"[...] Doveva disfarsi di
quei seccatori che lo sfinivano, prima che fosse troppo tardi: lo avrebbero
applaudito, lo avrebbero portato via e tenuto in vita, fatto nascere ancora e
ancora, a brancolare per altri millenni di avvistamenti e svenimenti. Gli
avrebbero di nuovo concesso la possibilità di parlare, a costo di indispettirlo
fino alla bestemmia. Poi, in seguito, gli avrebbero donato la libertà. Si
sarebbe dibattuto in quella miseria, le promesse celesti altrove, un passato
abbagliante da insultare. La beffa era chiara. "Avremmo potuto carezzare
parole d'oltraggio finché il mistero gocciava dalle nostre labbra, quando la
tristezza del corpo giaceva nella carne come un sorriso...". No, non era
abbastanza prostituire ricordi fino al vicolo cieco per annullarne i confini,
privarsi della proprietà privata detta responsabilità. Una volta fuori, tutto
svanito. Ciò che odiava era il suo unico mondo, e il perdono infetta sempre il
tempo che muore. Continuasse pure a parlare di nuvole e panico: soltanto acqua
alle caviglie, da lì in poi, ché annegare in quella pozzanghera sarebbe stato
un miracolo. Doveva riflettere. Rinnovarsi per la purezza? Il solito inganno,
fingere di creare e di stupirsi, spingere lo sguardo in là per assicurarsi di
non poter più tornare indietro. C'era chi credeva si trattasse di malaria
[...]" (Rien ne va plus, 2009)
Coucou Sèlavy!
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