LA FISIONOMIA DI EROS SECONDO WILLIAM SHAKESPEARE
di Roberto Vittorio Di Pietro
(Testo integrale della conferenza tenuta per il Centro Studi P.A.N.I.S. di Torino in data 21 aprile 2004 )
e che potrete trovare anche al sito ALLA BOTTEGAhttp://www.allabottega.it/index.php/2017/12/14/la-fisionomia-di-eros-secondo-william-shakespeare-di-roberto-vittorio-di-pietro/
SECONDA PARTE
(Seguito dal
precedente articolo in questo sito)
Siccome ritengo che in un corretto approccio umanistico
verso la migliore letteratura (phantasia pur sempre, ma non vuota
evasione improduttiva, creatività in atto come legittima funzione di una
sottostante imaginatio vera) non si
possa operare per compartimenti stagni, ma ci si debba anzi sentire spinti a
riflessioni critiche e associazioni speculative in ogni direzione possibile,
pur dandovi magari ancora l’impressione di uscire arbitrariamente dal seminato,
mi preme invitarvi a voler contrapporre a quelle di Shakespeare alcune scelte
etiche differenti, per così dire, notoriamente caratteristiche di due o tre
altri scrittori di chiara fama.
Vorrei avvalermi soltanto di alcuni versi, pochi, certo
troppo pochi, ma per molti aspetti forse sufficientemente significativi, tratti
anzitutto dalle pagine di due poeti dichiaratamente omosessuali: Sandro Penna e
Costantino Kavafis. Così Penna: “Eccoli
gli operai sul prato verde/a mangiare. Non sono forse belli?” Riflettendoci
bene su, che cosa se ne può desumere? Obiettivamente che cosa, essendo qui
chiaramente assente la decisiva, quanto in buona misura ingenua, necessità
pasoliniana di agganciare le proprie particolari scelte sessuali a ragioni
ideologiche di ‘purezza di classe’ -- com’è risaputo e non è qui il caso di
voler approfondire? Come sempre altrove nelle pagine di Penna, che sotto il
profilo meramente artistico senza dubbio si segnalano come un’opera di
primissima lega, purtroppo traspare un limite umano piuttosto inquietante,
forse così riassumibile: il bisogno (ma assai più diffuso di quanto non si
pensi…) di soffermarsi al semplice richiamo
estetico epidermico senza nemmeno desiderare di poterlo trascendere, o
addirittura respingendo quella eventuale tentazione positiva avvertendola come
indesiderabile fattore di disturbo, inibente per le più piacevoli sensazioni di
una concupiscenza erotica fine a se stessa, sia essa di fatto realizzata o
alimentata in astratto nel mondo privato delle fantasie masturbatorie. Salvo
poi soffrirne intimamente (nel migliore dei casi)? Salvo tormentarsi accusando
un ineluttabile destino di isolamento spirituale genericamente riservato
all’uomo? E senza voler nemmeno cercare di comprendere forse meglio le proprie
responsabilità di una solitudine interiore masochisticamente autoindotta? Ma è da quella, si dirà, che scaturisce la
poesia più genuina e commovente: “les
plus désespérés sont les chants les plus beaux”. Buon per noi; ma coloro
che con troppa inutile sofferenza umana la producono occorre forse anche
saperli “shakespearianamente” compiangere.
Costantino Kavafis è, indiscutibilmente, poeta di pari se
non maggiore valore artistico. Eppure anch’egli in una lirica in questo senso
rappresentativa (dal titolo allusivo “Sulle scale”) ragiona in tono nostalgico:
”…pure, l’amore che volevi l’avevo io da
darti…l’amore che volevo l’avevi tu da darmi…” Ecco, caratteristico e
puntuale anche qui, il subitaneo scambio di sguardi furtivi; ecco, immediato,
il prorompere in superficie di una sensualità avida di istantaneo appagamento;
ecco il rapporto interpersonale (se carnalmente consumato o meno, poco importa)
che abortisce già mutilato, già dissolto in quel rifiuto a priori dell’essenza composita, tridimensionale, di una
controparte umana che non risulta stimolare altro se non un’ansia di possesso
in un’unica direzione. Ecco, insomma,
tutto quanto per contro viene stigmatizzato da William Shakespeare, ora
implicitamente, ora con scoperta animosità, come succede nel Sonetto 129 di cui
prima ci siamo occupati.
E passiamo all’esempio di un altro pregevolissimo poeta di
casa nostra, Camillo Sbarbaro, nettamente schierato peraltro sul fronte
eterosessuale, ricordandone questi altri pochi versi ugualmente rivelatori: “Pei riccioletti folli d’una nuca/per l’ala
d’un cappello…/il cuore pronto a tutte le follie.” E’ risaputo che Camillo,
con animo inquieto inseguiva volentieri figure di donne sconosciute incrociate
per strada, soffermandosi a fantasticare per conto suo in una sorta di delectatio morosa, per goderne
mentalmente la rispettiva avvenenza esteriore; e infine, nel migliore dei casi,
decidere di dare sfogo in qualche lupanare alla propria libidine così
alimentata; e spesso denunciando (peraltro con espressioni di mirabile valore
poetico) la propria intima incapacità di stabilire con l’altro sesso una
relazione più concreta, spiritualmente appagante, basata sulla disponibilità ad un reciproco contatto
dell’anima. In definitiva, siano gli istinti di fondo omo- o eterodiretti, ciò che sembra indistintamente accomunare
queste tre figure di scrittori (peraltro scelti ‘a campione’ fra tantissimi
altri possibili) può forse dirsi una analoga, triste compulsione a reificare l’umano: ovvero a trasformare
l’altro da sé in un oggetto
meritevole di qualche interesse personale solo in quanto ritenuto capace di
soddisfare alcuni determinati urgenti bisogni edonistici (estetici,
psicologici, fisici…) in un determinato luogo, in un determinato momento.
Ma, nell’occuparci di Shakespeare, nemmeno si può voler
tacere di quell’altro grande astro della poesia mondiale che è Fernando Pessoa.
Di una sua cupa nevrosi senza sbocchi, ecco, anzitutto, come Fernando sceglie
di prendere coscienza in alcune patetiche pagine di diario privato (1906-14):
“Tutto per me è incoerenza e mutamento…tutte le cose mi sono ‘sconosciute’…il
mio carattere è del genere autocentrico, perduto in se stesso…Bei voli
dell’immaginazione mi accarezzano il cervello, ma li lascio dormicchiare finché
muoiono, perché mi manca il potere di convertirli in cose del mondo esterno…Il
mio ricordo di cose esterne è vago…che le cose più importanti si concretizzino,
che un giorno gli uomini arrivino tutti ad essere felici mi rende furioso…” E soprattutto ci interessano da vicino le
seguenti osservazioni che, a quanto risulta da documenti disponibili, avrebbero
dovuto servirgli nientemeno che come spunto per un progetto di saggio critico
su Shakespeare, rimasto senza seguito (e per buona ventura, oso dire, visto un
certo abbaglio di partenza, forse dovuto alla percepibile volontà di
aggrapparsi ad elementi autoanalitici già piuttosto confusi e fuorvianti): “Non
trovo difficoltà a definirmi: sono un temperamento femminino con intelligenza mascolina
[sic]. La mia sensibilità e la sua espressione sono
di donna; le mie facoltà di relazione sono di uomo. Quanto alla sensibilità,
quando dico che sempre mi piacque di essere
amato, e mai di amare [il corsivo è mio], ho detto tutto. Mi feriva sempre l’essere obbligato, da un
dovere di comune reciprocità (una lealtà
dello spirito) [corsivo ancora mio] a corrispondere…Riconosco senza
illusione la natura del fenomeno. E’ un’inversione sessuale, poco pronunziata…”
E, con una chiusura critica pressoché imperdonabile per una fiera
“intelligenza” cosiddetta “mascolina” del suo calibro, se non proprio in virtù
di una certa sua “sensibilità”
che pretenderebbe essere “di donna” [sic], così conclude: “Siamo parecchi
di questa specie lungo la storia: Shakespeare e Rousseau sono esempi, o
esemplari, dei più illustri…e il mio timore della discesa al corpo di questa
inversione dello spirito me lo fa radicalizzare la considerazione di come in
questi due sia discesa: completamente nel primo, in pederastia; incertamente
nel secondo in un vago masochismo”.
Interessante.
Vediamo quale particolare dinamica interiore, di impronta
propriamente affettiva, sembra
destinata a sfuggire a quest’uomo afflitto, in quanto del tutto estranea al suo
carattere “autocentrico”, (come del resto egli stesso sceglie di definirlo),
direi agli antipodi rispetto alla tempra squisitamente passionale di William
Shakespeare, e quindi per lui di fatto inintelligibile se non in termini di
cruda pederastia. Cerchiamo di capirlo meglio soffermandoci anzitutto sul Sonetto 22 del nostro, uno dei più
efficaci e spontaneamente teneri della raccolta, nonostante la presenza di
alcuni moduli letterari di matrice petrarchista, che la critica vi ha
giustamente individuato:
Non mi convincerà
lo specchio ch’io son vecchio
finché tu e
gioventù siete coetanei,
ma quando in te
vedrò del tempo i solchi
mi aspetterò che
morte espii i miei giorni.
Ché tutta la
bellezza che t’adorna
è solo degna veste
del mio cuore
che vive nel tuo
seno, come il tuo vive in me;
come dunque sarei
di te più vecchio?
Abbi perciò, amor
mio, cura di te
come io ne avrò,
non per me, ma per te,
custodendo il tuo
cuore; e ne avrò cura
qual tenera nutrice
che un bambino guardi dal male.
Non contar sul tuo
cuore quando il mio sarà assassinato:
mi desti il tuo per
sempre, senza restituzione.
Ed ora continuiamo
a voler riflettere accostandoci ad un’intensa lirica di Umberto Saba,
intitolata “Vecchio e giovane”,
tratta dalla raccolta “Epigrafe” (1947-48),
che mi piace proporvi in quanto non poco aderente ad alcuni importanti
risvolti del nostro discorso:
Un vecchio amava un
ragazzo. Egli, bimbo
- gatto in vista
selvatico - temeva
castighi e occulti
pensieri. Ora due
cose nel cuore
lasciano un’impronta
dolce: la donna che
regola il passo
leggero al tuo la
prima volta, e il bimbo
che, al fine tu lo
salvi, fiducioso
mette la sua manina
nella tua.
Giovinetto tiranno,
occhi di cielo,
aperti sopra un
abisso, pregava
lunga all’amico suo
la ninna nanna.
La ninna nanna era
una storia, quale
una rara commossa
esperienza
filtrava alla sua
ingorda adolescenza:
altro bene, altro
male. “Adesso basta –
diceva a un tratto,
spegniamo, dormiamo”.
E si voltava contro
il muro. “T’amo –
dopo un silenzio
aggiungeva – tu buono
sempre con me, col
tuo bambino”. E subito
sprofondava in un
sonno inquieto. Il vecchio,
con gli occhi
aperti, non dormiva più.
Oblioso,
insensibile, parvenza
d’angelo ancora.
Nella tua impazienza,
cuore, non
accusarlo. Pensa: è solo;
ha un compito
difficile, ha la vita
non dietro, ma
dinanzi a sé. Tu affretta,
se puoi, tua
morte. O non pensarci più.
Direi che qui il linguaggio poetico di Saba, ben più
vicino com’è alla nostra sensibilità moderna, (purché si stia, però, attenti a
non voler sconvolgere con un’interpretazione pedestremente letterale le metafore su cui si imperniano creativamente le varie
immagini ‘situazionali’ di questa lirica…) possa di per sé consentirci di
indovinare meglio quanto di analogamente sofferto
vibri talvolta nella parola ‘autobiografica’ di Shakespeare, sebbene quella
rischi qua e là di perdersi fra i meandri di un certo concettismo ligio alle
convenzioni stilistiche dell’epoca, ai cui eccessi neppure un genio della sua
grandezza riesce sempre del tutto a sfuggire.
Ciò che interessa constatare è che, non diversamente da
parecchi componimenti shakespeariani, si tratta di una poesia che, ad occhi
maliziosi, può sembrare persino ‘sospetta’ (si noti con quale puro coraggio – e
meravigliosa sicurezza semantica… -- Saba non teme di esporsi usando già in
apertura quello ‘scandaloso’ verbo amare!). Ma è una poesia, a mio parere,
straordinariamente ricca di contenuti profondi -- e, a ben vedere, assai poco
‘sconci’; per giunta sviluppati con una tale finezza e felicità di tocco che
propenderei a paragonarla alle più riuscite espressioni letterarie di quella
particolare forma di love-philia che,
per conto suo, il bardo britannico riesce diversamente a farci apprezzare.
Anche perché qui il particolare messaggio umano di Saba fonda la propria
coinvolgente pregnanza su una complessiva intonazione
del discorso lirico ovunque mantenuta fedele ad uno stesso registro
interiore; e, come nei migliori sonetti di Shakespeare in cui compare il ‘fair
friend’, tale registro viene sostenuto nell’insieme
con coerente equilibrio fra l’affettuoso, l’elogiativo, il lamentoso e il
didascalico – talvolta un istintivo procedimento del cuore più che della penna,
questo, miracolosamente capace di annullare i manierismi più o meno caratteristici
di certa letteratura di simile ispirazione.
Ma questo tipo di love,
nella sostanza, una volta depurato di ogni scoria fuorviante, a che cosa
realmente equivale? A qualche ‘sicura, ovvia, necessaria’, forma di
concupiscenza carnale camuffata? Chiedo ancora: soprattutto in tempi di
clamorose, effettive basse pratiche pedofile come quelli attuali, che si sia
ormai diffuso irreversibilmente il timore assurdo (la certezza…) di un inevitabile demone seduttore
onnipresente? Una paura dell’untore ormai talmente accecante che qualsiasi
forma di semplice, naturalissima affettività manifestata da un individuo adulto
verso uno più giovane sia destinata ad essere automaticamente sempre fraintesa?
Se si fosse giunti a questo, anche per una mia personale diffidenza verso ogni
insulsa abitudine a voler fare di un’erba un fascio, ancor più pericolosa nella
sfera dei diversificati istinti umani, obietterei senza difficoltà che per
questa particolare poesia di Saba (come per il succitato Sonetto 22 di
Shakespeare, uno qualunque fra le tante altre liriche similmente
esemplificative rivolte al ‘fair friend’), la risposta al misterioso
sottostante busillis potrebbe in
realtà ridursi ad una spiegazione ultima tutt’altro che peregrina. Quale? Senza
per nulla dover tirare in ballo i soliti precedenti dell’antico ‘amore greco’ e
dei suoi specifici arcani rituali (in ogni caso discutibili pratiche di
cosiddetta ‘iniziazione’ tramontate con la civiltà ellenico-ellenistica, già
intimamente legate a determinate strutture socio-politiche e relative
sovrastrutture culturali da secoli, quantomeno in Occidente, morte e sepolte),
direi solamente il semplice, universale, sempiterno, naturalissimo desiderio di
un legame pedagogico-affettivo da parte di una saggezza adulta, già maturata
attraverso i dolori e le vicissitudini di una vita, a un certo punto
sensibilmente bisognosa di protendersi con amichevole protettività verso
creature ritenute (fosse pure erroneamente) a loro volta bisognose di sostegno
in quanto ancora tenere negli anni ed inesperte, di per sé fragili, vulnerabili
anche per un certo giovanile entusiasmo vitalistico ancora troppo ingenuo e
sprovveduto. E creature preferibilmente del proprio sesso forse perché certi
meccanismi psicologici fondamentali si ritiene di conoscerli meglio
paragonandoli ai propri? Identificandoli con i caratteri stessi della propria
sensibilità? Così parrebbe, potendosi forse d’altro canto obiettivamente
affermare che una simile motivazione psicologica di fondo sia ugualmente
verificabile sul versante delle più pure, profonde e nobilitanti amicizie
femminili, radicate su affinità elettive di ordine genuinamente spirituale, e forse tanto più
chiaramente rassicuranti in questo senso laddove esista un qualche notevole,
del resto non inusuale, divario di età. A questo riguardo, mi torna alla
memoria una pagina dello Zibaldone leopardiano che qui mi sembra appropriato
riprendere alla lettera. E’ un passo in cui il giovane Giacomo, riflettendo
sulla natura della sua intensa amicizia verso Pietro Giordani (di lui più
vecchio di ben ventidue anni), e com’è noto contrassegnata da un calore
affettivo fin troppo esuberante, così esprime, per vie traverse, certe sue
perplessità: “Trovo meno inverosimile
l’amicizia fra due giovani, che fra un giovane e un uomo di sentimento già
disingannato dal mondo e disperato della sua propria felicità…E questa
circostanza mi pare anche più favorevole all’amicizia che quella di due persone
egualmente disingannate perché, non restando desideri né interessi in veruno,
non resterebbe materia all’amicizia.” Qui è il più giovane (ma, dei due, il
meno o già il più “disingannato” nonostante tutto?) che, segnalando quantomeno
la disparità del sentire (“altro bene, altro male” nella sintesi poetica che
Saba ce ne offre) come elemento essenziale ai fini di una amicizia
reciprocamente vivificante, da ultimo sembra voler soprattutto confermare a se
stesso le positive valenze umane insite non già nella sua personale ammirazione
nei confronti dell’amico maturo, quanto nella lusinghiera vicinanza affettiva
riservatagli da un “uomo di sentimento”.
Ma credo sia altrettanto verosimile un atteggiamento psicologico analogo
nella controparte più matura: cioè, seppure contemplando una posizione inversa
nello svolgimento dei ruoli, una concezione dell’amicizia sostanzialmente
uguale, determinata da un autentico desiderio affettivo-protettivo di legarsi a
‘figli spirituali’ ancora interiormente vivaci, dal cuore ancora integro, non
ancora “disingannato” ma tanto più esposto ai traumi eventuali del disinganno.
Figlioletti selettivamente amati, certo, perché reputati
degni e sensibili a sufficienza; e di fatto spesso sensibilmente compartecipi,
davvero sinceramente desiderosi di un intimo colloquio interiore con un
‘padre-maestro’ in qualche modo ammirato; davvero felici di poter essere così
apprezzati nelle loro intime qualità, paternamente ‘cullati’ con assidue
affettuose attenzioni. Così sulle prime.
E, tuttavia, pur sempre “ingordi adolescenti” per loro intrinseca vivacità del
sangue più che della mente e del cuore, diremmo, (quella che l’inglese
definirebbe ‘animal spirits’), in realtà assai più ansiosi di proiettarsi
avventurosamente verso nuovi stimoli sconosciuti, ignote oceaniche distese
meglio esplorabili con il proprio autonomo fervore della fantasia, anziché
effettivamente inclini ad addormentarsi ascoltando le stesse ripetitive “ninne
nanne”, tediose narrazioni delle “rare, commosse esperienze” altrui. Quindi
“giovinetti” per loro natura potenzialmente già insofferenti e alla fin fine
“tiranni” in quanto alla lunga annoiati da appelli forse eccessivi alla
disciplina interiore, come da ogni altra stucchevole quantunque “buona”, del
tutto disinteressata, premura genitoriale. “Bimbi” amorevolmente seguiti,
consigliati e curati, e ad un tratto, percepiti sulle difensive come “gatti
selvatici”; “bimbi” divenuti improvvisamente indocili, inafferrabili e
ingestibili come felini ingrati – e però tali per una concepibile, naturale e
pertanto giustificabile forma di ribellione. Che poi questo ‘tradimento’ si sia
portati ad accettarlo e perdonarlo razionalmente, ‘paternamente’, è un conto;
ma lo si fa non senza una punta di bruciante delusione, non senza un amaro
retrogusto di sconfitta, da ultimo con un senso di capitolazione spirituale
capace di suscitare, perché no, persino alcune estreme tentazioni autopunitive:
quelle di qualche buon genitore particolarmente sensibile, che può giungere ad
augurarsi persino la morte allorché tema che il proprio affetto, forse divenuto
troppo esigente, invadente e possessivo, possa essere di intralcio alla
migliore felicità futura dei figli amati. Piuttosto, nella fattispecie della
lirica in esame, tenderei a mettere in discussione l’effettiva correttezza
dell’espressione “t’amo” che al poeta triestino, forse con eccessiva fiducia,
pare di poter ugualmente attribuire al ragazzo nei suoi riguardi. Si può
davvero sostenere che alla parola “amore” entrambi annettano necessariamente le
stesse precise qualità? un identico valore semantico? Mi sembra infatti
plausibile che, in simili rapporti di intima amicizia, alla controparte
spiritualmente meno matura possa talvolta anche succedere di fraintendere i
veri connotati di quel certo particolare interessamento affettivo, di
ingigantirne arbitrariamente la portata fino a volerci vedere incluso,
purtroppo, anche un desiderio di possesso fisico inconfessato – e forse un
desiderio ritenuto per forza implicito in quanto lusinga non meno gradita per
un ego acceso di maiuscola vanità
come lo è spesso quello giovanile? Ho paura di sì; e d’altro canto, è un
possibile malinteso, questo, che talvolta nemmeno sfiora la coscienza di un
adulto il cui “amore” si sa rettilineo, pulito, ben altrimenti incanalato; e
quindi un malinteso che, se ad un tratto si rende percepibile, sconvolge lo
spirito poiché si abbatte come fulmine su una mente del tutto impreparata. In
situazioni del genere, a causare qualche spiacevole improvvisa rottura non di
rado interviene proprio l’intima ‘frustrazione’ del più giovane, le cui consce
o subconscie aspettative di qualche gesto più ‘concreto’ si vedono in qualche
modo respinte, troppo a lungo ‘fastidiosamente’ rinviate, in definitiva
disperatamente deluse. Per quel che qui può valere l’accostamento, direi che
Platone ce li illustri molto bene questi connotati della vanità giovanile nel
delinearci la figura di Alcibiade in contrasto spirituale con la lucida e
solida saggezza del maestro Socrate. E, a ben vedere, da questo particolare
confronto dialettico emerge anche la natura di un grave errore umano tutt’altro
che infrequente nell’impostazione di determinati rapporti interpersonali: la
drammatica confusione – a volte decisamente tragica – tra la fatua esperienza
di un innamoramento da un lato, e,
dall’altro, la matura consapevolezza del significato, enormemente diverso, di
un autentico e responsabile impegno d’amore.
In presenza di simili incomprensioni, diviene inoltre concepibile che ogni
miglior tentativo provocatorio di far uscire dall’equivoco la giovane
controparte fuorviata sia destinato non solo a fallire, ma a suscitare
automatica incredulità e istintivo risentimento: se vogliamo, potendosi qui
azzardare un qualche attendibile parallelo, come risulta psicologicamente
altrettanto difficile o talvolta pressoché impossibile far davvero intendere ad
una donna innamorata che la si stima, la si ama
nel senso più profondo e nobile della parola, senza per ciò doverla anche
desiderare carnalmente. Ed allora, per ulteriore analogia, potrebbe persino
ingenerarsi nella coscienza del giovane che si ritenga così ‘mortificato’, quella
estrema reazione psicologica che, in termini generici, definirei “complesso di Fedra”: sia che questa poi si
estrinsechi attraverso un’esplicita ritorsione vendicativa verso il
recalcitrante seduttore, sia – più sottilmente – che si risolva in un intimo
convincimento autoassolutivo di essere stati dopotutto ingenue vittime di
raggiri da parte di un adescatore indegno, alfine smascherato. In questa luce
polimorfa, me la sentirei di infrangere di buon grado (qui come, del resto, già
altrove) quel nudo rigore critico-filologico che la buona norma consiglierebbe,
ma dalla quale una sensibilità meno scientificamente asettica può talvolta
anche legittimamente divergere, per suggerire con discutibile erudizione e
tuttavia con sufficiente umana
sicurezza, che il distico conclusivo del sonetto ventesimo di Shakespeare
riesce allusivamente ad aprire uno spiraglio verso alcune sfumate algebre del
cuore, a un tempo chiare e sfuggenti, insolubili e perciò sostanzialmente
indicibili – ma, se appena accennate, da più parti (e, ahimè, oggigiorno forse
con più scetticismo che mai…) giudicabili solo come ‘invenzioni’ retoriche o
immaginosi alibi di una psiche deviata, bugiarde ‘storielle’ insomma,
semplicemente troppo inverosimili per essere accettate come semplicemente vere.
Credo si possano indovinare quasi tutti questi complessi
turbamenti affettivi fra le righe della lirica di Saba che ho scelto di
proporvi come opportuno termine di confronto con certi dissidi interiori
analogamente enigmatici che serpeggiano qua e là nella poesia del grande
elisabettiano. (Ed un confronto, il mio, tutt’altro che arbitrario, se è vero
che in suo scritto in prosa, della serie “Scorciatoie”, il triestino in realtà
testimonia un vivissimo personale apprezzamento per il modello poetico dei
sonetti shakesperiani.) In ogni caso, a me pare si debba obiettivamente --
senza indulgere alla monomania livellatrice di un freudismo a buon mercato --
saper riconoscere tutto ciò che di puro amorevole altruismo, e di potenziale
incomprensione dello stesso, talvolta sommuove alcune reciproche dipendenze
sentimentali di questa fatta.(3)
Ed ora, riconducibile ad alcune mie precedenti
considerazioni, un’altra non arbitraria parentesi. Quasi cinque secoli dopo
Shakespeare, è interessante notare come la tradizionale ‘religiosa’
subordinazione delle istanze materiali del corpo rispetto a quelle spirituali
dell’anima sia ormai sempre più soggetta ad una sorta di ‘revisionismo’ da
parte non solo dei filosofi di osservanza cristiana, ma persino di alcuni “sacerdoti-scrittori”
cattolici contemporanei (In proposito rimanderei all’affascinante volume “Breve
storia dell’anima”, a firma di Gianfranco Ravasi, edito da Mondatori). In questa prospettiva, mi pare inoltre
particolarmente stimolante – e senza dubbio
appropriata in rapporto a quanto si è osservato circa le convinzioni
personali di Shakespeare – l’argomentazione del rabbino brasiliano Nilton
Bonder. In un ‘curioso’ saggio piuttosto rivoluzionario, uscito appena nel
2000, intitolato “L’anima immorale”, il Bonder, ribaltando la predominante
credenza secondo cui il corpo sarebbe un indocile trasgressore e l’anima
custode naturale della morale codificata, attribuiva piuttosto all’anima delle
proprietà “trasgressive”: ovvero “ribelli” nel senso di saper fieramente
rivendicare per sé una morale autentica contrapposta ad un’etica convenzionale
ipocrita e sclerotizzata. Per radicale rovesciamento, quindi, l’anima --
ripresentata come pura coscienza intima, sorgente di un’infallibile luce
interiore puntata contro gli idoli mentali, comportamentali e sociali di turno
-- diverrebbe portatrice di una “immoralità” che solo paradossalmente può dirsi
tale poiché, di fatto, ha il meritevole compito di smentire e sovvertire la falsa
moralità corrente, che di autenticamente “spirituale” nulla possiede e nulla in
questo senso può pretendere di insegnare.
Secondo questa tesi del rabbino suddetto – tesi che, lo avrete forse
notato, è in buona sostanza quella stessa formulata orgogliosamente dal nostro
nel Sonetto 121 sul quale ci eravamo soffermati -- soltanto lo sguardo libero,
lucido e onesto dell’anima riuscirebbe a stabilire quando l’obbedienza
apparente alla morale è riprovevole doppiezza e la disobbedienza encomiabile
sincerità, mettendo a nudo la genuina lealtà o il tradimento verso l’amore
superiore anzitutto dovuto a se stessi.
Tornando al sonetto ventesimo, qui Shakespeare ci rivela
quanto meno però, senza mezzi termini, per netta contrapposizione qualitativa,
una sua personale predilezione per la costituzione psichica maschile,
secondo lui la sola meritevole di vero amore in quanto, a differenza della
psiche femminile, sarebbe depositaria di una maggiore sincerità e costanza
negli affetti e nei legami del cuore – fattori di affidabilità, questi, che
sappiamo ormai essere così essenziali e preziosi a giudizio del nostro.
(“Fragilità, il tuo nome è donna”, sospira emblematicamente Amleto.) Secondo
Joyce, in questo senso il nostro sarebbe un uomo profondamente ferito e segnato
per la vita dall’imperdonabile tradimento sentimentale
della sua compagna (dalla quale però, per inciso, ebbe tre figli, due bambine e
quel maschietto a lui caro di nome Hamnet, che la morte gli tolse in tenera
età). Di qui, insomma (suggerisce lo scrittore irlandese), come intima astiosa
rivalsa, scaturirebbe la sua ricerca di un ideale d’amore alternativo. Ed,
eventualmente, una ricerca fino a che punto fattivamente
realizzata? Ebbene, nessuno straccio di documento extraletterario esiste
per potercelo smentire o assicurare. Fra
le infinite congetture possibili, ceteris
paribus potrebbe persino valere la
già menzionata tesi di Oscar Wilde, secondo cui il vero dedicatario dei sonetti
sia alla fin fine William Himself, l’autore stesso davanti allo specchio – o
quella fin più categorica di Sidney Lee, secondo cui quella raccolta di liriche
altro non sarebbe che una mera esercitazione letteraria intrapresa come prova
di bravura sulla falsariga di modelli poetici preesistenti, e quindi solo una
grande metafora creativa articolata in situazioni diversificate puramente
immaginarie, nel migliore dei casi tesa a trasfigurare la natura astratta di
certi ideali e contrasti d’amore dall’autore mai direttamente vissuti nella
realtà. E se così fosse? Forse che il semplice bisogno di ‘fantasticare’ in
quella particolare direzione non denuncerebbe, di per sé, la straordinaria
intima importanza di quelle tematiche per chi le abbia sviluppate con tanto
laborioso fervore poetico? Frank Harris, per contro, cercava di ‘dimostrare’
che vera protagonista dei Sonetti dovesse addirittura considerarsi “la dama
bruna”, della cui sensuale bellezza il nostro si sarebbe invaghito con una tale
focosità da rimanerne poi fatalmente fagocitato e colpevolizzato:
un’argomentazione deboluccia e sui
generis che, attendibile o meno, mandava su tutte le furie Lord Alfred
Douglas (sì, proprio il baldanzoso amichetto di Wilde), il quale, in veste di
arbitro saputo, la giudicava in qualche modo ‘offensiva’ e rispondeva subito
per le rime con un’irruenza poco diversa da quella di un Aldo Busi fuori dai
gangheri. Ah, la piccante questione shakespeariana non è meno memorabile di
quella omerica!
Sia come sia, se nell’ambito
di un nuovo ciclo di conferenze in programma avrò modo di occuparmi più
specificamente della figura femminile nell’arte shakespeariana -- presenza di
irresistibile fascino umano e spessore psicologico, sempre decisiva sulla
complessa scena esistenziale come creativamente immortalata dal nostro -- sarà allora altrettanto illuminante
constatare quanto amore per la migliore femminilità si riscontri sul
fronte delle sue indagini teatrali, e quanta sublime nostalgia ne traspare per
un ideale superiore di donna-compagna davvero capace di coniugare in sé philia, genuina e indefettibile amicizia
dell’anima, con un appassionato trasporto dei sensi. E’ indiscutibile che, nei
suoi variegati personaggi femminili (dalla irruente Giulietta alla remissiva,
tenerissima Desdemona, alla sincera, spontanea e incompresa, esemplare e
monumentale Cordelia…per non citare altre innumerevoli figure significative –
Viola, Porzia, Ermione, Perdita, Miranda… -- che tuttavia il non specialista
potrebbe non avere altrettanto ben presenti) lo Shakespeare drammaturgo incarna
molto spesso il sogno di una fulgida magnanimità e d’una generosa forza morale
vittoriosa sul disordine di certe smodate passioni mascoline. Cosa che, però,
nella nuda realtà del quotidiano gli sarebbe parsa una rara evenienza, se non
addirittura una irraggiungibile chimera? Può anche darsi: ogni più alta spinta
idealistica in qualche misura incappa pur sempre, umanamente, nelle trappole
dell’utopia; né forse il nostro potrebbe essere rimasto personalmente immune da
certi eccessi ‘donchisciotteschi’ nei suoi intimi rapporti ideali con la donna,
trovandosi dopotutto a vivere precisamente nella stessa temperie
storico-filosofica da cui scaturì il coevo capolavoro di Cervantes.
Un’idealizzazione nociva in ogni caso forse perché smisuratamente esigente?
“Ogni cima cui si tende è un vicolo cieco, dove ci si sbatte contro lo
sbarramento del cielo”: calzante metafora poetica, di cui mi rincresce non
ricordare più l’esatta paternità. Sta di fatto che dopo, un’ansante arrampicata
verso le vette più elevate da voler caparbiamente espugnare, la successiva
discesa obbligatoria comporta sempre il trauma di una vertiginosa visione del
precipizio sottostante. Tremendamente pericolosa è quella eccessiva
idealizzazione che, desiderando forzare fino alle soglie del sovrumano le doti
spirituali dell’umana creatura, in definitiva ne snatura l’essenza, la
disumanizza disconoscendone ad ogni costo i limiti. Una propensione davvero
temeraria, questa, in cui nel volo sublime è già implicito il tracollo; e la
penserei paragonabile a quella stessa che il nostro ‘melanconico’ Leopardi,
anch’egli assetato di superiore bellezza ideale impervia alle insidie del tempo
e del mondo, nel commentare la propria lirica “Alla sua donna”, con queste
parole -- “alla donna che non si trova” – con più chiara autocoscienza ci
rivelerà.
Comunque si rapportino fra loro tutti questi elementi
messi insieme, credo si tratti di cose destinate a restare in ogni caso
malauguratamente perlopiù incomprensibili (anzi neppure immaginabili, e quindi
alla fin fine inaccessibili sotto il profilo di una corretta
valutazione critica) soprattutto a determinate personalità di natura
aridamente egocentrica, non riscattate da alcun libero slancio del cuore e del
sangue nella loro sterile impostazione dei rapporti umani -- e ripensiamo pure
alla figura, in questo senso alquanto rappresentativa, di un Pessoa: perfetto
istrione ammantato di infiniti fantasiosi travestimenti nella sfera della
creatività artistica, che tuttavia la propria più profonda, rigida maschera
mortuaria inequivocabile se la strappa da solo in quest’altra sua annotazione
raggelante: “Sesso sudicio -- il vero
peccato originale, infinito negli uomini, è nascere da donna. L’unico vizio umano è amare la propria madre.
Felice chi mai la conobbe. Grande chi la uccise.” Di modo che quel temibile “pederasta” di
Shakespeare (come, purtroppo, al Pessoa medesimo sembrava ‘logico’ poterlo
definire e liquidare) può davvero dirsi distante anni luce da questa stortura,
come pure da certe altre non meno drammatiche propensioni autolesionistiche
(alle quali mi era perciò sembrato opportuno accennare) verificabili negli
squilibri caratteriali di artisti pur grandi, grandissimi magari, eccelsi
artefici sotto il profilo eminentemente letterario, capaci di suscitare intense
emozioni estetiche finché si vuole, eppure in definitiva trascurabili come
eventuali ‘maestri di vita’ alla cui parola si desideri anche poter
spiritualmente attingere di tanto in tanto: come scrittori-poeti in grado di
consegnarci anche un minimo legato di qualche effettiva, sicura e perenne,
esistenziale utilità – se non sia quello di insegnarci a diffidare delle loro devianze etiche per allontanarcene con
più saggia cautela.
A tale riguardo, va forse aggiunto che la nostra migliore
tradizione culturale ci indica come da sempre convivano con le arti alcune finalità per così dire utilitaristiche
che, lungi dall’intaccarne il valore in quanto opere di autentica arte,
riescono semmai ad esaltarne le intrinseche qualità. Già evidenziate dai
pensatori illuministi con in testa il D’Alembert, e divulgate in Italia nel
pieno e tardo Settecento, ben lo sappiamo, grazie anche al Parini autore dei
“Principi delle Belle Lettere”, poi recepite dal maturo Leopardi poeta
(assimilate sotto il profilo non solo teorico, come testimonia anche il suo
Zibaldone…), si tratta di finalità purtroppo successivamente guardate dai
creativi e dai critici con crescente sospetto specie da che, nel secolo scorso,
con le correnti del Decadentismo, invalse prepotente il culto estetico dell’
‘arte per l’arte’ -- ovvero il criterio del “bello per il bello” come valore
assoluto. E oggi, in epoca postmoderna,
di quel ‘culto’ che ne rimane? In che misura e in che modo sussiste? Mentre non
è facile poter sostenere che esso sia attualmente sempre orientato verso il
‘bello’ nella stretta accezione che a quel termine forse sarebbe ancora
attribuibile, nelle espressioni creative oggigiorno considerate degne di
chiamarsi “artistiche” è un indirizzo di fondo che sicuramente permane.
Sopravvive come elemento tuttora condizionante nella ricerca monodirezionale
della forma per la forma, o, più precisamente, della cosiddetta emozione per l’emozione da provocarsi in
virtù di qualche nuova tecnica formalistica sempre più originale -- entrambe
(forma ed emozione) tuttavia solitamente concepite come finalità ultime in sé
conchiuse e di per sé giustificabili. Che poi molto spesso né la forma, né il
genere di emozione che essa intende suscitare, siano di fatto minimamente
riconducibili a qualcosa che “bello” avrebbe il diritto di potersi anche
definire, credo sia, però, nonostante tutto, un fattore di importanza relativa.
I canoni estetici non sono mai stati immutabili nel tempo. Ciò che forse
dovrebbe maggiormente allarmarci è, invece, una sopravvenuta incapacità (o
scarsa volontà?) di saper coniugare in modo armonico una forma espressiva che
possa rivendicare il nome legittimo di arte
senza dover per forza rinunciare a quella ulteriore funzione etica di
“utilità per la vita” che dall’arte non è disgiunta e che ad essa non va
necessariamente contrapposta, secondo imperituri insegnamenti di ascendenza
culturale non certo circoscritta al Secolo dei Lumi, bensì tradizionalmente
‘classica’ tout court. Temo che
proprio la graduale malaugurata scissione di questi due elementi essenziali si
sia resa responsabile di quell’inarrestabile scadimento di buona parte della
produzione creativa odierna, specie quella letteraria-poetica, e in due
principali direzioni opposte: da un lato, facendone sempre più un ambìto
strumento di oppiacea evasione dalla
realtà, e, dall’altro, di declamatorio sentimentalismo
pseudopolitico-ideologico-religioso -- forse ancor più antiartistico,
questo, sotto il profilo della forma, oltre che generalmente poco produttivo in
termini etici veri e propri, data la sua sostanziale epidermicità nei
contenuti. In questa particolare luce attuale così grossolanamente rifratta, si
può forse comprendere come uno Shakespeare (ma poco diversamente da un Dante
Alighieri, da un Goethe… da tutti gli altri grandi classici di paragonabile
calibro intuitivo e spessore umano…) tanto più emerga come esimio modello di vero artista con qualcosa di
universalmente vero da volerci e
poterci ancora suggerire con genuina poeticità – ossia perlopiù sommessamente,
indirettamente, allusivamente -- mediante un continuo tacito invito al pensiero
autentico. E credo che, in un artista
così ispirato, sia proprio questo invito a voler pensare nel senso più alto della parola, a costituire il veicolo
‘utilitaristico’ più prezioso per chiunque lo sappia volenterosamente
rintracciare sotto ogni diversa veste formale dall’autore di volta in volta
prescelta; e lo voglia giustamente accogliere per farne oggetto di libera
meditazione altrettanto proficua. Che poi da parte nostra l’adesione ultima non
sia sempre totale, che qua e là essa avvenga magari anche solo per una sorta di
concordia discors o discordia concors con le idee
dell’autore, è un fatto che talvolta può
logicamente verificarsi; anzi, è forse in fondo più costruttiva l’eventualità
che nel rapporto con la parola di uno scrittore, tanto più se profondamente
stimato, si insinuino anche occasionali perplessità, o persino fratture con le
nostre stesse convinzioni personali. Tutto ciò semmai accresce e vivifica la
funzionalità dei suoi stimoli in relazione al nostro intimo sentire -- a
condizione, però, che quell’ “utile” così trasmessoci per le vie dell’arte lo
si soppesi e lo si giudichi con un pensiero per l’appunto autentico, ovvero effettivamente disposto a misurarsi in tutte le proprie intime dimensioni, a
proiettarsi senza remore in tutte le
direzioni possibili per poter contemplare tutte
le umane cose concepibili come se mai nessuna di esse gli fosse umanamente
estranea, e quindi soprattutto -- sempre, in ogni caso -- con la massima umana sincerità verso se stesso. E questa straordinaria opportunità di
apertura al pensiero autentico direi che Shakespeare ce la possa offrire forse
più di tanti altri; lo può avendo avuto il raro vantaggio di essere ad un
tempo, oltre che poeta e filosofo, abilissimo attore ed egregio drammaturgo di
professione: un uomo eccezionalmente capace, cioè, di calarsi in prima persona,
con tutto il vero pathos ugualmente necessario, sia nei più disparati ruoli
fittizi interpretati sulla scena, sia in quelli artisticamente ideati in base
ad una sentita appartenenza e sofferta partecipazione al grande teatro umano da
voler rappresentare. Come si fa a non essergli riconoscenti!
E agape, il vertice
assoluto della triade d’amore? Quanto spazio occupa in questa ampia spirale di
valori attribuiti ad Eros da Shakespeare? E’ evidente che ogniqualvolta il
“love” trascende i rapporti bipolari fra amanti o amici per abbracciare la
sfera del sovraindividuale -- ossia
facendosi amore altruisticamente rivolto non più a singole persone, ma ad un
intero popolo, una nazione, ad un ideale di patria che popolo e nazione
rappresentano – siamo in presenza di un
sentimento già maggiormente sublimato, già interpretabile in termini di agape. Nei drammi storici del nostro in particolare,
laddove si delineano forme di sentito impegno etico da parte dei migliori
governanti, o per contrasto esempi di irresponsabilità civile, di tirannico
autoritarismo… è chiaro che il sentimento ora più o meno assecondato, ora in
vario modo calpestato, è sostanzialmente un love di questa natura. E tuttavia agape, per chiamarsi
veramente tale, necessita di un ulteriore processo di purificazione: deve poter
riflettere un impulso ancor più altruistico, deve potersi proiettare di là da
ogni confine geografico e geopolitico, deve poter comportare un profondo
desiderio di concordia assoluta fra gli uomini paragonabile alla musica cosmica
derivante da quell’amore “che move il sole e l’altre stelle”. Desiderio che tuttavia deve anche tradursi in
una volontà pratica di benevolenza risanatrice, attraverso un
coinvolgimento diretto di se stessi, un qualche intervento attivo capace
di approdare ad una concreta rigenerazione. Nello scioglimento del “Racconto d’Inverno”, il nostro già
prefigurava una palingenesi ideale in cui tutti fossero tornati ad essere se
stessi ed in rapporto armonico con il prossimo: un contesto che andava oltre la
vita terrena e che rimandava la fine del dolore e della violenza sulla terra
all’instaurarsi di una sorta di bontà universale, quando – come dice il
protagonista Leonte – gli uomini si mostrassero in grado di “un pentimento
sincero, seguito da una vita tutta pura.” Una prospettiva talmente utopica
quaggiù da richiedere il soccorso di poteri soprannaturali. Di qui forse l’idea
di una missione ispirata alla magia bianca, coadiuvata dal potere sovrumano
delle fate, come quella che Shakespeare ne “La
Tempesta” cronologicamente di poco posteriore, per l’appunto sceglierà di
affidare al grande teurgo Prospero. La
critica è ampiamente concorde nel riconoscere che questa apertura per così dire
trascendentale del nostro avviene entro l’orizzonte dell’esoterismo alchemico,
delle correnti rosacrociane, e dell’occultismo scientifico di cui Shakespeare
sarebbe stato pienamente partecipe anche sotto l’influsso delle teorie di
Giordano Bruno da lui conosciute tramite le traduzioni di John Florio. Quanto,
però, questo carattere magico-esoterico degli ultimi drammi di Shakespeare sia
legato al tentativo di dare anche una risposta ai conflitti politico-militari
dell’epoca dell’avvento di Giacomo I dopo la morte di Elisabetta, ce lo
illustrano molto bene i saggi specialistici di Frances Yates in materia. La grande domanda sulla quale il dibattito
permane aperto è tuttavia questa: che
cosa può rivelarci “La Tempesta” per
quanto concerne le intime conclusioni di Shakespeare riguardo al valore ultimo della sua missione come uomo e
come artista? In un apprezzabile
poemetto dedicato ai personaggi della Tempesta shakespeariana, W. H. Auden
rispondeva scetticamente così: art makes nothing happen – l’arte è uno
strumento incapace di modificare sul serio le cose di questo mondo, è illusorio
sperare diversamente. Lo scetticismo di
Auden in realtà trapelerebbe anche dal messaggio di Shakespeare, come
ricavabile da una lettura dell’ultimo monologo di Prospero: “Sono finiti i
nostri giochi. Questi attori erano solo fantasmi e si sono sciolti in aria
sottile. E come l’edificio senza
fondamenta di questa visione…questo stesso globo svanirà nell’aria senza
lasciare traccia di sé…noi siamo di quella stoffa di cui son fatti i
sogni…ecc.” Attraverso questa ormai
celeberrima peroratio di Prospero,
Shakespeare sembrerebbe considerare alla fin fine inutili le maschere e gli
attori di Amleto, inutili le metamorfosi che un tempo aveva considerato
necessarie per rimanere se stessi, nel complesso inconsistente il proprio credo
esistenziale come fin qui l’abbiamo delineato. Ma è così? O meglio è solo così?
Prospero depone la bacchetta magica e chiude il suo ultimo monologo
congedandosi dai propri amici, emblematicamente quindi persino dalla parte migliore
del mondo, e di un mondo per giunta purificato, per “vedere di calmare un
poco questo mio malessere.” Che cosa può significare ritirarsi in questo
modo dopo aver di fatto compiuto la giusta missione che si era prefisso,
un’opera obiettivamente riuscita se esaminata nei suoi esiti effettivi?
Pronunciando queste strane parole metterebbe in dubbio la possibilità stessa di
uscire dalle impasse della vita di relazione se non attraverso un
ritorno in se stessi? Certo non gli
dispiace aver voluto in ogni caso compiere quell’opera a favore del prossimo,
aver provato fino in fondo l’estasi di agape; e tuttavia ora sente di doverne
uscire. E perché? Quasi per una drammatica certezza di non poter condividere
dopotutto con gli altri quell’armonia che per loro ha conseguito?
Un’ambiguità, la sua, che non può non far meditare. Lo strano “malessere” di
Prospero forse è, presumibilmente, quello di chi abbia purtroppo compreso come
la verità migliore di noi stessi rimanga inattingibile agli altri, e che
possiamo esperirla soltanto all’interno del nostro essere. Domanda: è, per
caso, lo stesso solipsismo dei Sonetti, emblematicamente riassunto nel Sonetto
121, dove si trovava la più radicale affermazione di sfiducia nel prossimo come
fonte di sviamento dalla verità di noi stessi? Nel capitolo dell’Ulisse che
abbiamo citato, Joyce sottoscrive questa unica interpretazione,
esprimendola con queste curiose metafore: “Signore aiutami a credere e a
discredere: chi aiuta a credere? Egomen
[sic]. Chi a non
credere? L’altro.” Ma si è anche
autorizzati a desumere che Shakespeare/Prospero, avesse invece intuito
esotericamente come l’iniziazione, se e quando avviene, sia una conquista
eminentemente privata, un’esperienza interiore in cui il prossimo, per quanto
eventualmente beneficato, illuminato dalla bontà radiante che promana da un
certo operato, non ha possibilità di un’ulteriore, più intima condivisione. E’
questa in fondo anche la condizione di certi santi pervasi di amore-carità come
il poverello d’Assisi e di altre poche anime elette, toccate dalla Grazia,
predestinate a concedersi illimitatamente non solo per altruistico amore
dell’uomo, ma per un ‘innamoramento’ totale verso tutti gli esseri, anche i più
piccoli e insignificanti, che ci vivono intorno. Fosse anche verso un filo
d’erba qualsiasi. (E come non voler ricordare questa medesima sublime intuizione di Pirandello, metaforicamente
illustrataci nella novella “Canta l’epistola?” Se ve la ricordate, ne traspare
una sete d’anima che, nel caso specifico, persino sfidando i dogmi della
fede istituzionalizzata, in qualche modo rende più autentica la sacralità di
quel genere di rapporto individuale del protagonista con il divino attraverso la natura rivisitata in
un gesto d’Amore maiuscolo da ‘tutti quanti’ – ovvero, purtroppo, da parte della
‘normale’ comune umanità – definibile come folle, assurdo, impossibile, logico
frutto di un palese squilibrio psichico, e nulla più.). In effetti si tratta di
un impulso affettivo troppo elevato, troppo puro, troppo insolito per essere
davvero capito; e tanto meno ricambiato nella stessa misura qualitativa dagli
umani beneficiari di un fuoco redentore pressoché inconcepibile su questa
terra.
E però come si comporta, come reagisce Prospero in questa
particolare condizione spirituale per molti versi paragonabile? Perché può
ritenersi significativo quel turbamento enigmatico che lo assale e che
egli non nasconde, che permane ad affliggerlo nonostante il buon esito della
grande opera al bianco? Forse in quanto, da ultimo, proprio quel “malessere”
serve al drammaturgo per configurarci colui che ne è vittima come
spiritualmente inferiore alla grande
santità illuminata: in qualche modo tende a voler suggerire, cioè, che il
teurgo non ha ancora del tutto imparato a donarsi per la semplice necessità
di farlo senza corrispettivi possibili, senza soffrire minimamente del proprio destino di ‘amante’ per forza
incompreso, fatalmente isolato. Stando però tutti qui i connotati più autentici
del nobile volto di eros-agape, ciò che sminuisce la statura del buon
mago shakespeariano è in definitiva proprio questo residuo ostacolo interiore:
questa sorta di estrema resistenza
che gli impedisce di riconoscere ed accogliere dolcemente, come elemento
diversamente santificante, la propria inevitabile estraneità al processo di
redenzione indotto dal suo immenso impegno d’amore. In chiave iniziatica, il
non casuale “malessere” di Prospero, quindi (solo pochi critici credo abbiano
saputo coglierlo in questa precisa luce) anche per l’uomo Shakespeare – l’uomo
ormai nella sua piena maturità esistenziale e artistica – l’auspicabile
inveramento di agape basato su una forma di completa abnegazione felicemente
abbracciata senza sussulti ribelli, né fragili rimpianti, viene relegata
anch’essa fra le meravigliose sempiterne edeniche utopie. Anch’essa, non senza
strappare al nostro un amaro sospiro, gli si rivela un eccelso, angelico
anelito d’amore di fatto inconsistente poiché vanamente perseguibile come uno
dei tanti cosiddetti paradisi in terra: o, dopotutto, fosse pure un prodigio
momentaneamente raggiunto, pur sempre effimero e impalpabile come un lembo di
quella stoffa di cui sono fatti i bei sogni -- e di cui la natura umana
medesima è tuttavia intessuta.
Non sembrerebbe improprio voler concludere con questo
pensiero di un illustre storico francese moderno, Jean Delumeau, autore di un
trittico intitolato “Une histoire du paradis”: “Il paradiso lassù sarà forse l’attuazione di quei sogni folli
in mancanza dei quali questa nostra vita quaggiù sarebbe un inferno.”
Preferisco farlo, invece, restituendo la parola ad Umberto Saba che, in
un’altra commossa lirica intitolata “Quasi
una moralità”, con più semplice, quasi francescano trasporto dell’anima,
così sceglie di trasfigurare sensibilmente il misterioso miracolo terreno di eros-agape -- precario forse quanto la
vita stessa sul pianeta, eppure inesauribilmente rinnovato per nostro intimo
quotidiano conforto “finché il sole risplenderà su le sciagure umane”:
Più non mi temono i
passeri. Vanno
vengono alla
finestra indifferenti
al mio tranquillo
muovermi nella stanza.
Trovano il miglio e
la scagliola: dono
spanto da un
prodigo affine, accresciuto
dalla mia mano. Ed
io li guardo muto
(per tema non si
pentano) e mi pare
(vero o illusione
non importa) leggere
nei neri occhietti,
se coi miei s’incontrano,
quasi una
gratitudine.
Fanciullo,
od altro sii tu che
mi ascolti, in pena
viva o in letizia
(e più se in pena) apprendi
da chi ha molto
sofferto, molto errato,
che ancora esiste
la Grazia, e che il mondo
-- tutto il mondo –
ha bisogno di amicizia.
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(3) NOTA da collocarsi alla fine della SECONDA PARTE della conferenza
Successivamente alla data di questa mia conferenza, mi è
per caso capitato di vedere proprio questa lirica di Saba (insieme ad altre
poesie del suo “Canzoniere”, che ne costituirebbero una più enigmatica
premessa) sottoposta al vaglio critico di un valente letterato trentenne, già
ricercatore presso facoltà universitarie statunitensi alacremente interessate
(e come no…) ad individuare e meglio approfondire un certo filone ‘gay’
nell’ambito della letteratura italiana, specie quella moderna-contemporanea.
Con ostentata perizia e sicumera (ma essendo egli forse ancora troppo giovane di anni per poter cogliere con
serena introspezione alcuni virtuosi e virilissimi paterni sentimenti che solo
l’età matura riesce talvolta a rendere davvero comprensibili? o forse perché
anch’egli già abbacinato da un sessuocentrismo ossessivo, allo stato attuale
ovunque dilagante e purtroppo obnubilante specie fra le più giovani
disincantate generazioni dei tempi d’oggi?...), questo commentatore si picca e
si compiace (tacciando, fra l’altro, di ormai inammissibile ‘pruderie’ passatista alcuni famosi
critici nostrani quali Debenedetti, Mengaldo, Brugnolo…) di avervi finalmente
ricavato una ‘prova concreta’ di effettive pratiche omoerotiche da parte del
poeta triestino. E all’uopo, prevedibilmente, fa ampia leva sul risaputo fatto
biografico che questi aveva nutrito un importante affetto personale (senza mai
farne alcun mistero con i suoi familiari -- anzi, nemmeno in certa sua accorata
corrispondenza con la figlia Linuccia, aggiungo io…) verso un giovane amico
(peraltro figlio di amici di famiglia già molto vicini e cari al poeta…)
giudicato particolarmente meritevole di stima, incoraggiamento in campo
letterario, ed occasionali altri appoggi in varie situazioni. Del resto –
sentenzia il commentatore -- i contenuti esplicitamente omoerotici del romanzo
postumo di Saba (“Ernesto”) sono ormai una incontrovertibile rivelazione
autografa di quelle pratiche segrete. Ma è un verdetto, questo, da doversi
necessariamente prendere come oro colato? Tentiamo di metterlo quantomeno in
discussione; e proviamoci con un approccio critico indiretto alla materia,
procedendo come per cerchi concentrici.
Anzitutto cerchiamo di sbarazzarci con opportuno realismo
di quel ‘romantico’ luogo comune secondo cui, in determinate circostanze, gli
adulti sarebbero sempre i malvagi tentatori/persecutori, e i giovinetti gli
adescati/perseguitati. Dopo di che, una volta stabilita l’assoluta plausibilità
di un’eventuale inversione di queste parti, proviamo a figurarci un siffatto
rapporto dove i ruoli convenzionali risultino di fatto scambiati; e
immaginiamolo pure in chiave eterosessuale, essendo qui indifferenziabile la
sostanza bruta, per poi riflettere sui possibili esiti dell’iniziativa di
seduzione come intrapresa da una ipotetica giovincella unilateralmente smaniosa
di favori sessuali. In tal caso, non può forse ragionevolmente succedere che anche
i famosi ‘turbamenti del giovane Toerless’, ribaltandosi, divengano quelli
provati da un adulto dal cuore
‘giovane’, ossia ancora puro, incontaminato e davvero innocente? Intendo così
suggerire come, pur in completa assenza di qualunque cedimento pratico, le
semplici presumibili provocazioni messe in atto in vario modo e con varia
maliziosa insistenza verso il concupito restio, possano ben rivelarsi capaci,
se non altro, di innescare in un individuo adulto sensibile (per quanto fermo
nei suoi principi e di fatto moralmente incorruttibile) un certo inopinato immaginario erotico, ancorché privo di
sviluppi materiali ai fini della seduzione. Magari del tutto nuovo per l’uomo
così provocato, un immaginario gravido di improvvisi strani stimoli mentali
senza precedenti – e però stimoli ‘proibiti’ umanamente non inconcepibili,
direi, e concepibilmente forse tanto più conturbanti quanto più fortemente
anomali risultassero nel tipo di trasgressività prospettata. Improvvisi
turbamenti imprevisti e imprevedibili, diverse strane potenzialità con fermezza
morale escluse dalla coscienza e respinte dalla volontà come cose inattuabili,
e ciò nondimeno subliminali nuove presenze psichiche e forse talmente vive da
potersi anche riversare in un surrogato
onirico autonomo, vuoi di per sé autorisolutivo, vuoi desideroso di
assecondarsi spaziando innocuamente per le eteree contrade della creazione
artistica. Così come i Sonetti di
Shakespeare non possono (lo precisavo già nel contesto della mia conferenza) in
definitiva ritenersi una sicura
confessione autobiografica di cose realmente avvenute, credo che per le stesse
ragioni sia ozioso dare per scontato che il romanzo di Saba costituisca
un’autodenuncia implicita e senza appello.
Opera non motivata da aspettative di qualche pubblico
riconoscimento letterario, come invece può anche dirsi delle liriche del bardo
inglese, non credo sia da escludere che, per il poeta triestino, queste
divagazioni narrative tendessero a configurarsi, piuttosto, come una sorta di
urgente memorandum interiore: quasi
un estremo bilancio consuntivo dei ricordi, ricostruiti e narrativamente
amplificati, di alcune ‘tentazioni’ magari anche di fatto subite, e magari già
accolte nell’intimo quali ‘evenienze’ di diversa irrealizzabile voluttà – com’è
naturale che possa anche accadere ad una qualunque creatura umana appena dotata
di una minima risonanza interiore aperta all’affabulazione. E l’affabulazione –
sia essa naturale discorso quotidiano con la propria anima, sia che si effonda
nella parola più ambiziosamente elaborata – in quanto flusso disinibito del
pensiero affidato al riflusso di se stesso, può anche farsi liberatorio
specchio deformante di ‘perpetrabili’ peccati mai commessi, o di visionarie
esaltazioni della psiche di per sé ‘scandalose’ quanto potrebbero giudicarsi
quelle mistiche spontaneamente ‘narrate’ senza diaframmi da Teresa D’Avila,
Agostino, Giovanni della Croce…come, sul fronte opposto, dal Divin Marchese
perversamente gratificato da allucinate rievocazioni delle più incredibili e impraticabili
forme di abbrutimento. Credo che il ricordo di un forte turbamento interiore,
sia che questo trascini verso vette celesti o baratri infernali, non possa mai
essere del tutto rimosso, ma solo temporaneamente differito; e che un simile
ricordo sia alla fin fine destinato a riemergere dall’oblio con veemenza
maggiore qualora quel turbamento di fondo tragga magari origine da
un’esperienza esistenziale tanto più incisiva e memorabile quanto meno la si
era potuta a suo tempo razionalmente presagire. Di modo che non è forse anche
lecito ipotizzare, con pari credibilità, che queste cosiddette ‘confessioni’
postume di Saba altro non rappresentino, dopotutto, che il perentorio rigurgito
di ineliminabili memorie da non potersi più a lungo differire? Da doversi
coraggiosamente riprendere per affidarle alfine ad un libero – e per ciò stesso
veramente liberatorio – intervento di riaffabulazione? In questo caso
specifico, pagine dall’autore certamente considerate abbastanza significative
per non dover essere subito appallottolate e distrutte, e però forse anche
ritenute di assai minor valore sotto specie dell’arte: ad ogni modo, non tali
da volersi estrarre dal doppio fondo di una scarpiera e consegnare candidamente
al semplicismo interpretativo di una critica sovente strabica anche quando
vorrebbe pretendersi non più farisaica. “Sopporta che la tua astinenza dalle cose sia mal giudicata”,
consigliava Epitteto, “essa sola è conciliabile col dominio di te stesso…”
Quindi, per piacere: quella sensibile, ‘difficile’ lirica
di Saba, così shakespearianamente irta di imponderabili incognite
psico-affettive che nemmeno alla parola di un genio è dato di saper sempre
compiutamente illustrare, cerchiamo almeno di volerla leggere con l’umiltà di
un cuore pulito e pulsante, piuttosto che con una mente ingombra di sussiegosa
malizia e per di più sorprendentemente impaludata in quella nuda univocità dei
sensi letterali da cui rifugge ab aeterno
l’autentica poesia. (Tralasciando ogni altra successiva buona fonte di
riferimento di pari autorevolezza, basterebbe volersi riguardare in proposito
quel celebre “Trattato” del Beccaria, non a caso già tanto stimato e consultato
dal Leopardi filologo, dove si espone la teoria stilistica delle “idee
accessorie” – ovvero, in termini attuali, della polivalenza semantica
soprattutto insita nelle parole usate con immaginazione in sede connotativa,
cioè eminentemente nelle opere di poesia.)
Ma, simile sprovvedutezza critica a parte, se una buona volta la
smettessimo di voler infangare con morbosa ottusità, a qualunque prezzo, ogni
più elevato, delicato e lodevole impulso dell’animo umano! Ci mettessimo,
invece, a smascherare con miglior coscienza le micidiali ipocrisie dove realmente esistono? E andrebbero
eventualmente snidate a spada tratta con quel corretto, programmatico
‘antipacifisimo’ che persino il verbo evangelico non esita a proclamare; e lo
facessimo, se non altro, per evitare che certe squallide doppiezze nascoste si
trovino, purtroppo, dappertutto accomunate con irresponsabile disinvoltura ad
alcuni riposti, puri valori umani da
esse ben distanti e discretamente coltivati. Ma perché sembra diventato quasi impossibile saper distinguere
rettamente il nero dal bianco? e quindi saperli giustamente condannare o
apprezzare per quelle contrapposte realtà che sono? Forse in quanto certi
profondi sentimenti dell’animo umano
si stanno ormai talmente rarefacendo da essere divenuti inimmaginabili? C’è da
crederlo ormai – e attribuirne in buona parte la colpa anche ad un certo
continuativo stupro mediatico che oggigiorno viene subito da troppe ‘allegre
vittime’ sempre più consenzienti per così dire, sempre più felicemente disposte a farsi corrompere lo spirito attraverso un
cervello disattivato in cui il dio Sesso legifera da gran dittatore e non concede
più il minimo spazio a nessun’altra divinità, che non sia eventualmente quella
di un concomitante strabocchevole sentimentalismo
da due soldi, sciorinato dappertutto a ogni piè sospinto.
E allora domanderei, con un disperato sorriso: ci sarebbe
da stupirsi se domani, sulla base di qualche (acuta) indagine
storico-biografica puntualmente condotta secondo ottime nuove teorie
(aggiornate a fil di miglior ‘logica’ contemporanea), qualcuno ci raccontasse
che nel legame di Giacomino Leopardi con l’adorato fratello Carlo, e con
l’idolatrato Giordani, e con l’inseparabile Ranieri in seguito, ci sia stata
una frequentazione un po’ troppo stretta, troppo intensa, troppo esaltata per
non risultare ‘evidentissimo’ indice di (inconfessabili) inclinazioni contro
natura? O che l’eccessiva dedizione di Ungaretti verso tale Mohamed Sceàb (un
giovane arabo! che Giuseppe si
trascinò addirittura appresso a Parigi!!!…) non potesse non nascondere qualcosa
di assai meno ‘limpido’, o meglio di decisamente ‘perverso’? E, di questo
passo, buonanotte ai suonatori: che San Giovanni Bosco era un ‘ovvio’ pedofilo refoulé? O, più accurata esegesi
(all’americana?) consentendolo, che la ‘innaturale castità’ abbracciata da
Francesco d’Assisi, poniamo, e magari anche quella dello stesso Gesù di Nazaret
in persona, non potessero non celare sicure tendenze omofile represse, ovvero
(grazie al cielo…) freudianamente sublimate? Quantomeno interessanti, in tal
senso, certe ‘ipotesi’ di fatto già considerate en passant nel recente libro di Augias/Pesce intitolato “Indagine
su Gesù”. Stiamo però tranquilli: se per assolvere Francesco da un inverosimile
‘peccato di continenza’ qualcuno potrà magari provvedere a segnalarci ben
presto qualche sua ‘presumibilissima’ occasionale scappatella nella boscaglia
umbra con la vispa amichetta Chiara, occorre ormai ringraziare il bravo
romanziere statunitense Dan Brown se non altro per aver salvato i ‘sani
insopprimibili istinti naturali’ – dicasi la ‘normale’, ancorché maiuscola, Virilità -- del Cristo,
presentandocelo come indiscutibile
amante della Maddalena! E…buon padre terreno oltre che figlio del Padre
celeste? Perbacco: vero Uomo a tutto tondo, capace non solo di copulare
mascolinamente come vero Dio comanda, ma anche di perpetuarsi degnamente
attraverso una ‘divina’ progenie in carne ed ossa. A che cosa non ci si abbassa
ormai pur di assecondare con ogni mezzo la prurigine già spudoratamente
‘tele-guidata’ delle masse, e – manco a dirsi -- vendere altre parole su parole
a peso d’oro. Con una punta di umorismo pirandelliano e tanta silenziosa
amarezza, ci si può chiedere: oggi come oggi, in un mondo sempre più loquace e
assordante, sempre più compiaciutamente impegnato a parlarsi addosso ad ogni
ora del giorno e della notte, ha ancora senso sperare che una qualunque verità
-- realmente degna di questo nome -- non finisca quantomeno ignorata,
sommersa e dispersa nel fluente chiacchiericcio generale? O, peggio,
addirittura calpestata, umiliata, paradossalmente bollata e derisa come ‘evidente’
bugiarda retorica? Confusa anch’essa fra le imperanti smaccate astuzie
sofistiche di gorgiana memoria, dove tutto e il contrario di tutto può
impunemente essere fatto valere: così,
non di rado purtroppo, nelle aule di giustizia (e talvolta persino con
l’ostentata fierezza di certi legulei per la propria superiore abilità
dialettica professionale…), così nelle controversie spicciole della normalità
quotidiana.
In una società dai valori percepibilmente capovolti, i cui
giornali e telegiornali riferiscono, fra qualche piccantissimo ‘giallo’ di
cronaca e qualche gustosissima nuova ricetta di cucina, in ogni caso con
‘equilibrato distacco professionale’ (salvo effimere esclamazioni di rito, o
sorridenti battutine di prammatica) anche la notiziola incidentale di “monelli”
(isolati birbantelli cattivacci?) che si fanno scoprire spontaneamente disposti
a prostituirsi senza scrupoli né timori, al solo scopo di raggranellare il
danaro necessario per pagarsi i debiti dei giochi d’azzardo e per tenersi
aggiornato il credito sul proprio ‘sacrosanto’ telefonino; in una società
ottenebrata, i cui fervorosi appelli al ‘pacifismo’ sembrano non rispecchiare
altro che una generale aspirazione a soddisfare, il più tranquillamente
possibile, i ‘sacrosanti’ bisogni del rimpinzarsi lo stomaco di cibo superfluo,
e del divertirsi senza sosta, e del drogarsi in tutte le maniere per sfuggire
ad ogni forma di matura responsabilità, e infine dell’accoppiarsi ad ogni primo
stimolo senza inutili remore (e, nella migliore evenienza, del volersi anche
riprodurre con il ‘sacrosanto’ proposito di poter insegnare ai propri pargoli
che, indiscutibilmente, quella filosofia
esistenziale è in assoluto il miglior traguardo mai raggiunto nel migliore dei
mondi possibili? e quindi la sola lezione di buona vita pacifica che d’ora in
poi valga la pena di tramandare ‘amorevolmente’ di generazione in
generazione?…), sì, credo proprio che in una società così radicalmente
stravolta, un alternativo e depurativo imbrigliamento dei sensi ormai non possa
che presentarsi come la più assurda, incomprensibile, anzi senza dubbio la più
ipocrita, spaventosamente inumana, delle scelte comportamentali su questa terra
– cioè, per ribaltamento, il più nero dei peccati contro la vera religione e la
giusta pace dell’umanità. E quanto di
mortifero nella pratica delle quotidiane relazioni interpersonali sembra
perlopiù discenderne, è che l’eventuale desiderio di avvicinare sensibilmente
il prossimo con qualche sincero fraterno slancio di più edificante umanitarismo,
di bel altra natura e ispirazione, ha ormai scarsissime possibilità di farsi
realmente capire per quello che realmente è, e accogliere per quello che
vorrebbe poter onestamente essere.
Sicché, per dirla in termini concreti ed espliciti: un
uomo ‘diverso’, ovvero estraneo al branco, che oggigiorno accostasse una donna
senza darle immediata prova di volerla ‘virilmente’ catapultare su un
divano-letto ben molleggiato (meglio se di marca Chateau d’Ax, e magari dopo
una preliminare bevutina e sniffatina, e qualche ardimentoso corpo a corpo
nella vasca dei barracuda? …), per sedurla ‘regolarmente’ alla pecorina, ovvero
non solo su due piedi, ma a quattro zampe come odierna legge dispone, specie se
quell’uomo non rientra in quella ‘rassicurante’ categoria di maschietti che
sfilano sfoggiando all’occhiello sempre nuove procaci fidanzatine, con le quali
vistosamente si sbaciucchiano senza posa per ogni affollata via del mondo,
potrebbe forse ormai non essere catalogato, con automatica certezza, come un “gay…uuuh,
tipico!…da scommetterci…”? E magari suggerire, per giunta, ‘logici’ corollari
di questo tenore: “Ma… quel suo modo di fare così premuroooso…un po’ troppo gentile… con mio marito, invece?... Eh, no: qui gatta ci cova. Se costui pensa di
fregarmi, si sbaglia di grosso. Fuori dai piedi, al più presto!” E forse che
non si presterebbe ad analogo trattamento chi si sentisse per caso umanamente
incline ad avvicinare uno o più uomini ‘problematizzati’ (tanto per rifarsi a
certa ipocrisia eufemistica corrente), nel tentativo di soccorrerli con qualche
eventuale seme di saggezza, con benevola istintiva solidarietà, non dico di
matrice ideologica, o religiosa, semplicemente umana? Potrebbe ancora evitare di essere implicitamente reputato “un altro di noi, cuccù!…solo ben
mascherato…a caccia di avventure per stupide
vie traverse…”? Ho paura di no. E se quell’individuo purtroppo incompreso, così
contrariato e intimamente mortificato, si imponesse mai di voler spiegare
meglio a qualcuno degli uomini medesimi le reali, del tutto disinteressate,
profonde motivazioni interiori di quella sua particolare assidua ‘vicinanza’?
Penso proprio che verrebbe (nella meno infausta delle ipotesi) gelidamente
‘liquidato’ senza una parola e con una chiara riserva mentale di questo genere:
“Uhm…quante storielle inutili: se questo furbastro insiste a non volersi
scoprire, sarà perché dopotutto non sono il suo tipo. Cretino! Non sa cosa si
perde. E chi il mio fascino irresistibile non sa apprezzarlo, sciò, via, alla
larga!” Ricordo che, una quarantina d’anni or sono, un mio compagno
d’università, un ragazzo di rara levatura intellettuale e morale,
ideologicamente convinto e attivamente impegnato nel sociale quant’altri mai,
ebbe a dirmi un giorno, con un amaro sorriso: “Sai, il fatto è che, se ti
vedono frequentare una comunità di giapponesi, e partecipare regolarmente con
passione alle loro riunioni di lavoro e di famiglia, qualcuno prima o poi si
premura di annunciare in giro che, secondo lui, a guardarti meglio in faccia,
hai senz’altro gli occhietti fatti a mandorla; mentre qualcun altro sarà forse
già corso a fare opportune ricerche genealogiche per documentare che, effettivamente, hai almeno qualche goccia di
sangue nipponico nascosta nelle vene.” Per incoraggiarlo, giocosamente gli avevo
risposto: “Ciccio, ma che cosa vuoi che importi?
Non te le ricordi le famose parole di Otello? ‘Chi ruba il mio buon nome mi
strappa un bene che m’impoverisce, ma che in nessun caso lo arricchirà.’ Più o
meno così. Perciò, siccome non gliene viene proprio nulla in tasca, dopo un
po’si stuferanno e lasceranno perdere. Ma, nel frattempo, può essere persino divertente vederli sguazzare nelle loro
brillanti congetture, no? Senza quella gustosa sfida reciproca forse ci
annoieremmo tutti -- anche tu, anch’io… Ad ogni modo, metafora per metafora, la
dentatura di un mastino napoletano potranno mai dirla uguale a quella di un fox
terrier?” Ebbene, penso di dovermi
tardivamente ricredere: a circa quattro decenni di distanza, mi rendo conto
che, oggi più che mai, un’opinione pubblica capillarmente influenzata sia
persino capace di ‘dimostrare’, con tanto di certificazione Google/Wikipedia
alla mano, che un affettuoso cucciolo di delfino e un vecchio coccodrillo
affamato sono creature della stessa identica specie. E le conseguenze sulla
qualità e la durata di certi legami affettivi qualche volta possono rivelarsi
persino tragiche, anziché solo spassosi giochetti allo zoo del bel mondo
sfaccendato e spettegolante.
Grazie a questa sorta di stolido, pestilenziale e contagioso
determinismo sessuocentrico, malauguratamente rinfocolato dalle infinite
rubriche cosiddette ‘psicologiche’ che pullulano sui rotocalchi più in voga,
quanti rapporti umani dei più genuini e costruttivi oggigiorno non sembrano
destinati a naufragare, purtroppo, scioccamente e irrimediabilmente? C’è da
volerselo domandare con la mano sul cuore. Del resto, il premiatissimo film “Shakespeare in love” non credo abbia
recentemente contribuito ad illuminare di vera luce le fondamentali virtù
etiche del nostro, anzi. In un’epoca
che la realtà forse non sa più osservarla se non a testa in giù, che il
comandamento biblico-evangelico “non commettere atti impuri” si tenda a volerlo
leggere anch’esso capovolto? “Non astenerti mai
dal fornicare! E peste ti colga, se ci provi a fare il puritano schizzinoso:
nemmeno il Padreterno lassù te lo perdonerebbe!” Già: ti sputerebbe addosso con
quel famoso “vaff…” di un certo Grillo Straparlante uscito da una corrusca
fantasmagoria del maghetto Harry Potter?
Può darsi che la fede non smuova le montagne nemmeno più là in alto; ma
perlomeno con l’innegabile coraggio, se non con la distruttiva vis polemica di quel maiuscolo grillo
informatore informatizzato, ritroviamo qualche volta la forza di abbandonare il
vile menefreghismo (quello che Leopardi chiamava espressivamente “spassione”) e
di spalancare le fauci per dire semplicemente pane duro al pane raffermo, e
ostie alle sacre ostie del tabernacolo. Con la Speranza (vana virtù teologale?)
di poter invitare amorevolmente ad
una più pacata presa di coscienza almeno qualcuno di quei troppi che sembrano
precipitati in una tremenda trappola dove le convulsioni parossistiche di una
febbre letale sono scambiate per i sintomi inconfondibili di una grande salute,
alfine riconquistata e alfine assaporata con orgoglioso anarchismo e con il
plauso dell’universo intero, ivi compreso, ovviamente, quello del suo Creatore.
E quale migliore divinità, più comoda e accomodante di questa, ormai
opportunamente riplasmata a perfetta somiglianza e misura del piccolo
grand’uomo della nuova postmoderna strada intergalattica? Sì, perché proprio
l’esuberante Salute ritrovata non manca nemmeno di rinvigorire torme di giovani
e giovanilisti ‘papa boys’ d’ogni
ceto, d’ogni colore, d’ogni nazione e d’ogni credo (appena reduci da qualche
liberatoria orgia collettiva consumata nel cuore della natura?... qualche
promiscua kermesse della vera grande
amicizia, punteggiata di vuoti a perdere e di preservativi ancora fumanti di
calda gratitudine, aaah, per un amabilissimo, finalmente evoluto e comprensivo,
davvero rappresentativo vicario di un Cristo Superstar, che con paterno amore tutti vuole abbracciare e di tutto
festosamente raccoglie?…così, purtroppo, si preferisce
credere per autoassolversi senza desueti scrupoli di coscienza…); e, in ogni
caso, una Salute che spinge cotanto ‘esercito della salvezza’ ad invadere con
esultanza qualche antico battistero di fresco arredato in scenografico stile
avvenirista, per poter ufficialmente osannare l’icona restaurata di un buon Dio
finalmente svecchiato e dal volto umano riconoscibile: finalmente degno di
essere ammesso sui nuovi altari delle rinnovate chiesette del 2000, e
allegramente ringraziato a suon di sdilinquiti motivetti e coretti sempre bene
intonati. Ma, ahinoi, soprattutto un Dio raffigurato come docile padre-mammo,
sempre mollemente passivo e permissivo, e vergognosamente travisato perché
ritenuto addirittura ‘complice’ sicuro, affidabile, disponibile, felice di poter essere invocato a
bacchetta nei tribunali quotidiani come massimo testimone di spudorate teatrali
menzogne da spacciarsi per limpida innocenza ingiustamente offesa.
Già tanti anni fa, il ‘laico’ Montale – quasi un novello
Amleto alle prese con una realtà “fuori squadra” -- meditava con queste
simboliche metafore poetiche intrise di arcana veggenza: “…la bussola va impazzita all’avventura/e il calcolo dei dadi più non
torna/…in cima al tetto la banderuola affumicata/gira senza pietà.” D’altro
canto, più recentemente, con pessimismo un po’ meno rinunciatario, osservava il
mussulmano Edward W. Said nei suoi saggi sociologico-letterari, intitolati “Umanesimo e critica democratica”,
“….poiché la storia non è mai finita o compiuta, si danno sempre casi di opposizioni
dialettiche non conciliabili, non trascendibili, incapaci di raggiungere
davvero una sintesi più alta e più nobile.” Forse è giusto che sia dura a
morire la fiducia in un futuro carico di imponderabili dialettiche se non
altro, fortunatamente, aperte. Ma sperando di non essere caduti, con questa
vibrante tirata, nello stesso vaniloquio delle invettive facilone e delle
faziosità satiriche oggigiorno onnipresenti, spesso fondate su qualunquistiche
generalizzazioni livellatrici o visioni filosofiche totalizzanti, entrambe
sicuramente riprovevoli -- e augurandoci di non aver nemmeno lasciato
erroneamente intendere di aver qui approvato in blocco tutti quanti i
particolari tratti della fisionomia di Eros come delineataci nell’opera
letteraria del grande elisabettiano -- dinanzi alle clamorose incoerenze etiche che, purtroppo,
balzano dovunque agli occhi e sembrano sempre più caratterizzare gli
spensierati tempi nostri, come trattenersi dal voler perlomeno gridare al
cielo: “Viva la tua areligiosità, caro Shakespeare! Dio ti benedica, se
dopotutto, da ateo o agnostico che tu sia stato, non ti appigliavi a nessun
vuoto simulacro metafisico per scagliarti contro le svergognate ipocrisie umane
con il più rigorosamente cristiano
dei propositi e degli impegni.”
*******
(FINE NOTA 3 -- con
cui si conclude il testo della SECONDA PARTE della conferenza)
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