Villa Sarthein-Angeli-Istituto PadriCanossiani |
Piazza Municipio, in fondo alla via si trova la casa dai muri di pietra |
Quando
mi portarono a visitarla, avevo poco più di cinque anni, eppure ne ricordo
ancor oggi il suo iniziale aspetto.
Era
una casa costruita con grosse pietre a vista, che formavano muri maestri dallo
spessore di quasi un metro. Questo dava modo di stare al fresco in estate e
caldi in inverno. Ricordo che la porta d’ingresso era sovrastata da un
pergolato di legno, rivestito di tralci di vite, dal quale pendevano grappoli
d’uva ancora acerbi, poiché eravamo all’inizio dell’estate.
Nel
suo interno, la casa si trovava in pessime condizioni, in quanto era stata usata da un contadino, e parecchio malmessa.
La soffittatura era formata da travi di rovere a vista, purtroppo in seguito
contro-soffittate.
Vi
era anche una porticina esterna, che affiancava la porta d’entrata principale.
Fabbricata questa artigianalmente in noce massiccio, si apriva con una grossa
chiave. Diedi qualche mandata, e rimasi colpita dalla stranezza di quel che
notai all’interno, poiché all’epoca era stato adibito a stalla e lo evidenziava
il fienile che si trovava al piano di sopra. Le pareti erano rivestite da rossi
mattoni pieni, ma la particolarità che mi incuriosì, era il soffitto a cupola
che, all’epoca, notai solo sopra l’abside della chiesa parrocchiale.
Salii
fino in soffitta, un grande stanzone diviso in due da una bassa arcata, tanto
che un adulto doveva chinarsi, per oltrepassarla. Incise sull’apice della
parete divisoria, vi erano delle lettere: MDCXCV e chiesi, a chi mi
accompagnava, di dirmi cosa significassero. Mi rispose che si trattava di
numerazione romana e la decifrò come milleseicentonovantacinque, aggiungendo che doveva trattarsi della data
in cui fu costruita la casa.
Di
fronte alla costruzione rurale, si affacciava il retro di quello che fu il
palazzo del conte Sarnthein – oggi trasformata in seminario e convitto dei
Padri Canossiani – ne conseguì che la casa acquistata da mamma e papà,
all’epoca doveva esserne la dependance, molto probabilmente la scuderia dei
cavalli con annessa casa colonica.
Fu
necessario intervenire con un’adeguata ristrutturazione, per rendere quella
casa abitabile. I miei genitori, inesperti in architettura, hanno creduto
giusto far demolire la cupola di mattoni, per creare una stanza supplementare
al piano di sopra, distruggendo così qualcosa di antico e bello, per
trasformarlo in altro di più utile. Ultimati i lavori di muratura, idraulica ed
elettricità, poco alla volta la casa fu ammobiliata, permettendoci così di
utilizzarla per le vacanze estive.
Il
pergolato di legno putrescente fu demolito, al fine di ampliare il giardino.
Anche il melo, al suo centro, fu abbattuto per vetustà.
Un
tuffo nel passato, ripescando dai miei ricordi la storia di queste mura che
hanno visto le generazioni della mia famiglia nella gioia e nella sofferenza,
nell’infanzia e nella maturità, in un turbinio di emozioni che ancora affiorano
alla memoria.
Vi
trascorsi lì la mia infanzia, l’adolescenza e la gioventù, giocando nel bel
giardino con la compagnia degli amici che avevo conosciuto nel corso degli
anni.
Adiacente
alla casa dei miei genitori, vi era quella di una famiglia numerosa, ben sette
figli. Due di loro, Bobo e Doretta, avevano circa la mia età, ed io ero ansiosa
che terminasse la scuola, per partire verso i monti e ritrovare i miei compagni
di giochi. Ricordo ben poco quali fossero i nostri divertimenti, di certo i più
comuni come nascondino, bandiera, campana, ma rammento molto bene l’altalena
che pendeva dal loro balcone, formata da due corde terminanti con un’asse di
legno, che fungeva da sedile. Quando finalmente ebbi il permesso di salirvi,
dondolai con tanto vigore, che l’asse si spostò ed io finii con la testa
sull’acciottolato del cortile, prendendo una botta tale, che quasi svenni.
Questo non m’impedì di salirvi per molti anni ancora.
Bobo
– a quell’epoca, aveva otto anni come me – era un bel ragazzino bruno, snello e
sempre abbronzato, ma dispettoso come nessun altro, e anche un tantino
crudele. Le rondini costruivano il loro
nido sotto lo spiovente del tetto, e lui si divertiva, con una lunga pertica, a
distruggere i nidi dentro i quali vi erano deposte le uova, se non addirittura
già i pigolanti rondinini. Mi si stingeva il cuore, nel vedere quegli ovetti
sfracellati al suolo, o i corpicini dei piccoli, ormai senza vita. Inveivo
contro di lui, apostrofandolo duramente: - Cattivo! Odioso! Antipatico! Bobo
ridendo, mi rispondeva che sotto i nidi delle rondini si andava formando una grande
sporcizia, dovuta alle eiezioni dei rondinini. Oggi mi chiedo: se dovessimo
uccidere tutti quelli che sporcano, uomini o bestie, si provocherebbe
un’ecatombe! Lo scorso anno ho ricordato a Bobo, ormai nonno, quel che
combinava da bambino. Mi ha risposto di non rammentare d’aver mai agito a quel
modo. Avrà rimosso i ricordi o compreso che la natura va rispettata, poiché ora
le rondini tornano ogni primavera, e i nidi sono integri, sotto i tetti delle
nostre case. Infanzia, questa sconosciuta!
Quel
giardino riecheggiava di voci di bimbi, dei miei coetanei e mia, in seguito
quelle di nipoti e pronipoti. Era un ambiente pieno di allegria, di risa e
anche di pianti per qualche caduta, sbucciatura alle ginocchia, graffi causati
da gatti o rosai. Era l’ideale palcoscenico della nostra vita.
Quando
nacque la mia primogenita, anche Gigi, uno dei fratelli di Bobo, divenne padre.
Le nostre due bambine crebbero insieme, divennero amiche e a loro volta mamme
di due maschietti, Quel giardino divenne così lo sfondo davanti al quale si
alternarono i tempi di molte generazioni, testimone di commedie e tragedie
recitate da nonni, figli e nipoti.
Venne
il momento in cui i miei genitori poterono usufruire della pensione, e si
trasferirono definitivamente in quella casa, dove li andavo a trovare con il
marito e i bambini, che a loro volta trascorsero lunghe vacanze a casa dei
nonni. Per tutti, compresi i figli di mia sorella, fu vero divertimento: corse
e salti lungo la scala di legno che portava al piano superiore, dove si trovava
la zona notte, e palloncini colorati appesi alla cancellata, per festeggiare i
vari compleanni. Ma non occorreva aspettare i compleanni, per far festa tutti i
giorni, solo per il piacere di condividere ore serene tra di noi, o con gli
amici e conoscenti che quasi quotidianamente passavano davanti al cancello,
chiamavano e noi li invitavamo a prendere un caffè o un gelato, conditi da
piacevoli chiacchierate. Parlando di tutto e di niente, le ore trascorrevano in
lieta compagnia fino a che non ci accorgevamo che il sole si nascondeva già
dietro i monti e imbruniva.
Uno
dei miei passatempi, durante il soggiorno estivo nella vecchia casa di
campagna, era sferruzzare con gli aghi da maglia o creare con l’uncinetto
piccoli oggetti da regalare per Natale alle mie amiche. Avevo la netta
impressione di vivere nel tempo che fu, come una vecchia signora dei secoli
scorsi, anche se ero giovane. L’atmosfera bucolica, la vetustà della casa, il
silenzio, le antiche tradizioni rispolverate per l’occasione, mi riportavano,
come d’incanto, all’indietro nel tempo,
Seduta sotto l’ombrellone, o sulla sedia a
sdraio, lasciavo che i raggi del sole mi accarezzassero, dorando l’epidermide,
e osservavo i cirri che, sospinti dal vento, parevano tante vivaci scolarette
col grembiulino bianco, uscite festose da scuola. Erano momenti di assoluto
silenzio durante, i quali sentivo di appartenere, in totale fusione, alla natura stessa.
Il
piacere di raccogliere i prodotti dell’orto era impagabile: fagiolini, carote,
pomodori, cetrioli e zucchini e insalata, per non citare il resto, ben sapendo
che ogni ortaggio era coltivato in maniera del tutto biologica. La confezione
di marmellate e conserve, con le eccedenze di quelle che non erano consumate
fresche, si trasformava in un piacevole passatempo, nelle giornate piovose.
La
casa, punto d’incrocio tra le varie statali che conducevano a Cortina,
piuttosto che a San Martino e al Passo Rolle, ci permetteva gite di un giorno,
per sciare in inverno, e ad impegnarci in
faticose ma corroboranti scarpinate in estate, percorrendo i sentieri
tracciati dal CAI. Le pedalate in bicicletta e le passeggiate lungo il corso
del fiume, configuravano quella casa come un
luogo ideale per la villeggiatura e un punto di riferimento costante per
tutta la famiglia.
Anche
dopo la scomparsa di mio padre, continuammo a recarci in quel luogo durante il
periodo estivo, finché mamma non si trasferì definitivamente da me, e chiudemmo
a malincuore la nostra vecchia “scuderia”.
Da
qualche tempo c’è chi suggerisce di vendere quella proprietà - troppo lontana
da raggiungere in auto, e malservita dai mezzi pubblici. Sistemata in modo adeguato alle esigenze di
una vita in campagna, non offre le comodità cui oggi siamo tutti abituati:
niente connessione adsl, e per questi tempi di grande comunicazione
informatica, il senso d’isolamento telematico grava sui giovani nipoti e
pronipoti.
E’
pur vero che mantenere una casa non più abitata, comporta spese non
indifferenti, ma è altrettanto certo che se fosse posta in vendita, si
cancellerebbero i legami familiari, affettivi e di appartenenza al paese
d’origine, non avendo più alcun motivo di recarvisi.
Quei
muri, che custodiscono antiche vestigia, risalenti a quasi trecentoventi anni,
e ricordi più recenti, appartenenti a tutti i membri della famiglia, restano il
solo legame che mi riporta all’infanzia, ricordi-fantasma che aleggiano tra
quelle mura, silenziosi e tanto amati, ectoplasmi che prendono forma, si
ridestano come da un lungo sonno, ogni volta che spalanco il cancello, ed entro
in quella dimora che è stata della mia famiglia per quasi sessant’anni.
Se
quella casa dovesse essere demolita, o venduta a terzi, nasconderei il mio
cuore tra le sue pietre, e diverrebbe sasso esso pure.
Il bellissimo romanzo “Seppellite il mio cuore
a Wounded Knee”, di Dee Brown, un pellerossa che sa bene quel che scrive,
conferma il mio pensiero, Si tratta di un capolavoro che racconta la vera
storia della conquista del West non dimenticando di restituirle il sapore e gli
odori delle persone che l’hanno vissuta.
Sono
odori, sapori e suoni incancellabili. Si affrontano molti sacrifici per
conquistarsi un nido, fossero anche solo quattro mura di sassi, e poi si decide
senza nessun rimpianto, di rimuovere il passato, senza tener conto che con quei
muri, si distrugge anche il vissuto tra di loro, personale e dei nostri cari.
Un legame troppo stretto perché possa essere spezzato da un contratto di compra
– vendita.
Farò
il possibile per oppormi con tutte le forze. Dipingerò sul mio volto i colori di
guerra, sfodererò l’ascia e, come un guerriero pellerossa, lotterò fin che mi
sarà possibile, per difendere ciò che conserva un lungo spezzone di vita, quel
legame indissolubile con il passato colmo dei ricordi più cari.
Danila
Oppio
Danila, solo noi che abbiamo lasciato il paesello possiamo intuire queste emozioni, ben per questo io da qualche anno ritorno a Fonzaso non solo per vacanze ma per rimodernare la casa alla mia naniera perche' fin che ci saro' io la casa restera nella mia famiglia e sono anche fortunato perche' anche miei figli pur essendo nati in Canada sentono un'attirazione grande per la casa in Fonzaso e anche loro mi anno garantito che la tengono fino a che potranno. In questi giorni il piu' vecchio Adriano si trova la' con la moglie e sono molto contenti e parlano gia di ritornarci prima possibile siamo come le rondini, lasciano il nido ma ogni anno ci ritornano Ciao...! brava Ivo
RispondiEliminaGrazie per il commento, Ivo! hai ragione su tutto, e tu sei fortunato a non aver trovato ostacoli di sorta, riguardo alla casa. Evidentemente tua sorella Rina non ti ha messo i bastoni tra le ruote! Sono stata a Fonzaso a cavallo tra luglio e agosto, un paio di settimane, ed ho trovato sempre giornate di pioggia. peccato! Ci ho portato anche mamma che ha 94 anni e voleva rivedere la sua casa. Un abbraccio a te e famiglia
RispondiEliminaDanila