Troviamo utile pubblicare di tanto in tanto dei
gioielli del pensiero. Questo è un articolo di Goffredo Parise tratto
dalla rubrica che lo scrittore tenne sul “Corriere della sera” dal 1974 al
1975. Si trova nell'antologia "Dobbiamo disobbedire", a cura di
Silvio Perrella, edita da Adelphi. Questo articolo apparve il 30 giugno 1974,
ed è straordinario. Una meraviglia di stile e di pensiero di questo autore
sicuramente libero e lontano da ogni appartenenza politica e salottiera.
Rappresenta per noi oggi - media compresi che non ospitano più pezzi così
controcorrente - uno schiaffo contro la nostra inerzia.
«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti,
in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie
frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra:
«il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel
mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda
alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la
prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno
abbienti hanno il diritto di “consumare”.
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza
consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro
economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o
pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e
io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco.
A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le
distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di
“classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo
come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo
nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è
insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La
nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni
di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di
stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire
tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la
benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di
oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la
nostra ideologia.
E ora veniamo alla povertà.
Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra.
Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in
senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo:
cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario,
conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari.
Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura
niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del
ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo
nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il
vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi
prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a
rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci
sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più
distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un
cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola
cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio
televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto),
non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché
non ha più povertà.
Il nostro paese
compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e
poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della
propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il
nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e
ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi
ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare
o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e
avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine,
una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come
è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o
dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo
chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù.
Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la
lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché
sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in
testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano,
e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso
vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta
per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus
vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per
necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto
dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà
e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della
sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie
vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che
più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci
linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua
qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917,
l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il
berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non
soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come
non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e
necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo
infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato
anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di
soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una
ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono
profondamente convinto, salverà il nostro paese».
Goffredo Parise
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