sia Tommaso Cavalieri nelle Rime di
Michelangelo) rispetto alle contrapposte profferte di un amore meno nobile o
nobilitante sia da parte di altri anonimi poeti rivali, sia da parte di una
“dark lady”, dama “bruna”, “oscura” tentatrice, dispensatrice di piaceri
essenzialmente carnali). Nei Sonetti, il
drammaturgo inglese esce dai suoi personaggi per mostrarsi nella sua nudità esistenziale,
per essere insomma soltanto se stesso e rivelare fino in fondo la propria
natura e il proprio pensiero di uomo. E qui torniamo al “chi sono io?”
suggerito da Joyce – ovvero, si potrebbe altrimenti dire, “fino a che punto mi conosco e quindi sono realmente me stesso?” C’è a questo
preciso interrogativo una risposta
folgorante nel famoso Sonetto
121. (2) Ascoltiamolo prima di commentarlo:
Meglio esser vile,
che a vile esser tenuto,
allora che
innocenza vien bollata qual colpa
e il giusto piacere
perduto, che tale si ritiene
non per nostro
sentire ma per giudizio d’altri.
E perché mai
dovranno gli occhi altrui corrotti
al mio sensuoso
sangue attribuire eccessi?
O più fallaci spie
vigilar sui miei falli,
che a capriccio
condannano quel che per buono io tengo?
No, io son quel che
sono; e quei che bollano
gli eccessi miei,
fan dei propri la somma;
forse ch’io vado
dritto mentre son essi torti,
su lor turpi
pensieri gli atti miei misurando.
Se non affermino
essi tal comune malanno:
tutti malvagi gli
uomini, e in lor male trionfanti.
Questo componimento ha il merito di sollevare un altro
tema-chiave, del resto già segnalato da Benedetto Croce come fondamentale e
caratteristico del pensiero shakespeariano: quello della realtà come apparenza
e dell’apparenza come realtà. Ciò che appare è anche ciò che è? E come è
possibile, nella selva delle ambivalenze e dei travestimenti, continuare ad
essere pienamente se stessi malgrado la mutevolezza delle apparenze? C’è un che
di pirandelliano ante litteram in
questo ragionare, si dirà. Limitiamoci a parafrasare, elaborando a grandi linee
i vari nuclei concettuali che la sostanziano, la sfaccettata argomentazione che
Shakespeare riesce a condensare in questo pugno di versi fra i più fieramente
polemici ed aspri che ci abbia lasciato, resi se mai fin più amari dal
tentativo di ironia nel distico
finale.
Ciò che gli altri condannano in me come colpa -- proclama
lui -- è il mio vero essere, la mia verità
interiore, che io con sincera introspezione non cerco di nascondermi; ma
proprio questa mia tranquilla libertà di coscienza che io tendo a reputare un
bene per me stesso, altri la additano invece come cosa immorale; e non perché
siano moralmente meno “vili” di me, tutt’altro: solo in quanto pretenderebbero
che io fossi uguale a loro, abituato a fingere i sentimenti in base alle
convenienze, a mostrarli diversi da ciò che sono. E perché mai io, per
allinearmi alle norme comportamentali di costoro, dovrei usare violenza alle mie felici propensioni? Tanto più che
queste potrebbero, anzi, non essere per nulla riprovevoli? Il fatto è che gli
altri misurano le mie azioni col metro dei loro sconci pensieri e dimostrano
così, non tanto le mie mancanze, quanto la loro medesima radicata malignità. E
allora, se proprio non se ne può uscire, trionfi pure sulla terra questa
generale disgrazia! Compiacciamocene pure tutti quanti. Ma, in faccia a tanta
umana ipocrisia nascosta, non sarò io a voler mai desistere dal mettere
apertamente a nudo il cuore di me stesso, l’intima purezza della mia costituzione
spirituale, di cui sono consapevole e ben diversamente soddisfatto. E lo
affermo poiché ogni scelta interiore che abbia il coraggio di essere quella che è, per quanto corrotta
possa esteriormente sembrare, per me è moralmente ineccepibile; mentre tutto
ciò che, pur essendo davvero corrotto, vuole apparire onesto, e finanche
infierire con sentenze infamanti contro quei migliori impulsi dell’anima che
vogliono ed osano essere serenamente se stessi, ebbene, – con buona pace della
brava umanità, che questa mia sana etica di fondo vorrebbe persino denigrarla…
–a mio giudizio è, e sempre rimarrà, cosa umanamente
indegna, vile e ripugnante.
Oltre alla condanna più esplicita dell’ipocrisia (e
ricordiamoci quante di quelle passioni che avevamo definito negative nella
drammaturgia ruotano intorno a questo grave malanno che è la doppiezza: il
perno dell’antiamore, secondo il nostro…), questo sonetto serve ad illustrarci,
senza equivoci possibili, quella forma
di amore spirituale che necessariamente deve precedere ogni altra: l’amore per
se stessi, che è tutt’uno con la comprensione autentica della propria essenza
connaturale e l’accettazione, genuinamente etica, di ogni sua parte con la
quale ogni uomo dovrebbe forse imparare a convivere correttamente, se davvero
intende poter giustamente amare anche il prossimo di conseguenza.
“Io sono quel che sono” afferma Shakespeare, e la
tautologia potrebbe sembrare casuale se non fosse che essa ricorre con una
certa frequenza in tutta l’opera del nostro.
Riccardo III, per esempio, nell’ Enrico IV, esclama “io sono solo me stesso.” E Florizel, nel Racconto d’Inverno, una delle
ultime opere, lo si è detto, ripete “Quel che ero sono”. Ossia sono
rimasto fedele nel tempo alla mia identità spirituale. Ma in questo topos shakespeariano
possiamo riconoscere anche il riecheggiamento della risposta che, nel libro
dell’Esodo, Dio, sotto forma di roveto ardente, dà a Mosé che gli chiede di
rivelargli il suo nome: “Io sono quel
che sono” – che suona Jahvé in ebraico, da allora il nome stesso di Dio. Esiste una prova che Shakespeare intendesse
richiamarsi a quel passo biblico? Secondo Genette e altri, la si può forse
trovare nelle prime battute dell’Otello, quando Iago parlando con Roderigo,
dice di sé “Io non sono quel che sono”, che non è, come si potrebbe pensare,
l’affermazione della radicale demonicità del proprio essere, ma la negazione
stessa di essere qualcosa, la dichiarazione del proprio assoluto nichilismo.
Così suggerisce il critico Franco Monteforte, in particolare. L’affermazione
dei Sonetti suona infatti “I am that I am”, mentre quella di Iago “I am
not what I am”. E, come dal canto suo ha correttamente osservato il
critico Cesare Vico Lodovici: “Se si intende what nel suo vero senso, ne
risulta una negazione di qualità che non oserebbe formulare nemmeno il demonio,
il quale, per disperata che sia la sua condizione, è ancora un che, un what,
un qualcosa, mentre Iago nega di essere la cosa in sé, quindi si colloca
lucidamente nell’assurdo umano”. Iago,
cioè, non è esecrabile perché appare o si mostra diverso da quel che è, ma
perché nega la possibilità stessa dell’essere, è il nulla assoluto. Il problema dell’essere e dell’apparire si
presenta dunque in Shakespeare innanzitutto come contrapposizione di essere e
non essere, che è poi il tema stesso del monologo di Amleto. Per un traslato concettuale più che
accettabile, certa critica anglosassone ha del resto suggerito che, visto
l’assunto filosofico complessivo del dramma, il monologo in cui Amleto si pone
il dilemma del togliersi o meno la vita, corrisponderebbe al chiedersi se
rinunciare all’essere in ossequio all’apparire non sia dopotutto un suicidio
in vita, una morte spirituale, con tutte le conseguenze morali che questa
scelta comporta. Una famosa citazione
dal Giulio Cesare recita in effetti: “I vili muoiono ripetutamente prima di
morire, i coraggiosi non assaggiano la morte che una volta sola.” E il Sonetto
66 propone quasi letteralmente le perplessità che esprime Amleto
interrogandosi su quali arcani meccanismi ci fanno sopportare le ingiustizie
della vita, tutto il non-amore in atto – diremmo -- dal quale è inquinato il
mondo delle relazioni umane. Ascoltiamo questo sonetto dai toni cupi e
percepibilmente sinceri, carico di sentito pessimismo:
Stanco di tutto
questo, imploro da morte riposo:
come, vedere il
Merito nato a mendicare,
e squallida Nullità
gaiamente agghindata,
e la Fede più pura
miseramente tradita,
e i più splendidi
Onori ignobilmente attribuiti,
e la casta Virtù
brutalmente prostituita,
e nobil Perfezione
iniquamente avversata,
e Forza mutilata
dal potere corrotto,
e il Genio
imbavagliato dall’Autorità,
e Follia, con arie
dottorali, opprimere Saggezza.
E leale Franchezza
chiamata Semplicità,
e il Bene schiavo
servire Capitàno Male.
Stanco di tutto
questo, vorrei da questo esser lontano
se non, morendo,
abbandonassi l’amor mio.
Questo ci confessa Shakespeare in definitiva: quanto
vorrei finalmente cedere le armi, poter smettere di opporre resistenza a un
mondo così infame; ma, se così soccombessi, abbandonerei il mio amore.
E’ chiaro che, tenendo conto del concetto traslato di suicidio in vita, anche
l’ultimo verso si presta a un’interpretazione polisemica che lo riscatta da un
senso letterale altrimenti romanticamente svenevole e piuttosto banale. Prima lettura alternativa: dichiarandomi
sconfitto, lascerei prive della mia
forza morale al loro fianco, indifese vittime del mondo, le persone che
amo. Seconda lettura, fin più pregnante,
ma legata a quella precedente: se mi dichiarassi sconfitto tradirei l’amore
per me stesso, rinuncerei a voler essere me stesso fino in fondo in nome di
quella forza d’amore che deve invece voler combattere, restare in campo per
contrastare attivamente le negatività che affliggono l’esistenza umana.
E’ un’argomentazione, questa, che, affrontata liricamente
in prima persona, trascende la contingenza dell’intreccio teatrale per
investire l’aspetto fondamentale del dramma dell’esistenza umana, tutto giocato
sul divario tra il mondo esterno e il nostro mondo interiore, e sul conseguente
problema del resistere coraggiosamente o, disperando, rinunciare. In questa
scia concettuale, la stessa lapidaria domanda con cui si apre l’Amleto – “Chi
va là?” -- verrebbe quindi a
configurarsi simbolicamente come la domanda cruciale che ogni essere umano
dovrebbe porre a stesso responsabilmente affacciandosi, con il proprio bagaglio
spirituale, alla scena dell’esistenza: porsela per poter prendere onestamente
coscienza della propria intima natura. Ma questa migliore coscienza non può che
essere acquisita attraverso un confronto aperto con il mondo circostante:
confronto indispensabile poiché comporta il solo atto di verifica dell’altro da
noi in grado di svelarci, per contrapposizione, il sacro valore della nostra
realtà individuale. Senza termini di
paragone non c’è vera consapevolezza di chi realmente siamo e che, alla fin
fine, però, non dobbiamo vigliaccamente rinunciare a voler essere, poiché è
proprio questo genere di capitolazione che costituisce la forma peggiore di
inimicizia verso se stessi, di metaforico suicidio – in altri termini, di grave
tradimento morale del più autentico, assoluto e intransigente amore
(quello per se stessi, appunto) che consiste nel completo rispetto giustamente
dovuto da ogni individuo alla propria verità interiore, senza maschere, senza
autogiustificazioni, senza alibi, senza compromessi. E’ interessante ricordare
come Jung, nel suo saggio dal titolo “Anima e morte” – di per sé curiosamente
vicino al nostro discorso -- raccomandi questo genere di introspezione sotto
forma di soliloquio chiarificatore, associandola alla meditazione nel senso dei
vecchi alchimisti che definivano il partner del colloquio come “aliquem
alium internum” (un altro dentro di noi),
troppo spesso un nemico immaginario che non desidererebbe essere tale,
pronto com’è a trasformarsi nel migliore
degli amici a patto che lo si affronti senza volontà di doppiezza, con tranquilla
sincerità..
Ma, sotto il profilo speculativo, la questione è fin più
complessa e si può giustamente affermare che “Amleto” sia l’opera in cui
Shakespeare solleva con maggiore finezza filosofica una problematica
assolutamente centrale nella sua personale visione del mondo. Vediamo meglio,
avvalendoci anche, come già altrove, di alcune indicazioni critiche altrui.
Amleto, rispondendo nel primo atto a sua madre che lo sprona a rassegnarsi alla
morte del padre e gli chiede perché una disgrazia come la morte, comune a
tutti, gli sembri soltanto sua, risponde: “Sembra, signora? No, è.
Io non so cosa sia sembra.” Da
cui si potrebbe dedurre che per Shakespeare la contrapposizione fra essere e
non essere coincide con quella fra realtà e apparenza. Se non che subito dopo, Amleto aggiunge: “Non
è soltanto il mio mantello color d’inchiostro, madre cara…né lo sfacelo del mio
volto, né tutte le altre forme e modi e mostre del dolore a definirmi quale
sono: tutto questo, sì, sembra, sono
infatti parti che ognuno di noi sa recitare.
Ma io ho in me stesso qualche cosa che supera, al di là di ogni
ostentazione, tutte queste mascherate.”
Essere e non essere, insomma, si nascondono entrambi sotto l’apparenza,
ma c’è una maschera buona, che asseconda la verità (la finta follia di Amleto,
tutto il suo dissimulare per meglio smascherare gli inganni altrui) e una
maschera malvagia, al servizio della menzogna.
Queste due forme dell’apparire sono esplicitamente teorizzate da Iago,
il quale nel brano appena citato, ossia poco prima dell’affermazione del
proprio “non essere”, divide nettamente l’umanità in due categorie, “l’onesto
canagliume che meriterebbe solo frustate, di coloro che servono il loro padrone
per il solo compenso di una brancatella di foraggio e che da vecchi sono messi
sul lastrico”, e “l’altra genia: quella di coloro che assumendo la maschere e
la mimica dell’ossequio, si danno di gran cuore a curare i loro interessi e
sfoggiando una gran dose di smaccato zelo verso i loro padroni, a spese di loro
ingrassano; e una volta arrivati a metter su pelliccia, non rendono il saluto
che a se stessi. Questa sì che è gente
di carattere; e di questi sono io.” E ci sarebbe persino una forma ancora più
subdola del non essere, quella del finto fatalismo: del “che ci vuoi fare,
lascia perdere, così è la vita”, del presentarsi come “dover essere
inevitabilmente così” nell’ordine degli accadimenti: sta, ad esempio,
nell’atteggiamento che assumono lo zio di Amleto e sua madre nell’invitare
Amleto alla “rassegnazione”, e quindi per nascondere anche con quel particolare
sofisma l’assassinio perpetrato. Ma, come del resto è implicito nel succitato
Sonetto 66, al di là di occasionali scoramenti, di naturali umane perplessità
circa l’utilità effettiva delle proprie azioni, nel pensiero ’amletico’ di
Shakespeare non c’è dopotutto spazio per quel peccato di omissione che è
l’irresponsabile indifferenza: la ricorrenza stessa di determinati dubbi
esistenziali testimonia, dopotutto, il contrario di una buia apatia dello
spirito. “Amleto” è un pozzo senza fondo
(a dimostrarlo basterebbe quell’affascinante studio monografico di John Dover
Wilson, intitolato “What happens in
Hamlet”, che analizza in lungo e in largo questo dramma come si trattasse
di un grande romanzo giallo…), e non potrei continuare in questa direzione
senza darvi l’impressione – erronea, ma non importa – di allontanarmi dal tema
dell’amore/antiamore, al quale in realtà ogni tematica del nostro, per cerchi
concentrici, riconduce. Consentitemi solo di ribadirlo con queste altre parole:
come ha autorevolmente chiarito Martin Noth nella sua esegesi del libro
dell’Esodo, in ebraico il verbo hjh non esprime il puro essere o il puro
esistere, ma un essere operante nella
storia, come è appunto inteso Jahvè: Dio che agisce concretamente nella storia di Israele. E’ questo succo storico-esistenziale che
Shakespeare distilla dal testo biblico, per cui il suo “sono quel che sono” è
non solo l’affermazione che l’essere di ognuno di noi coincide con la propria
esistenza, ma anche il riconoscimento che in essa c’è qualcosa di immanente al
nostro stesso essere che ci si impone come imperativo morale e che non
possiamo mutare a piacere senza precipitare noi stessi nel nulla, nella morte
in vita. Essere se stessi vuol dire per
Shakespeare vivere fino in fondo la propria natura senza mai tradire i propri sentimenti. Non sono questi a rovinarci, -- lo si trova sottolineato ovunque -- , perché
in essi consiste propriamente tutta la nostra umanità; ma è il non rispettarli,
il tradirli, il travisarli, il camuffarli contaminandone la genuinità in vista
di qualche tornaconto occulto. Il non essere corrisponde quindi per lui
all’idea che tutto sia manipolabile a piacimento della nostra volontà, che noi
possiamo decidere di volta in volta ciò che siamo e non, invece, cercare di
scoprire chi siamo vivendo i sentimenti con la sincerità del cuore
in cui li sentiamo pulsare.
C’è dunque al fondo del teatro shakespeariano un’esigenza
di sincerità così pervasiva che, al fine di mantenersi saldamente fedele a se
stessa, può spingere l’essere a voler persino assumere le false sembianze
dell’apparire a scopo strumentale: a volerne provvisoriamente indossare la
maschera per poi strappargliela senza vie di scampo; e tutto ciò affinché possa
essere da ultimo rivendicato il valore dei sentimenti autentici, ovvero
assicurato il trionfo di una pascaliana raison du coeur in ogni caso
considerata qualitativamente superiore in quanto meno esposta della raison
cartesiana alle lusinghe di una volontà corrotta. Dovunque venga meno
l’ancoraggio alla verità e alla bontà degli istinti naturali, quel sentimento
per eccellenza che è l’amore (e tutto quanto di positivo ad esso fa capo, come
la rettitudine, la fedeltà, la gratitudine, ecc.) perde ogni connotazione umana
e, vanificandosi, diventa strumento per altri fini, o mera funzione fisiologica
orientabile a piacimento dalla bruta volontà. L’umanità di un’anima così
annichilita, diviene un balocco della ragione strumentale. E’ ancora Iago, straordinaria
personificazione del nulla, a dichiararlo nel modo più esplicito: “Virtù, un
cavolo! Sta solo in noi essere così o cos’altro” Per lui la ragione non serve ad altro che a
dominare i nostri istinti per sottometterli al calcolo di migliori interessi, e in questa sua concezione non possono
esistere sentimenti: “L’amore,” dice
Iago “non è che una prurigine di sangue e una concessione della volontà.” A questa visione di un mondo “fuori squadra”
Amleto-Shakespeare ne oppone un’altra del tutto diversa. Se nella prospettiva
di Iago l’apparire sostituisce l’essere
e il mutamento continuo è l’espressione suprema della propria volontà di non
essere, in Amleto invece l’apparire viene piegato alle esigenze dell’essere, ne
preserva l’integrità. Per Iago, come già
visto, si è sempre ciò che si appare per poter essere il nulla che si è. Poco
diversamente, nell’Amleto, il re e la regina assassini vogliono far apparire
come morte naturale ciò che è frutto della loro volontà malvagia e architettano
perciò una messinscena affinché ciò appaia normale, Amleto ricorre invece alla messinscena
teatrale per smascherare la loro menzogna.
Il re e la regina recitano la loro parte ma si sforzano di non apparire
attori, mirando ad imporre la loro finzione come verità; gli attori che
agiscono per conto di Amleto, ne fanno le veci in questo senso, mirano a far
emergere dall’apparenza scenica la realtà della vita. Ecco il punto: i primi
sono maschere che occultano la realtà, i secondi si mascherano per poter
smascherare una falsa realtà. Per i
primi la recitazione è mistificazione; per i secondi, in quanto veri attori, la
recitazione favorisce la comprensione della vita.
Per parafrasare un commento di Northrop Frye: c’è dunque
una cattiva maschera che opprime (quella di tutti i personaggi shakespeariani
che, dissimulando, assecondano le varie forme di antiamore diremmo) e una
maschera che redime, quella dell’attore – quella dell’arte in genere che
ricorre alla finzione per poter imitare la vita; per poter mettere a fuoco
aspetti della realtà esistenziale che altrimenti forse saremmo incapaci di
comprendere o di confessare onestamente a noi stessi, alla nostra
coscienza. In questo senso, per
Shakespeare, l’attore che indossa la
buona maschera, una maschera che muta necessariamente nel tempo ma al di sotto
della quale l’attore si conserva sempre identico a se stesso, diviene metafora assoluta della condizione dell’uomo
ideale, degno di rispetto, di stima, di amicizia, di amore-philia. Ancora nell’Amleto (come evitare di
ritornarci…) può dirsi rappresentativo il servitore Orazio, al quale Amleto si
rivolge con queste parole illuminanti riguardo a questo importante aspetto del
“love” per Shakespeare: “Da quando
l’anima mia apprese a distinguere uomo da uomo, scelse te, e ti segnò col suo
sigillo. Te, perché tu sei un uomo che
tutto sopportando nulla subisce e, senza mutare d’animo, sa accogliere
parimenti le avversità e i favori del destino.”
Per Shakespeare il modello ideale della psiche umana – il solo che egli
stimi, il solo dal quale si senta affettivamente attratto e con il quale
desideri di poter instaurare un rapporto d’amore genuino (se finalmente abbiamo
afferrato il significato complesso ed esteso della parola “love”) -- è rappresentato da una creatura capace di rimanere
se stessa attraverso tutti i mutamenti possibili e inevitabili nella vita,
capace di scorrere nel gran fiume del divenire mantenendosi fedele alla propria
connaturale identità. Specie i Sonetti ci dimostrano inoltre quanto peso
Shakespeare attribuisca agli effetti del tempo sull’uomo, alle continue
metamorfosi che esso comporta; e ne emerge un concetto molto particolare:
quello della fortunata necessità di tali trasformazioni perché, di volta
in volta, esse stesse servono a mettere alla prova la stabilità e quindi la verità
del sentimento d’amore lungo il cammino della vita – ossia a dimostrare,
dopotutto, che “albedo” non era una momentanea infatuazione, un semplice
abbaglio senza migliori sviluppi.
Leggiamo quanto accoratamente afferma il nostro nel celeberrimo Sonetto
116, che qui preferisco sottoporvi
nell’originale e in una mia modesta versione italiana in versi sciolti.:
Let me not to the marriage of true minds
admit impediments: love is not love
which alters when it alteration finds,
nor bends with the remover to remove.
O no, it is an ever-fixèd mark
that looks on tempest and is never shaken;
it is the star to every wand’ring bark,
whose worth’s unknown, although its height be
taken.
Love’s not Time’s fool: though rosy lips and
cheeks
within his bending sickle’s compass come,
love alters not with his brief hours and weeks,
but bears it out e’en to the edge of doom.
If this be error and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved.
* * *
Agli sponsali
d’animi fedeli
divieti io non
concedo: amore vero
amor non è se muta
allor che scopre
nell’altro
mutamenti e, come l’altro,
a separarsi
inclina. Oh no, è costante
faro che i nembi
sfida e mai n’è scosso;
guida a ogni barca
errante, in cielo è l’astro
che si conosce, il
cui valore è ignoto.
Non trastullo è del
Tempo: pur se rosee
labbra e gote ne
assaggiano la falce,
amore non si piega
al breve andare
dell’ore, va fin
oltre il passo estremo.
Sia errore questo,
e venga a me provato,
mai nulla io
scrissi e mai nessuno ha amato.
Il sentimento d’amore ci viene nettamente delineato come
l’opposto della frivolezza, e per ciò stesso anche bisognoso di concrete
garanzie reciproche di costanza e fedeltà. Sebbene in certe opere possa
sembrarci diversamente, Shakespeare diffida non poco del cosiddetto amore a
prima vista. Eros senza dubbio è una scintilla di istantanea simpatia che
scocca fra due creature; eppure quell’attrazione meramente visiva, così
fugacemente esercitata, per il nostro non può prescindere da ulteriori
volenterose verifiche assai più razionali e probanti, costruttive sotto il
profilo dei veri rapporti umani. (In proposito, e a riprova, si è talvolta
fatto notare da varia critica anglosassone, come l’intreccio del “Sogno di una notte di mezza estate”, o
quello della “Dodicesima notte”, si
snodi non a caso intorno alle pericolose trappole tese proprio dall’organo
ingannevole della vista nelle infatuazioni d’amore.) La superficialità e
l’instabilità nei legami affettivi gli ripugnano; e lo ossessionano a tal punto
che, nei suoi drammi, tutti gli amanti avvertono in qualche modo un
irrefrenabile immediato desiderio di rassicurarsi scambievolmente a tale
riguardo. In “Romeo e Giulietta” è
paradigmatica in questo senso la scena del balcone: al di là del suo fascino
lirico, il monologo di Giulietta è un astuto accorgimento del drammaturgo
affinché Romeo, non visto, in ascolto, abbia modo di appurare al di là di ogni
dubbio l’integrità assoluta dei sentimenti dell’amata nei suoi confronti. E’ peraltro significativo che gli amanti più
onesti e sinceri, come idealizzati dal nostro, si sentano sempre portati a
voler sancire, ritualizzare direi, la
serietà del loro legame affettivo scambiandosi subito degli anelli o pegni
simbolici equivalenti; e non di rado provvedendo ad unirsi segretamente in
matrimonio, clandestinamente persino, a dispetto di ogni convenzione ed ogni
ingiusta legge scritta contraria alla legge del cuore. (Come è anche il caso di
Ermia e Lisandro nel “Sogno”). Solo
dopo che risulti stabilita la suprema
verità del trasporto sentimentale,
l’amore fisico diventa concepibile, anzi auspicabile massima prova del
sentimento (v. Rosalina che, concupita da Romeo, si ostina a respingerlo
carnalmente, e sembra per ciò stesso dimostrargli una frigidità dell’anima,
l’assenza di un desiderio di donazione totale
di sé, senza riserve che scindano tristemente l’anima dal corpo.) Si potrebbero
attribuire, in questo senso, a Shakespeare i termini della stessa celebre
definizione che dell’amore fornirà poi Stendhal: “il piacere di vedere,
toccare, percepire con tutti i sensi un oggetto desiderabile, e che però
ugualmente ci desideri.” E quest’ultima precisazione – purché tenga conto delle
concomitanti esigenze sul piano spirituale -- è altrettanto fondamentale per il
nostro: la reciprocità del desiderio di totale fusione
spirituale-corporea fra due creature è per lui condizione imprescindibile
perché l’amore si possa definire veramente tale. Shakespeare subordina, sì,
platonicamente il valore del corpo a quello dell’anima; ma per lui non c’è
bisogno di alcuna idea platonica che riscatti con la sua purezza ascetica la
fisicità della persona amata proprio perché essa è amata nella sua umana
interezza. La radice morale del sentimento d’amore non sta, cioè, fuori di sé,
nell’idea, ma dentro di sé, nella qualità stessa del sentimento. L’amore per il
nostro non è, come nell’esperienza mistica, “un anticipo di Dio” per dirla con
Rilke, né la persona amata è un mezzo di elevazione morale – “cosa venuta dal
cielo in terra a miracol mostrare” per usare le parole di Dante nella Vita
Nova. In Shakespeare non c’è ombra né di teologia istituzionalizzata, né di
astratto misticismo. “Egli,” diceva bene
Benedetto Croce, “non conosce altra vita
che quella terrena, vigorosa, appassionata, affannata, battuta tra gioia e
dolore…e intorno ad essa l’ombra del mistero.” Non c’è in lui quel sentimento
di colpa per la scoperta della terrestrità di eros, che notoriamente vive come sottofondo nel “Canzoniere” del
Petrarca; c’è invece la rivendicazione piena dell’umanità assoluta del
sentimento d’amore, del fatto cioè che esso non si rivela come una via verso la
beatitudine celeste, ma piuttosto come il massimo banco di prova per l’uomo
alla prese con la sua complessa e ambigua condizione esistenziale. In effetti,
per il nostro, attraverso l’autentica esperienza d’Amore si realizza la
percezione della natura umana nella sua integralità corporea e spirituale, e
una simile esperienza rappresenta un’iniziazione indispensabile al mistero
stesso dell’esistere. Ecco perché, già nei Sonetti (specchio della più intima
personalità shakespeariana, lo ripetiamo) l’amore-love viene esplorato
in tutte le sue sfumature: da quelle
più torbide a quelle più terse e sublimi, abbracciato senza reticenza in tutta
la sua estensione umana. Si è giustamente osservato, da parte di vari
critici, che nei confronti dell’amore, Shakespeare compirebbe la stessa
titanica operazione che Machiavelli compie nei confronti della politica: lo
strappa, cioè, alla sua fondazione metafisica e ultraterrena e alla sua
giustificazione religiosa per restituirlo all’uomo nella sua naturale
istintualità. In ciò si rivela senz’altro un figlio del Rinascimento; e,
secondo alcuni, in ciò consisterebbe oggi come oggi la sua sostanziale
“modernità”.
Passiamo ad un altro aspetto. Alla domanda di Socrate nel
Simposio :”Chi ama le cose belle, ama – ma che cosa ama?” Shakespeare
(da alcuni lo si è suggerito) avrebbe potuto dare la stessa risposta di
Agatocle: “Ama che esse diventino sue.” E tuttavia in quale modo eminentemente
‘spirituale’ può anche concretarsi quel desiderio di ‘possederle’? Mi si
consenta questo paragone, che a me pare piuttosto calzante: di fronte al
supremo fascino estetico di una qualche composizione musicale, quanto più ricca
di difficoltà tecniche un esecutore-interprete ne scopra la partitura, con
tanta più voluttà dell’anima solitamente aspira a poterla ‘dominare’: per il
tramite obbligato dello strumento a lui più familiare, che gliene permetta la
traslazione in suoni concreti, a volerne penetrare fino in fondo l’essenza –
ovvero, diremmo, l’anima stessa del compositore amato che quella musica scritta
in potenza racchiude, a volergliela carpire sotto ogni profilo fino al punto di
sentirla come sangue del proprio sangue: come pura bellezza spiritualmente
percepita, per il corpo di uno strumento musicale risvegliata, in definitiva
compiutamente assimilata. E infatti non si potrebbe immaginare una più completa
assimilazione della persona amata come quella che viene descritta nel Sonetto
42 in cui Shakespeare dice all’amico idealizzato che, essendo essi una sola
persona (anzi essendo l’amico il poeta stesso nella misura in cui gli deve la
sua immortalità, come suggerisce più esplicitamente altrove), per una sorta di
proprietà transitiva, chi ne possiede materialmente il corpo, per quel tramite
giunge ad impossessarsi dell’anima stessa del poeta. Ascoltiamolo, questo
singolare sonetto, concettualmente complesso come il contrappunto in un brano
di musica barocca:
Che tu possegga lei
non è tutto il mio affanno,
e tuttavia si può
dire che l’avevo molto cara:
ma che lei ti
possegga, questo è quel che mi accora,
una perdita in
amore che mi ferisce più addentro.
Amorosi colpevoli,
a questo modo vi voglio scusare:
tu ami lei, perché
tu sai che io l’amo,
e in tal modo per
mio amore ella m’inganna
soffrendo che il
mio amico l’ami per amor mio;
se ti perdo, della
mia perdita profitta la mia amata;
perdendo lei
l’amico mio rinviene quel che io perdo;
ambedue l’un
l’altro trovate, ed ambedue vi perdo,
e ambedue per amor
mio mi imponete questa croce.
Ma ecco la mia
gioia: il mio amico ed io siamo una sola persona --
dolce lusinga, ella
dunque non ama che me.
A taluni critici è piaciuto sostenere che con questa reductio
ad unum, perlomeno sotto un profilo di pura logica, il conflitto
triangolare verrebbe a configurarsi come la riproposta in chiave del tutto
mondana e profana dello schema teologico della Trinità: a conferma del fatto
che Shakespeare sia perfettamente cosciente dell’operazione intellettuale che
sta compiendo e del carattere areligioso e intramondano di tutta la sua opera,
e del fatto che questa si iscriva nel processo di secolarizzazione del sacro
conformemente alla razionalizzazione dell’esperienza umana che è propria del
suo tempo. (Ma anche di sacralizzazione del profano, direi -- perché no? A
seconda dei punti di vista.) Ad ogni
buon conto, al di là di ogni altro messaggio possibile in un contesto senza
dubbio parecchio involuto, se ne può facilmente desumere perlomeno questo
elemento importante: che non è il possesso del corpo dell’amico “amato”
a contare; questi è, anzi, libero di congiungersi fisicamente con chi gli pare;
per contro, ciò che è davvero sacro e irrinunciabile è poter ricevere il pegno
genuino della sua anima, la certezza di un’assoluta e inalterabile
intesa reciproca, di una perfetta comunione spirituale cui il poeta
aspira. L’amicizia sublime fra Antonio e Bassanio nel “Mercante di Venezia” (ma la parola con cui Shakespeare la
definisce è, naturalmente, ancora love!), secondo la critica
anglosassone (penso alle sensibili indagini del Furnivall in particolare)
illustrerebbe al meglio il concetto shakespeariano di philia: la
profonda stima reciproca, il libero slancio affettivo, la dedizione altruistica
incondizionata da ambo le parti, la decisa volontà di subordinare a quel tipo
di “love” persino un legame coniugale autentico, onesto ed encomiabile, come
quello che emerge in questo dramma. Forse qui si raggiunge un vertice; ma il
nostro concede ampio spazio a questo sentimento di amore-amicizia nel suo
teatro: si ricordi anche solo la devozione quasi idolatrica del giovane
Sebastiano verso Antonio nella “Dodicesima
Notte”, o l’autentico calore affettivo testimoniato da Antonio verso
Cesare, da Cassio verso Otello, da Kent e dal Buffone verso Lear…
Per contrasto e fin troppo scopertamente, quasi si
trattasse di un dramma a tesi, in Timone D’Atene Shakespeare si sofferma ad
illustrare l’anti-philia: l’odiosa slealtà dei falsi amici, pronti a
voltarti le spalle o a pugnalarti non appena la convenienza sfuma o il vento
cambia direzione. Naturalmente questo si ricollega alle altre forme di
ingratitudine umana, come quella mostruosa fra figli e genitori, (v. il
“Lear”), che sa tingersi di viltà, di calcolo, di cinismo, ecc. Straziante in
Shakespeare è il grido della fiducia ignobilmente tradita: lo avvertiamo in
primis per bocca di Giulio Cesare; poi di Otello e Rodrigo; di Duncan e
Banquo; di Lear, Edgar e Gloster, di Antonio e Ottaviano, di Coriolano -- e
dello stesso Timone di Atene, il quale,
per questo genere di delusione, si trasforma addirittura in un astioso e spietato
misantropo. Sulla scena shakespeariana le passioni si intersecano, si
confondono talvolta, fino a capovolgersi persino, come del resto accade nella
vita.
Ormai forti di tutte queste varie premesse indispensabili,
approdiamo al famoso Sonetto 20 – o meglio famigerato, viste le
innumerevoli discussioni e insanabili divergenze critiche che da sempre ha
innescato circa le ipotesi di omosessualità effettiva o meno nelle inclinazioni
amorose del nostro. Si tratta senza dubbio, palpabilmente, di una lirica nel
complesso molto provocatoria, e maggiormente tale in quanto sembra generare il
sospetto che la provocazione si esplichi in direzioni opposte non senza una
deliberata volontà da parte dell’autore.
Mi spiego: qui il nostro, nel riproporci come altrove la sua concezione
ideale dell’eros/philia, sembrerebbe volerci da un lato rivelare, nei termini
più chiari possibili (secondo
l’orientamento dei critici ‘colpevolisti’) quantomeno un’ambivalenza, se non
una totale inversione sessuale. Eppure, d’altro canto, sembra altrettanto chiaramente (così secondo gli
‘innocentisti’, e però anch’essi parziali in quanto perlopiù sguarniti di
migliori prove che non si trovino nella pur sempre discutibile ‘rettifica’
conclusiva del sonetto) escludere che
il suo tipo di omofilia comportasse dopotutto il bisogno di un qualche
commercio carnale. Che pesci voler pigliare con una rete a maglie così larghe?
Ma vi chiederei già in via preliminare, mentre me lo chiedo io stesso
anticipandovi queste mie riflessioni: forse che il palese intendimento del
nostro di portare il lettore a conclusioni fra loro contemporaneamente
conflittuali, non potrebbe di per sé immaginarsi come un procedimento provocatorio davvero geniale? da ultimo
possibilmente costruttivo proprio in virtù di una bipolarità il cui traguardo
fosse l’auspicabile intuizione critica di un suo superiore messaggio? La
volontà del nostro di avventurarsi e trascinarci lungo un percorso di marcia
bidirezionale non nasconderebbe, forse, la convinzione (o la speranza) che una
certà verità ultima, non chiaramente interpretabile, possa illuminarsi solo
sdoppiandosi ed esplodendo in uno scontro metafisico frontale con se stessa? E
che solo attraverso questa prova del fuoco purificatore possa farsi magari più
riconoscibile? Chissà. Tendo a pensarlo poiché credo si possa legittimamente
sospettare che, in questo sonetto, Shakespeare, con quel gusto per l’equivoco
che traspare in tanta parte della sua opera, ricorra in prima persona pressoché
al medesimo stratagemma di Amleto: cioè quello di voler assumere una
determinata maschera per poter meglio mettere a nudo una sottostante verità
nascosta. E che però qui, nella compattezza di pochi versi, questo tipo di
stratagemma il nostro lo utilizzi con un sostanziale rovesciamento delle funzioni – cioè, indossando ancora volentieri
una maschera ambigua, o “amleticamente fuorviante” se vogliamo, ma questa volta
con il proposito di poter da ultimo svelare l’essenza di una verità occulta
tutt’altro che negativa. E quale? Presumibilmente solo la superiore verità di
quella coscienza integra di cui il nostro, nel Sonetto 121, si dichiara fiero
detentore incompreso, essendo i suoi onesti sentimenti purtroppo lontani dalla
portata intellettuale e sensibile di un’umanità cieca perché fondamentalmente maligna,
spiritualmente corrotta, irrimediabilmente ipocrita. Presumibilmente, quindi,
al di sotto della maschera degli indizi contrari disseminati in questo sonetto,
la basilare autentica moralità insita
in un incontro affettivo-spirituale fra due
anime amiche, conformemente a quanto già si è detto sin qui, e più volte
sottolineato. Tanto credo si possa legittimamente presumere; e credo che, per
rispetto al nostro, una domanda critica in questo senso si sia forse anche
tenuti a porsela.
Ascoltiamo perciò con particolare attenzione i termini in
cui si esprime Shakespeare; ascoltiamoli quantomeno senza voler sorvolare su
certi punti a mio giudizio piuttosto indicativi: quei passi in cui le qualità
determinanti del giovane dedicatario non risultano essere altro che le qualità
di fatto più care al cuore di Shakespeare (quel fondamentale senso della
fedeltà nei rapporti affettivi, quell’istintiva serietà e quella costanza
indefettibile che, nei legami egli associa ad una superiore gentilezza dello
spirito…); e cercando di osservare come l’importanza assoluta di tali qualità
interiori qui risulti sottolineata non tanto perché il poeta sceglie di
contrapporre esplicitamente a quei valori precise debolezze caratteriali a suo
parere tipicamente femminili, quanto perché quei pregi sa farli emergere
mettendoli in diretto rapporto speculare con la descrizione di alcuni
significativi tratti somatici (il volto,
per la gentilezza capace di caratterizzarlo; lo sguardo, per la sua
intrinseca espressività …) i quali,
fra tutti i possibili indici estetici della figura umana, sono forse il veicolo
più spirituale attraverso cui la
corrispondente bellezza nascosta di un “dolce cuore” (che il poeta, dopotutto,
quasi contraddicendo la successiva presa di distanza dalle ‘pecche’ femminili,
peraltro non esita a definire “di donna”…) ha modo di trasmettersi a chi la
ricerchi col cuore, e col cuore sappia davvero apprezzarla. E tuttavia, al
tempo stesso, quali se non le “grazie” esteriormente più vistose dell’amico –
grazie immediatamente concupiscibili agli occhi di un’avida sensualità
concupiscente, grazie che per il poeta sappiamo essere in genere inessenziali
ai fini di un vero sentimento d’amore -- sono invece quelle che, a prima vista,
risvegliano interesse e “rapiscono gli occhi agli uomini e alle donne l’anima”?
Che cosa ne pensa in definitiva Shakespeare del valore umano di simili “ammiratori”, fatui uomini o fatue donne
come in fondo tende pur sempre a considerarli per contrasto con la sua propria
natura, che si lasciano indistintamente incantare, ad un semplice sguardo, da
un essere ben altrimenti amabile come quello da lui ben altrimenti amato? Mi
sembrano esserci qui, sparsi fra le righe, notevoli spunti di riflessione
critica pluridirezionale da non voler prendere sottogamba. Preferisco, ad uso
di chi conosca l’inglese, citare per immediato riferimento anche il testo
originale di questo sonetto:
A woman’s face with Nature’s own hand painted,
hast thou the Master Mistress of my passion.
A woman’s gentle heart but not acquainted
with shifting change as is false women’s
fashion;
an eye more bright than theirs, less false in
rolling,
gilding the object whereupon it gazeth,
a man in hue all Hues in his controlling,
which steals men’s eyes and women’s souls
amazeth.
And for a woman wert thou first created,
till nature as she wrought thee fell a-doting,
and by addition me of thee defeated,
by adding one thing to my purpose nothing.
But since she pricked thee out for women’s
pleasure,
mine be thy love and thy love’s use their
treasure.
* * *
Viso di donna, che
natura di sua man dipinse,
hai tu Sire Signora
della mia passione:
un dolce cuor di
donna, ma non avvezzo ai mille
mutamenti che han
corso tra le false donne;
occhio del loro più
vivo, meno al volgersi falso,
che fa splender l’oggetto
sul quale si trattiene;
uomo all’aspetto
che ogni aspetto vince,
rapisce gli occhi
agli uomini e alle donne l’anima.
E come donna fosti
tu prima creato;
sol che Natura, nel
formarti, s’invaghiva,
e per soverchio di
te mi fece privo
con l’aggiungerti
cosa al mio scopo nociva.
Ma poi che pel
piacere delle donne ti eresse,
mio sia l’amore,
loro il tesoro del suo uso.
Vogliate intanto osservare come, nell’ultimo verso del
testo originale, quell’identica parola “love” viene ad assumere due sfumature
semantiche palesemente opposte: da un lato è affetto dell’anima, dall’altro è
desiderio dei sensi. E, per chi conosca l’inglese, apprezzare inoltre l’abilità
con cui Shakespeare, ammiccando, qui ci offre uno di quei magistrali quanto
intraducibili bisticci (puns), al suo gusto sempre tanto cari: facendo leva sul
significato anodino del verbo “to prick out”, ai suoi tempi corrente sinonimo
di “to choose, pick out” (scegliere), si riallaccia sottilmente a quello del
sostantivo scurrile “prick” (cazzo), da ultimo restituendoci implicitamente
quest’altro senso ben più concreto e incisivo: la natura “ti ha dotato di un pene per il piacere delle donne”. E
ancora una curiosità di carattere filologico: le pentapodie giambiche
anglosassoni, normalmente tronche, nei quattordici versi di questo sonetto
presentano invece tutte quante delle desinenze piane: ovvero “femminili”,
come altrimenti vengono denominate non solo in italiano – cosa che lo
Shakespeare poeta sicuramente non ignorava. Si tratta di una casualità? Di un’altra
sotterranea provocazione? Potrebbe anche darsi; nulla di certo o accertabile in
proposito; ma, tenendo conto dei contenuti particolari del componimento, viene
fatto di volerne segnalare quantomeno la particolare coincidenza.
L’accostamento al tenore delle liriche “omofile” di
Michelangelo è sempre stato suggerito dalla critica, in quanto anch’esse
ugualmente imbevute di platonismo – e più precisamente del platonismo espresso
da Socrate per bocca di Diotima nel contesto del Simposio, dove si sottolinea
la distinzione fra l’amore fisico, diretto alla donna, e quello spirituale
diretto all’uomo. La dottrina del resto trova espressione anche in Ovidio che
il nostro ben conosceva; ed autorevoli critici, quali Leslie Fiedler, parlano
di ispirazione al Libro X delle Metamorfosi per la celebrazione della figura
ermafroditica, cara alla cultura classica in genere, come simbolo
dell’ambivalenza dell’amore fisico e spirituale per l’appunto. Ma credo che,
data la centralità del concetto di Eros per il nostro in quanto uomo e in
quanto artista – centralità assoluta per i motivi che sin qui ho tentato pur
sempre sommariamente di evidenziare -- la critica più accorta abbia ragione di
sostenere che il platonismo shakespeariano non vada confuso con un fenomeno
letterario di maniera. Per cui, seppure
un minimo di “insincerità poetica” esistesse nella conclusione del sonetto
(insincerità eventualmente sostenibile anche sulla base dell’importanza
complementare ovunque attribuita dal nostro all’elemento fisico nel rapporto
amoroso?...nonostante questo elemento possa ritenersi sublimato mediante
quell’altro escamotage psicologico
del “triangolo” emergente nel già esaminato nel Sonetto 42?...), ebbene, dico,
persino qualora un eventuale sconfinamento de facto nella concupiscenza
dei sensi fosse ipotizzabile o addirittura dimostrabile, ciò che davvero
interessa è che in ogni caso, in ossequio alle profonde esigenze personali del
nostro, questo non potrebbe che innestarsi su una matrice spirituale
preponderante e determinante; e, in questa
prospettiva, non solo giustificarsi, ma sicuramente anche nobilitarsi. In altri
termini: per Shakespeare non sarebbero di per sé l’eterosessualità o
l’omosessualità a rendere più o meno lecita, più o meno pura, più o meno nobile
un’unione carnale, bensì solo l’eventuale essenziale presenza vivificante e
salvifica della luce d’amore nell’anima in un caso come nell’altro. E’
l’autentica comunione, sincera e profonda, fra due spiriti affini a costituire
l’unica concepibile base discriminante e dirimente; di modo che se, per
converso, questo fondamento irrinunciabile dovesse venire meno, per il
nostro entrambi i rapporti sessuali sarebbero da giudicarsi del tutto
equivalenti -- ossia parimenti indegni perché umanamente degradanti e,
solo per questo motivo, ugualmente spregevoli. In effetti, l’incontro
amoroso come volgare erotismo, come lussuria, come appagamento di una
sensualità fine a se stessa (Platone lo chiamava epithymìa), viene
bollato da Shakespeare come una forma di abbrutimento ripugnante, seppure
riconosciuto come tentazione perenne nell’ambito delle innumerevoli debolezze
umane. Oltre al nucleo filosofico cui si ispira “Antonio e Cleopatra”, fa testo
in materia il Sonetto 129 ad
esempio, dal contenuto particolarmente aspro (come del resto si rivela quasi
sempre il tono dei sonetti della serie dedicata alla cosiddetta “Dark Lady” –
La Dama Oscura). Vediamolo per intero quel sonetto:
Sciupio di spirito
in vergognoso spreco
è l’atto di
lussuria, e sino all’atto, la lussuria
è spergiura, assassina,
barbara, traditrice,
selvaggia, estrema,
bruta, crudele, senza fede,
non appena goduta
che subito spregiata,
fuor di ragione
cercata e, non appena avuta,
fuor di ragione
odiata, come un’esca inghiottita
a studio posta per
rendere furioso chi la morda.
Insana nella febbre
di ricerca, insana nel possesso,
sfrenata nel
ricordo, nel godimento, nella brama;
una delizia alla
prova, ma proterva e sciagurata,
prima una gioia
sperata, subito dopo un sogno:
Il mondo sa questo
a usura, eppur nessuno sa
fuggir quel
paradiso che ci induce a tale inferno.
In una delle sue “Spaete
Gedichte”, in fondo anche Rilke vorrà poi esclamare: “Masken! Masken! Dass man
Eros blende…” -- Maschere! Maschere! Abbacinate di Eros… Ma è curioso
quanto di questo piglio speculativo sconsolato e insieme riottoso di fronte ai
demoniaci agguati della sensualità, può ritrovarsi ancora, a distanza di
secoli, ad esempio in quella celebre lirica di Ungaretti intitolata “Dannazione” – tanto per menzionare un
poeta moderno più noto ed amato a casa nostra. Ma con la differenza che, in
Shakespeare, certe lacerazioni ungarettiane per cattolica religiosità turbata,
sono del tutto assenti.. L’atteggiamento filosofico di Shakespeare – che, pur
con qualche ovvia forzatura, verrebbe piuttosto la tentazione di riallacciare
alle serene meditazioni umanistiche dell’americano Thoreau, così formulate: “La
percezione della bellezza è una prova morale” – può dirsi davvero ‘morale’ in
quanto si libera radicalmente da ogni remora ‘moralistica’, rifiuta la soggezione
a qualsiasi divieto giudicato contrario alle leggi del cuore, nel momento
stesso in cui gli pare con sicurezza che si sia raggiunto quel sublime
“connubio fra due anime sincere, fedeli, costanti”, per lui prezioso e di fatto
giudicato la sola norma morale autentica, capace di oscurare il valore di ogni
altro indirizzo esistenziale alternativo. Quando quella premessa ‘morale’ si
sia verificata, qualunque intervento dei sensi per lui non solo diviene
concepibilmente permesso, ma anzi di pari passo si spiritualizza sempre più,
diventa un glorioso tramite atto a perfezionare, coronare e consacrare quella
sorta di angelico sposalizio di partenza. Sotto questo profilo si può ben dire,
in linea con certa critica avveduta, che Shakespeare, rivendicando con
socratica fierezza un bisogno di alètheia a dispetto di ogni comune
pregiudizio della doxa, si schieri apertamente contro ogni genere di
falso moralismo socio-religioso pur sempre vivo anche ai suoi tempi, a dispetto
dei costumi sessuali diffusamente lascivi, piuttosto che ‘liberi’, della sua
epoca. Giuseppe Prezzolini giustamente osservava, dal canto suo, come al nostro
fosse già subito succeduta “un’Inghilterra protestante e ipocrita la cui
ristrettezza mentale fu la negazione della larga comprensione umana e della
libertà spirituale con cui Shakespeare aveva contemplato il mondo”. E credo non
sia azzardato individuare nella tempra filosofica del nostro finanche i
fermenti di un illuminismo ante litteram,
non fosse altro che per quel suo insolito coraggio di guardare in faccia la
realtà umana e sociale senza rosei preconcetti, e di accettare la natura per
quella che è e si rivela nel suo titanico meccanismo, nella sua tremenda e
tragica fenomenologia. Oggi però, in un’altra prospettiva, si può ben dire che
in quel pensiero spiritualmente evoluto si possano trovare non pochi spunti di
utilissima, più pacata e saggia riflessione anche ad uso di persone di
autentica fede religiosa alle prese con diatribe filosofico-teologiche circa le
“necessarie” distinzioni da doversi fare fra vincoli d’amore “leciti” e
“illeciti”: gli uni, purché sanciti dall’esplicito “superiore consenso divino”
mediante un regolare contratto matrimoniale, da ritenersi scontatamente
immacolati in quanto ufficialmente “consacrati”; e gli altri, d’altro canto, da
doversi giudicare automaticamente “profani”, moralmente inferiori o quantomeno
“inaccettabili davanti a Dio” se troppo spontaneamente instaurati fra
cosiddette “coppie di fatto” (e mi limito a pensare a quelle eterosessuali,
lasciando esclusivamente alla libera coscienza laica di Shakespeare ogni altra
sua autonoma conclusione). Come non volersi semplicemente chiedere, a mente
sgombra: quanto di vero amore, della
specie qualitativa indicata e agognata dal nostro, può dirsi fondamento autentico di tante ‘felici e sorridenti’
unioni matrimoniali ovunque definite di per sé “giuste, pure, onorevoli”? Reale
e sincero fondamento di quelle che al
mondo ipocrita della doxa (spesso non
necessariamente ignaro, ma di preferenza incline a sorvolare su non poche
doppiezze, o aberrazioni più o meno turpi, nell’ambito di certi “sacri” nuclei
familiari, finché queste di colpo non si rendano magari scandalosamente troppo
manifeste, di fatto non più occultabili…) piace pubblicamente riverire in ogni
caso, e non di rado persino additare dall’alto, con sicumera o sdolcinato
buonismo, come esemplari “modelli” di corretto comportamento umano per le
attuali e future generazioni?
E’ un atteggiamento “illuminato” di matrice “areligiosa”,
quello di Shakespeare -- lo abbiamo già opportunamente sottolineato in vari
modi. Eppure, è curioso constatare come il nostro si sarebbe quasi potuto
scoprire persino inconsapevolmente “cristiano” nel senso più autentico della
parola qualora avesse avuto occasione di meditare sui termini in cui si
esprime, ad esempio, il Vangelo di Luca (12, 49-59): su quei versetti, apparentemente
terribili e minacciosi, apparentemente incongruenti, tanto lontani dalla figura
spirituale di un Gesù tuttavia erroneamente immaginato predicatore di “pacifica
convivenza” ad ogni costo: una pagina evangelica, quindi, in questo senso
alquanto sorprendente, drammatica, inquietante; ma tale soltanto per qualunque
fedele “cattolico” non sappia davvero comprenderne l’essenziale portata nella
dottrina cristiana. Ricordiamolo, quel basilare passo di Luca: “Sono venuto a
gettare fuoco sulla terra…Voi pensate
che io sia venuto per portare la pace
fra gli uomini? No, siatene certi, io porto la divisione. D’ora in poi, se in una famiglia vi sono cinque
persone, si divideranno tre contro due e due contro tre…il padre contro il
figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia
contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera…” E la
conclusione, spietata: “Ipocriti!
Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” Ebbene, non fosse che in
questo particolare messaggio del Nazareno, il pensiero del nostro potrebbe
vedersi in qualche modo stranamente rispecchiato: in quanto quel Gesù,
dall’agnostico rinascimentale Shakespeare in apparenza personaggio
spiritualmente remoto, osava
ugualmente proclamare a gran voce, in nome di una Verità da doversi perseguire
in ogni caso fino in fondo, l’assoluta necessità morale di saper abbracciare
coraggiosamente, all’occorrenza, anche le armi contro tutte le ipocrisie
nascoste sotto i falsi orpelli delle “rassicuranti facciate”: ipocrisie
deleterie di ogni matrice e presenti in ogni campo dell’agire umano, certo; ma
per giunta -- o forse soprattutto, a maggior ragione -- quelle, moralmente
ancor più nere in quanto maggiormente contro natura, che si annidano
nell’ambito delle cosiddette “sacre famiglie costituite”: perverse inimicizie
sotterranee tipicamente accompagnate in superficie da un falso, edulcorato
atteggiamento “pacifista” di pura convenienza: da quel certo mostruoso finto
abbraccio amicale (e si pensi allora, incidentalmente, anche solo alle odiose
smancerie delle figlie di Lear verso il padre…o alle studiate moine della madre
di Amleto verso il figlio…) da voler smascherare persino con la spada in pugno,
poiché nulla ha a che vedere con la genuinità
dei sentimenti umani, né, tanto meno, con i sinceri
vincoli di amicizia spirituale nell’Amore che dovrebbero idealmente
intercorrere fra coniugi, consanguinei o familiari in genere.
Simili mie meditazioni collaterali a parte, ciò che di
quel pensiero indubbiamente ci rimane e può considerarsi un lascito sicuramente
prezioso, è questa duratura lezione shakespeariana di corretta filosofia
esistenziale: nei nostri migliori rapporti interpersonali, se veramente umani
hanno da dirsi, e se non hanno da rivelarsi evanescenti esperienze affettive,
rosee “albe d’amore” senza possibile persistenza e consolidamento nel tempo,
l’attrazione per la bellezza interiore dell’altro dovrebbe idealmente non certo
precedere o escludere quantomeno un primo slancio istintivo di superficiale
simpatia reciproca (sarebbe assurdo comandamento, questo, e in odore di sciocco
moralismo), bensì costituirne il solido
presupposto etico di base, secondo un implicito intimo bisogno di migliore
approfondimento imprescindibile, in mancanza del quale il concetto stesso
di Amore come forza eminentemente coesiva fra le creature umane non può
sussistere. Ma, dato che l’attrazione per l’anima altrui non può verificarsi se
non mediante un’adeguata effettiva conoscenza
dei caratteri spirituali di chi ci sta di fronte, si può dire che i germi
letali dell’antiamore (e della essenziale violenza che lo contraddistingue) si
annidino proprio nel rifiuto spensierato, libertino, di tale necessaria volontà
di approfondimento.
(1) NOTA
Salvo errori o lacune da parte mia, pare davvero strano
che in un arco temporale di ben tre secoli all’incirca – volendo partire dal “Discours sur Shakespeare et mons. de
Voltaire” del Baretti fino al recentissimo libro di Umberto Eco intitolato “Dire quasi la stessa cosa”, entrambi
dedicati, pur sotto diverse angolature, ad un’analisi organica dei caratteri
incomunicabili nella traduzione da una lingua ad altra – non si siano mai fatte
esplicite considerazioni su questo particolare scoglio linguistico di rilevanza
non certo secondaria.
(2) NOTA
Tranne più avanti
in due soli casi, per tutti i sonetti di volta in volta presi in esame
tralascio il testo originale inglese e mi avvalgo della versione italiana di
Rossi-Melchiori, in genere preferita dai docenti delle nostre facoltà
universitarie. Mi faccio lecita una sola variante: in questo Sonetto 121, ai
termini “sangue lascivo”, che figurano al sesto verso della traduzione firmata
dai suddetti autori, mi parrebbe assai più fedele allo spirito dell’originale
(“sportive blood”) una qualunque espressione meno restrittiva, come può
esserlo, ad esempio, “sensuoso sangue”. In tal modo, pur andando purtroppo
perduta quella ulteriore sfumatura di ‘fresca spontaneità degli istinti
amorosi’ che il qualificativo “sportive” comportava ai tempi di Shakespeare, credo
si possa recuperare inalterato, quantomeno genericamente, l’elemento passionale – ma soprattutto privandolo,
è questo il punto, di quelle valenze negative che nell’aggettivo italiano
“lascivo” qui risulterebbero impropriamente implicite.
(FINE PRIMA PARTE –
SEGUE NEL PROSSIMO ARTICOLO)
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