Il link qui sopra vi riporta all'articolo scritto da Tommaso Mondelli e Danila Oppio, e pubblicato ieri su:
Per comodità, lo riporto anche qui di seguito:
Il gioco degli equivoci
(o come violentare la lingua italiana)
Dialogando con un amico scrittore e poeta, plurilaureato, un paio
di lauree in filosofia e lettere moderne, oltre ad una terza in giurisprudenza,
volendo alzare il mio morale un poco a terra, così si è rivolto a me:
Vorrei intavolare un discorso di tutt’altro
tipo con te, sì proprio con te ed essenzialmente tra poco. A parte il fatto che
è così e se così non fosse, come sarebbe o potrebbe essere?
Ammettiamo per ipotesi che le cose sono
più cose che non cose, faremmo lo stesso, quello che facciamo? Le parole sono vocaboli
e servono a dire tante cose e proprio perché ne dicono tante, che cosa
dicono? Diciamo solo che più avanti le cose saranno messe in un
certo modo, e diremo certe cose, ma se le cose fossero ancora in modo
diverso, cosa faremmo? Questo è il problema.
Allora perché lui, seduto
alla sedia e assorto nei suoi pensieri, tamburella le dita sulle carte,
invece di scrivere? (Si riferisce a una gif animata postata sul blog che
illustra una mia poesia).
Lasciamo lui e
permettiamo che le dita tamburellino all’infinito.
Noi parliamo delle
cose, ne facciamo delle altre, perché possiamo fare solo quelle, e non delle
altre per un motivo bel preciso, che conosciamo perché conoscevamo e
conosceremo. Allora, cosa dico a fare quello che sto dicendo?
( Questo racconto a
Rina non si può mandare, vero?).
Certo direbbe che siamo fuori di melone, come minimo!
Le parole servono a qualcosa. Se non
avessimo le parole a disposizione, non potremmo nemmeno parlare di quello che
non facciamo.
Il mio drink serale
ancora non l’ho bevuto, credimi, il bicchiere è al momento pieno.
Sorrido divertita, il morale è risalito come per incanto, e gli
rispondo:
La tua chiacchierata mi ha divertito non poco, con il gioco di cose, che
cosa e la cosa!
Mi è tornata alla mente una storiella che raccontava mia madre.
Un tedesco torna in Germania, incontra un amico italiano che gli chiede
come si è trovato durante la sua permanenza in Italia. Gli risponde:
“Gli italiani solo parlare:
cosare e fare, fare e cosare”.
E dice a ragione, il tedeschino! Davvero gli italiani meno istruiti,
utilizzano pochissimi verbi e spesso li sostituiscono con il verbo fare, e i
sostantivi diventano semplicemente “cose”, spesso perché non ne conoscono
l’esatto termine o significato.
Capita che incontri un signore, con una certa difficoltà nell’esprimersi
correttamente in italiano, poiché abituato alla parlata dialettale,
e un giorno mi dice: “ Sono
andato lì per quella cosa, sa cosa
intendo, ma la cosa non lo sa far bene, come sa, è poco esperta, eccetera
eccetera”. (intercala i suoi discorsi con quell’eccetera).
Al che chiedo:
- Scusi, non ho capito di chi, e di quale cosa stia parlando…”.
“Ma alla cosa, che la cosa non la sa fare! Più chiaro di così se more!
Il gioco degli equivoci, certo, ed io che maliziosamente avevo pensato …
Pare di trovarci in una situazione surreale, purtroppo ciò avviene con
una certa frequenza, più di quanto si possa pensare, e non solo tra le persone
poco istruite, capita anche di ascoltare studenti universitari che usano in
modo scorretto le declinazioni dei verbi o i giusti sostantivi. Questo succede
quando non si ha la padronanza della lingua italiana, e magari si desidera
imparare altre lingue, senza possedere gli strumenti essenziali della nostra:
grammatica e sintassi, e un vasto vocabolario lessicale.
Tornando alla cosa che non era esperta nel fare una determinata cosa,
quando mi torna alla mente, rido ancora divertita... “ma questo signore, che
cavolo sta dicendo?”.
Finalmente l’illuminazione.
La tal cosa era il caffè. La cosa
inesperta, era riferita all’insospettabile barista”.
E da qui parte all’istante la storiella:
- Mamma, dov'è quella cosa che usa la cosa per cosare i miei cosi? -
- Ah, la spazzola, intendi dire?-
- Eh, ci vuol tanto a capire? -
A questo
punto, devo cosare anch’io, pardon, terminare, altrimenti rischio di sclerare,
e voi con me.
La doppia firma è d’obbligo, poiché la prima parte è del Cavaliere della
Repubblica Tommaso Mondelli, classe 1919.
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