La Perdita
ovvero
Rozzolanno ’ngimma lo
fravecone[1]
I Guivini sono il terreno
che più ci piace, tutta la nostra famiglia vi trascorre gran parte dei giorni dell’anno.
La parte che guarda al fiume Alento è di papà, mentre quella che è più vicina
al paese è di Zì Nicola. Le due
proprietà differiscono per la loro conduzione: la nostra viene arata coi buoi
ogni due anni, è ricca di piante da frutto e vi si semina il grano. Papà vi ha
costruito un sistema di cunette e di solchi per drenare l’acqua piovana che
specialmente d’inverno è tanto abbondante da causare danni. La parte superiore,
invece, è da tanti anni incolta, non l’ho mai vista arata ed è ricca di querce
maestose che però hanno alcuni rami secchi ed altri verdi ma infestati dal
vischio.
È domenica, la scuola è un ricordo sfumato, stao[2] ’ngimma
nu fravecone mentre mio padre con grande fatica zappa la terra antistante
il pozzo per ricavarne l’orto. Il sole dardeggia dal cielo azzurro e riscalda
l’aria che risuona di un chiassoso e monotono frinire di cicale. Cerco
ripetutamente di trovare delle piccole pietre per fare una casetta. Ma ogni
tentativo edile fallisce, tuttavia non demordo e ricomincio ogni volta d’accapo.
Alla base del fravecone,
una spaarognola[3]
verde e rigogliosa attrae il mio sguardo. La scruto dall’al-to al basso per
individuarne l’emergenza dal terreno alla ricerca di turioni teneri. Ma ahimè,
la loro stagione è già trascorsa e sono diventati piante adulte non più commestibili.
Sopra di me, due cornacchie attraversano l’aria emettendo
sonori cra – cra e poi scompaiono alle spalle re lo Tempone. Papà ogni tanto alza lo sguardo verso di me per controllare
che sto facendo e notando che me ’nnartoleio[4]
a cercare sassi ’ngimma lu fravecone,
continua tranquillo il suo lavoro. Abbassa velocemente e con maestria la zappa
che s’insinua nella terra dura e compatta sollevandone ad ogni colpo una gliemba[5].
Essa è ancora umida e in quella rivoltata nei giorni precedenti si sono formate
alcune pozze d’acqua in cui si specchia il cielo. Un alito di vento ne increspa
la superficie, disegnandovi onde lente ed irregolari.
Parlo tra me e me ininterrottamente, cerco di inventare qualche
parola nuova e quella che mi riesce meglio, pur non avendo alcun significato,
è: «artcolica». Ogni nuova scoperta la pronuncio ad alta voce sul sottofondo
delle cicale. Tutto questo vano soliloquio infantile viene interrotto verso
mezzogiorno dall’arrivo di mamma. Ci fa disporre alla base del pero spadone che
sormonta la fraveca[6]
di delimitazione dei campi, quindi prende il cuofino[7] che
porta sul capo e lo depone sull’erba. Accanto vi poggia la spara[8] che ne
ha permesso il trasporto lungo la via accidentata che dal paese l’ha condotta
fino a noi e che poi continua fino al fiume. Papà ha già sospeso
momentaneamente il suo duro lavoro. Mangiamo e parliamo tra noi allegramente…
Ho un sussulto, non trovo la posizione adatta, mi giro e mi
rigiro sotto il lenzuolo finché mi sveglio e mi accorgo che le parole del mio
sogno fanno parte solo del mio passato lontano, della mia infanzia. La mia
giovinezza e la mia maturità le ho trascorse spesso lontano dai luoghi
originari della mia lingua natia, perdendola. Da un po’ di tempo sono ritornato
al paese e cerco di farla rivivere con le mie sorelle, che hanno sperimentato
vicissitudini simili alle mie. Ma oramai non sappiamo rendere in italiano, la nostra
lingua attuale, tante sue parole ed espressioni. Ne intuiamo il senso di
massima, il contesto, ma non il significato esatto. Essa se ne è andata come se
ne sono andati i nostri cari, lasciandoci soli e diversi ma siamo fieri di loro
e delle nostre origini.
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