IL SENSO - di Anna Montella
Se non c'è nessun senso - disse il re – ci risparmiamo un mondo di fastidi, perché non abbiamo nessun bisogno di trovarcene uno. (Lewis Carrol – da Alice nel Paese delle Meraviglie)
Si svegliò con un senso di soffocamento. Era steso supino a pancia all’aria e non riusciva a mettersi seduto. Riusciva solo a scalciare debolmente e a muovere le mani maldestramente, ma il resto del corpo era come paralizzato.
Calma – si disse – calma. Avrai dormito male e ti sarai anchilosato. Adesso passa.
Girò lo sguardo intorno, per quanto gli fosse consentito dalla sua infelice posizione, non riconoscendo la sagoma dei mobili della sua stanza da letto. Era come trovarsi in un posto diverso da quello in cui si era addormentato qualche ora prima. Al buio era tutto così dannatamente difficile da riconoscere. Tentò di ricordare cosa avesse fatto la sera precedente a quel risveglio atrofizzato, ma c’era come un velo sottile che appannava il ricordo. Di certo aveva guardato la TV.
Il film era di quelli intriganti, un po’ amarcord come piacevano a lui, e si era preparato alla serata film con un piatto di stuzzicherie varie e un bicchiere di bourbon con ghiaccio.
Il caldo quell’anno era da record e la sua tenuta preferita in casa era boxer e canottiera. Viveva da solo, era un single convinto e felice, il suo lavoro di fotografo free lance lo appagava e non doveva rendere conto a nessuno delle sue azioni. Qualche amicizia amorosa passeggera e tanto tempo per pensare a se stesso, ai viaggi e alla sua sete di conoscenza. Quarantacinque anni vissuti decisamente bene senza ombre particolari.
Si era trasferito in quella città dieci anni addietro per staccarsi dai genitori tanto premurosi ma soffocanti, a volte. Soffocanti. Come quel senso di soffocamento che continuava a perdurare e il corpo che non ne voleva sapere di muoversi. Forse il caldo gli aveva giocato un brutto scherzo ed era anche solo in casa! Se solo fosse riuscito ad afferrare il cellulare sul comodino! Tentò di muovere la testa con cautela verso il comodino alla sua sinistra ma la sagoma del dannato mobiletto non c’era. Mosse le mani in maniera repentina e scoordinata e sentì un dolore acuto alle dita che avevano sbattuto contro qualcosa.
Il pianto stizzoso di un bambino si levò da qualche parte, vicinissimo, e con la coda dell’occhio intravide la causa di quel dolore lancinante alle dita. Delle sbarre. Era in una gabbia! Quasi in contemporanea due braccia gigantesche calarono su di lui. Si sentì sollevare come un fantoccio e un attimo dopo le sue labbra e il suo naso erano schiacciati su qualcosa di morbido che profumava di latte. Fu naturale aprire la bocca e cominciare a succhiare. Beatitudine.
- Se era un sogno si stava trasformando in un bel sogno – pensò – continuando a succhiare con voracità. Il latte gli scendeva giù per la gola tiepido e lento dandogli il tempo di deglutire. Si sentiva avvolto dalle braccia gigantesche ed era un buon posto dove stare finché non si fosse svegliato da quel sogno/incubo così vivido che, in un primo momento, lo aveva fatto spaventare e temere per la sua vita. Dopo la poppata si addormentò con un vago sorriso.
Il secondo risveglio fu ancora più traumatico.
Era giorno e tutto era visibile e lui era sempre semi paralizzato. Gli occhi rivolti al soffitto, mosse una mano che si portò in maniera scoordinata al volto dandosi una botta non voluta sul naso. Dolore lancinante. Non fu, però, il dolore a farlo urlare di raccapriccio ma la mano… Era una mano minuscola, con delle minuscole dita affusolate senza quasi unghie. Ed era la sua mano! Lanciò un urlo e un altro ancora che si sciolse in un pianto stizzito ed accorato. Quello di un bambino di pochi giorni.
Col passare delle settimane il suo nuovo piccolo corpo si irrobustiva e adesso riusciva anche a stare seduto nel seggiolino senza precipitare al suolo. Gli umani che si occupavano di lui – si rifiutava di chiamarli genitori – erano dolci e compassionevoli e non erano poi così male. Mangiava, dormiva, guardava la vita che gli scorreva accanto. Aveva cercato più volte di parlare, di dire che lui non era un bambino, che era un uomo adulto e che aveva un’altra vita che lo aspettava, ma non riusciva a farsi comprendere.
Gli venivano fuori solo versi inarticolati che si trasformavano in urletti o pianti stizziti.
La svolta avvenne quando lo portarono ai giardinetti per la prima volta. Il parco brulicava di bambini in carrozzina e ciascuno emetteva versi inarticolati o si lanciava in lunghi monologhi. Incomprensibili. Ma non per lui. Lui capiva cosa dicevano e loro capivano cosa diceva lui. Erano tutti nella sua stessa condizione. Addormentati in vite diverse si erano svegliati costretti in piccoli corpi le cui funzionalità erano ridotte al minimo. La cosa più umiliante era essere manipolati da mani estranee al momento del bagnetto o al cambio del pannolino. Personalmente non vedeva l’ora di affrancarsi da quella schiavitù per riuscire almeno a farla autonomamente nel vasino. Senza contare quegli adulti che, pensando di fare i simpatici, lo spaventavano continuamente con urletti idioti e facce da imbecilli.
Attendeva con ansia le passeggiate ai giardinetti. La sua umana aveva fatto amicizia con l’umana di una bambina deliziosa dai grandi occhi azzurri che gli aveva raccontato una storia tristissima, mentre le loro umane chiacchieravano tra loro di talco e biberon.
Si era addormentata in una sera torrida con il pensiero rivolto al giorno successivo, quando sarebbe convolata a nozze con l’amore di tutta la sua vita, e si era risvegliata impotente, in una casa non sua con persone estranee e ridotta alle dimensioni di una bambola. Il suo pensiero era rivolto costantemente all’uomo che avrebbe dovuto sposare e si struggeva per quel non sapere, non conoscere il perché di tutto ciò che stava accadendo.
Un altro bambino, poco più in là, con la sua umana che non sapeva come fare a calmarlo, non faceva che urlare stizzito e inveire contro l’Universo. Il suo distacco dalla vita precedente era avvenuto in modo traumatico e violento. Era stato ammazzato dalla polizia mentre si apprestava a sgozzare la sua nuova vittima. Nei suoi discorsi sconnessi pregustava la gioia di tagliare la gola alla sua umana e ai “fratelli” che erano a casa. C’erano poi due gemelli identici, un maschietto e una femminuccia nella stessa carrozzina double che si urlavano impropéri a vicenda. Forse si sarebbero cavati gli occhi se non fossero stati divisi da un foglio di plexiglass. A quanto gli pareva d’aver capito i due erano morti insieme in un incendio appiccato da lei per vendicarsi di lui che la tradiva con una donna più giovane.
I bambini che già camminavano traballanti erano più tranquilli, ma i loro ricordi erano meno nitidi di quelli in carrozzina. Ne parlavano ancora tra loro con un linguaggio incomprensibile agli adulti fatto di gridolini, monologhi, pianti stizziti, ma quasi con distacco, come se raccontassero una favola o la vicenda di qualcun altro.
Quelli che balbettavano già le prime parole coerenti erano, invece, i più colpiti nella memoria e non riuscivano più a comunicare con gli altri più piccoli di loro, anche se questi ultimi capivano benissimo i loro balbettii incoerenti in cui spiccava un’assoluta mancanza di percezione del bene e del male. Erano come in un limbo. Non più gli adulti che erano stati, ma neppure bambini, nel senso comune che si attribuisce a questo stato. Erano in una via di mezzo, in una sorta di terra di frontiera dell’anima, una zona franca dove tutto era consentito e tutto era permesso. Una zona d’ombra in cui, dimentico del prima e ignaro del poi, il bambino era concentrato unicamente su se stesso, alle prese con un feroce individualismo e privo ancora di un bagaglio relazionale e sociale che gli consentisse di fare scelte dettate da un’etica comune. A quell’età un bambino, per un giocattolo, avrebbe bruciato la casa con i genitori dentro senza alcun rimorso.
L’unica cosa importante era il suo bisogno che andava soddisfatto a qualunque costo.
Quei bambini, invece, che parlavano speditamente comunicando più con gli adulti che tra loro, erano ormai avviati sul sentiero della loro nuova esistenza totalmente immemori e dimentichi del prima, cominciando già a discernere ciò che era consentito e ciò che non lo era, acquisendo i primi rudimenti di ciò che è bene e ciò che è male.
Lui stesso si rese conto con orrore che, man mano che aumentavano i suoi progressi fisici, diminuivano i suoi ricordi e giunse alla conclusione che, ben presto, non avrebbe ricordato più nulla e si sarebbe integrato nella sua nuova vita come se fosse l’unica.
Forse era questo che succede al genere umano dopo la morte fisica. Sempre gli stessi da migliaia di anni, le stesse anime antiche che si rigenerano in nuovi corpi in un ciclo continuo di eterno rinnovamento. Per fortuna l’Universo pietoso ad un certo punto provvede a staccare la spina resettando i ricordi anche se in qualcuno, ogni tanto, dall’hard disk remoto della propria coscienza, riaffiorano pensieri sopiti. Qualcun altro trova perfino la sua anima gemella, riprendendo magicamente e in maniera inspiegabile il filo di un discorso interrotto bruscamente in un’altra esistenza o altri ancora sono tormentati dai cosiddetti dèjà vu e finiscono regolarmente in psicoanalisi.
Sostanzialmente, però, la stragrande maggioranza dimentica e vive una nuova esistenza che si interromperà ad un certo punto in maniera più o meno discreta, più o meno traumatica per poi ricominciare ancora e ancora. Forse è davvero questo che succede al genere umano. Chissà…
Di tutta la dinamica continuava, però, a sfuggirgli il senso.
A questo pensiero, suo malgrado, diventando rosso per lo sforzo afferrò con le due manine il piedino nudo e lo portò alla bocca. La sua umana rise deliziata e lui, orripilato e impotente, scoppiò in un pianto disperato.
Autore: Anna Montella
Mi ha spaventato. Sì, il tuo racconto mi ha proprio spaventato, Anna. E coinvolto istante dopo istante.
RispondiEliminaAngela