Di Elena Refraschini
Coutchsurfing.org/people/elenaritaly
Sono le 5,40 e, dopo qualche ora di buio che ha
ricoperto le dune dell’Altipiano Iranico, il sole sta per alzarsi di nuovo
sull’austera stazione dei treni di Shiraz. Alle nostre spalle solo un paio
d’ore di sonno: il nostro compagno di scompartimento, Parviz, così timido e
gentile da sveglio, si è trasformato in un trattore Lamborghini durante la
notte.
Come sempre
succede a bordo di queste “case viaggianti” (così le chiama la scrittrice
Luciana Castellina, che di viaggi in treno se ne intende), conoscere Parviz è
stato uno dei tanti doni offerti da questo tipo di avventure itineranti, ancora
più prezioso perché in Iran: quasi non ci eravamo nemmeno presentati, ma già
avevamo collezionato un invito a Delhi, dove Parviz insegna letteratura
persiana all’università, e a Baton Rouge, in Louisiana, dove vive la sorella (è
strano quanto la croce di qualcuno possa essere la salvezza di qualcun altro:
pensavo al mio host a Menphis,
conosciuto l’anno precedente, che era fuggito dalla natia Baton Rouge appena
raggiunta la maggiore età).
Per questo, forse, amo viaggiare in treno: è quasi
un’esperienza mistica, sempre sospesa tra lo spazio ristretto e forzatamente
intimo delle cuccette e quello esterno, infinito e costantemente mutevole.
Ancora stanchi e assonnati, io e il mio compagno
(marito, per le autorità iraniane, e con uno o due figli in cantiere, per
Parviz) ci dirigiamo verso il gruppo di tassisti e, con l’aiuto del nostro
fedele amico di scompartimento, strappiamo un buon prezzo per una corsa verso
la nostra destinazione finale: casa di Arash (come il leggendario arciere
persiano), che ha risposto con entusiasmo alla nostra richiesta di ospitalità e
che ci sta aspettando, sveglio, in un giorno lavorativo, sull’uscio di casa nel
quartiere periferico di Kolbeh.
Arash è un trentottenne dall’aria colta e serena, che
ha arredato in modo semplice ma attento la casa che sarà “nostra” casa per i
prossimi giorni: è evidente la sua passione per i viaggi, dato che in ogni
angolo troviamo souvenir da diverse parti del mondo, dalla Malesia
all’Australia. Ma è in Italia che Arash ha lasciato il cuore, e infatti
troneggia fiera sulla parete di soggiorno una versione puzzle della Gioconda,
pezzo d’arredamento quantomeno discutibile ovunque ma non qui, perché qui è
solo un omaggio che fa tenerezza.
“La vostra camera è qui”, ci dice mentre ci conduce
al suo studio e agli invitantissimi materassi stesi a terra. “Se volete usare
il computer, è già acceso. Tornerò a casa assieme a Tahareh verso le 15.”
Arash va al lavoro e noi piombiamo in un meritato
riposo, con le chiavi di casa in borsa.
Al risveglio, in cucina troviamo la tavola imbandita
e un semplice bigliettino, “enjoy your
breakfast!”.
And we
did:barbari, il delizioso pane
iraniano servito con formaggio di pecora, insalata di cetrioli e pomodorini,
yogurt con confettura di ciliegie fatta in casa e l’immancabile tè da bere
attraverso una zolletta di zucchero posta tra i denti. Mentre laviamo i piatti,
tornano i nostri ospitanti: Tahareh – una donna silenziosa e dai modi gentili
che non si toglierà mai il velo dalla testa, neanche in casa – aveva fatto la
spesa per il pranzo: kebab con mirza
ghasemi, ovvero crema di melanzane (e io pensavo che in Iran, durante il
Ramadan, avrei almeno perso qualche chilo di troppo…).
Durante il pranzo conosciamo meglio la metà femminile
della casa, che non mangia con noi perché, appunto, è Ramadan: Tahareh (“pura”
si die) non condivide la stessa passione di Arash per i viaggi, ma ama la
cultura, e infatti segue da diversi mesi un corso di inglese in città (si
emoziona un po’, quando le dico che in Italia sono un’insegnante di inglese),
mentre da anni si dedica allo studio della poesia di Hafez insieme ad un gruppo
di amiche. Uno dei motivi per cui abbiamo deciso di fermarsi a Shiraz è, in
effetti, la sua storia: oltre a essere stata capitale durante la dinasia Zand,
Shiraz ha dato i natali a due dei maggiori e più amati poeti persiani, Sa’adi e
Hafez,
Non basterebbe un libro intero per spiegare cos’è la
loro poesia per gli iraniani, ma posso almeno ricordare rapidamente che,
durante Shab-e Yalda (il solstizio d’inverno) oppure il Noruz (ll capodanno
persiano), dopo cena ogni famiglia prende la propria copia del Canzoniere di Hafez e ne legge un
componimento, che si crede essere una previsione per l’anno che verrà. Chiunque
in Iran sa recitare a memoria almeno qualche verso di un ghazal di Hafez, e sarà contento di farlo per voi. E’ per questo
che coglliamo la palla al balzo e chiediamo a Tahareh se ha voglia di
accompagnarci a visitare i mausolei dei due poeti, che attirano a Shiraz
migliaia di visitatori ogni anno.
Arrivati al mausoleo di Hafez, abbiamo occasione di
fare un po’ di poeple watching mente
attendiamo che si accorci la coda all’ingresso: le donne, qui, sanno essere
eleganti anche quando devono vestirsi in modo modesto e con colori scuri. Ormai
siamo in Iran da qualche settimana e distinguiamo subito le donne delle classi
alte: indossano indumenti di tessuti pregiati, per quanto coprenti, e precisi
nel taglio; il velo dona grazia al viso, che guarda dritto e e sicuro davanti a
sé, ben truccato e senza problemi di pelle (l’acne sembra essere un problema
molto diffuso qui, specialmente tra le adolescenti). La visita al mausoleo
sembra una tappa obbligata per tutti, ricchi o meno.
Entrati nel mausoleo, ci attende uno spettacolo quasi
surreale: un incantevole giardino (sapete che la parola “paradiso” deriva
dall’antico persiano “pairi daeza” ,
“giardino chiuso da mura”?) al centro del quale sorge il padiglione che
protegge il luogo del riposo del celebre poeta. Mentre gli altoparlanti
diffondono versi del suo Canzoniere, vediamo
uomini e donne che sussurrano i componimenti in modo raccolto, altri che baciano
la parete marmorea della tomba, altri ancora che vi appoggiano la fronte.
“Questo è un vero e proprio luogo di pellegrinaggio”,
mi spiega Tahareh, “anche se purtroppo non piace al governo, perché apre le
menti. Vedi?”, mi chiede indicando uno spazio vuoto accanto a noi. “Qui
dovevano piantare nuovi alberi, ma hanno lasciato il vuoto”.
Da qui ci spostiamo al mausoleo dedicato a Sa’adi,
che ci colpisce per la sua severità: è ormai calato il sole, e si raggiunge
l’entrata solo dopo aver percorso diverse scalinate. L’altissimo colonnato
incute allo stesso tempo timore e rispetto, ma non sembrano farci caso le
centinaia di gattini che vivono nel suo giardino, forse cullati anche loro dai
dolci suoni della poesia. E’ ormai buio, e Tahareh può mangiare in pubblico:
decidiamo così di sederci sul prato gustando una prelibatezza di Shiraz, il
“gelato” faludeh.
Arrivati a sera, ci occupiamo della spesa per la
cena: halim bademjan (crema di
fagioli, manzo e melanzane) e ash-e-sabzi
(minestra di Shiraz con riso, carne d’agnello e varie verdure) – si capisce
che mi piacciono le zuppe mediorientali? – senza dimenticare gli zulbia bamieh, tipiche ciambelle
iraniane che sono il dolce preferito di Arash. Compriamo il tutto da barilotti
bianchi in mezzo alla strada e, nonostante
il contesto, il loro profumo è davvero invitante. Durante il tragitto verso
casa, a proteggerci c’è il medaglione del Profeta Alì, che sussulta sofferente
a ogni buca, dallo specchietto retrovisore del nostro taxi.
Una volta a casa, Tahareh emerge dalla camera dopo un
sonnellino con il prezioso volume in mano: il Canzoniere di Hafez. Aprendo il libro a caso, decide di leggerci
una poesia, i cui suoni ci rapiscono trasportandoci in un mondo fatto di vino,
amici e melodia. Tahareh spiega a noi e al marito che questa poesia parla
dell’importanza del vivere appieno ogni giorno, di amre il presente senza
preoccuparsi del passato o del futuro, di amrae le persone con cui si è in quel
momento. La ragazza ha ormai gli occhi lucidi: “Ogni volta che sono triste o
felice vado alla tomba di Hafez e leggo una sua poesia, mi aiuta sempre”.
Siamo tutti commossi, e mentre ci scambiamo sguardi
un po’ imbarazzati comprendo ancora una volta il senso di viaggiare con il
Couchsurfing: si condividono momenti indimenticabili nel più anonimo dei
quartieri, con le persone più riservate, sotto lo sguardo vigile e sereno della
Monna Lisa.
avventurosa profondità culturale
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