- Così ’l maestro; e quella gente degna
- "Tornate", disse, "intrate innanzi dunque",
- coi dossi de le man faccendo insegna.
- E un di loro incominciò: "Chiunque
- tu se’, così andando, volgi ’l viso:
- pon mente se di là mi vedesti unque".
- Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
- biondo era e bello e di gentile aspetto,
- ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.
- Quand’io mi fui umilmente disdetto
- d’averlo visto mai, el disse: "Or vedi";
- e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
- Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi,
- nepote di Costanza imperadrice;
- ond’io ti priego che, quando tu riedi,
- vadi a mia bella figlia, genitrice
- de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
- e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
- Poscia ch’io ebbi rotta la persona
- di due punte mortali, io mi rendei,
- piangendo, a quei che volontier perdona.
- Orribil furon li peccati miei;
- ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
- che prende ciò che si rivolge a lei.
- Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
- di me fu messo per Clemente allora,
- avesse in Dio ben letta questa faccia,
- l’ossa del corpo mio sarieno ancora
- in co del ponte presso a Benevento,
- sotto la guardia de la grave mora.
- Or le bagna la pioggia e move il vento
- di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde
- dov’e’ le trasmutò a lume spento.
- Per lor maladizion sì non si perde,
- che non possa tornar, l'etterno amore,
- mentre che la speranza ha fior del verde.
- Vero è che quale in contumacia more
- di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
- star li convien da questa ripa in fore,
- per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
- in sua presunzïon, se tal decreto
- più corto per buon prieghi non diventa.
- Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
- revelando a la mia buona Costanza
- come m’ hai visto, e anco esto divieto;
- ché qui per quei di là molto s’avanza".
DANTE ALIGHIERI
(nota: 1 sta per 101, numerazione dei versi danteschi de Purgatorio Canto III), in quanto ho preso solo la parte che riguarda Manfredi)
Corradino di Svevia
Pallido, e bello, con la chioma d'oro,
Con la pupilla del color del mare,
Con un viso gentil da sventurato,
Toccò la sponda dopo il lungo e mesto
Remigar de la fuga. Avea la sveva
Stella d'argento sul cimiero azzurro,
Avea l'aquila sveva in sul mantello;
E quantunque affidar non lo dovesse,
Corradino di Svevia era il suo nome.
Il nipote a' superbi imperatori
Perseguito venia limosinando
Una sola di sonno ora quïeta.
E qui nel sonno ei fu tradito; e quivi
Per quanto affaticato occhio si posi,
Non trova mai da quella notte il sonno.
La più bella città de le marine
Vide fremendo fluttuar un velo
Funereo su la piazza: e una bipenne
Calar sul ceppo, ove posava un capo
Con la pupilla del color del mare,
Pallido, altero, e con la chioma d'oro.
E vide un guanto trasvolar dal palco
Sulla livida folla; e non fu scorto
Chi 'l raccogliesse. Ma nel dì segnato
Che da le torri sicule tonâro
Come Arcangeli i Vespri; ei fu veduto
Allor quel guanto, quasi mano viva,
Ghermir la fune che sonò l'appello
Dei beffardi Angioíni innanzi a Dio.
Come dilegua una cadente stella,
Mutò zona lo svevo astro e disparve.
E gemendo l'avita aquila volse
Per morire al natío Reno le piume;
Ma sul Reno natío era un castello,
E sul freddo verone era una madre,
Che lagrimava nell'attesa amara:
"Nobile augello che volando vai,
Se vieni da la dolce itala terra,
Dimmi, ài veduto il figlio mio?" - "Lo vidi;
Era biondo, era bianco, era bëato,
Sotto l'arco d'un tempio era sepolto."
ALEARDO ALEARDI
ALEARDO ALEARDI
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