di Maurizio Chierici 12 agosto 2014 (da
Il Fatto Quotidiano)
Quei bambini in fuga dal massacro dei califfi neri. Madri alla
ricerca dei piccoli dispersi nel caos. E si muore di sete sulle montagne rocce
e sabbia. L’acqua arriva col paracadute del buon cuore americano.
I loro occhi smarriti ci guardano dall’Iraq ogni sera
in tv. Ci guardano i bambini di Gaza e i
bambini siriani accampati sotto tende bollenti. E i minori che sbarcano come pacchi a Ragusa dove
l’ex ministro La Russa protesta perché sistemati in una palazzina che
“istituzionalizza l’accoglienza”: fa male alle tasche degli italiani e fa male
(a suo dire) soprattutto ai ragazzi. Peggio di così cosa poteva capitare ai
piccoli naufraghi alla deriva senza madri e padri spariti chissà dove?
Negli
ultimi anni 50 milioni di persone hanno lasciato 30 paesi bruciati da guerre, fame, fanatismi. Le agenzie Onu improvvisano scuole dove i bambini imparano
qualcosa, proprio qualcosa fra traslochi e nuove fughe. Fra qualche anno non so
come faranno i nostri figli a organizzare affari e incrociare commerci con
l’altra metà del mondo cresciuta così. Avevamo ribatezzato il 900 secolo
dei profughi senza immaginare la catastrofe del secolo
nuovo. Nella cronaca delle macerie quotidiane tornano i burattinai di sempre:
missili in regalo dagli ayatollah devoti di Teheran agli integralisti di Hamas; da Mosca a Damasco bombe, aerei e veleni da
sciogliere nell’aria mentre Washington trasforma Israele nella quarta o quinta potenza militare del
mondo ed Erdogan, sultano turco, si mangia le dita per aver armato gli
jihadisti dei massacri nell’illusione di rovesciare Assad di Siria, sempre lì
con Putin alle spalle.
Furbizie della realpolitik per spingere i banditi
dell’integralismo delirante nella tentazione di una supremazia sulla quale
giocano i padrini. Violenze di oggi che tutti i figli – non importa se scappano
o giocano in vacanza – tutti, pagheranno domani. Eppure nessuno rinuncia alla
speranza. Nei giorni della disperazione ricordo tre anni fa il racconto
di Margarethe Von Trotta mentre girava La sorella, film mai arrivato in Italia: gli incubi di
una bambina dalla Berlino nazista alla Berlino anno zero. Fuori la guerra e le
rovine, poco da mangiare, stracci per vestiti. Finestre senza vetri, muri
coperti di muffa. Per scaldarmi dormivo abbracciata alla mamma. Cambiavamo
spesso casa tirando il carretto da una strada all’altra.
I Von Trotta erano scappati da Mosca alla caduta
dello zar. Si ritrovano in Polonia e le tragedie continuano. Storia della
madre: amore e l’abbandono quando sta per nascere la prima figlia che le è
impossibile trascinare in una fuga pericolosa. La lascia in adozione e scappa.
Nella vecchiaia ricorda come un’ossessione la “piccola perduta”. Margarethe
l’accarezza immaginando il delirio. Quando la Von Trotta vince il leone d’oro
di Venezia con Anni di piombo riceve una
lettera da una strana signora che l’ha vista in tv: “Sua madre si chiamava
Elisabeth? Veniva da Mosca? Vorrei parlarle. Credo di essere sua sorella…”.
Margarethe sorride, fastidi della celebrità. Appuntamento in un caffè di
Wiesbaden e il cuore si ferma. Occhi e colori della madre, stessa ingenuità,
stessa allegria: proprio la sorella che non sapeva d’avere. Quante madri e
bambine che non diventeranno Von Trotta stanno scappando nel Kurdistan o
scavano fra le macerie di Gaza? Chissà se ritroveranno la loro storia perduta.
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