Un simbolico viaggio virtuale nei meandri umani e disumani della subdola diffamazione contro terzi, scaturita dalle radici dell’invidia e dalla constatazione del reiterato fallimento delle proprie aspirazioni
personali - di Josè Van Roy Dalì
personali - di Josè Van Roy Dalì
Soltanto allora mi resi conto di essere stato un pessimo figlio. Ogni mia legittima azione nell’ambito familiare sembrava ripercuotersi troppo casualmente e a scapito della salute già estremamente cagionevole di mio padre, in una serie di inspiegabili quanto misteriose reazioni concatenate. Non lo avrei mai più rivisto in vita. Il destino reclamava il suo diritto di prelazione respingendo al mittente ogni umano contrasto, così, gioco forza, ritornai quasi sconfitto alla quotidianità campagnola del paese che non c’è, affacciandomi alla finestra dei rimpianti come comune, insoddisfatto spettatore.
Mentre un sole accaldato e infaticabile attizzava il cielo di luglio con l’ausilio dei suoi raggi, mi attardai sotto il confortante patio della casa contornata da una campagna verde e rigogliosa come poche, felicemente distratto da nuovi e vecchi “inquilini” del paradisiaco giardino., Chicco, Luna, Nuvola, Minosse e Astra, figli “legittimi” di Blu e Pinky, Mirko e Kira, decisamente convinto di meritare la singolare qualifica impiegata da Gerard Landry come titolo per la sua biografia in edizione francese: “ Un uomo degno di avere un cane”.
Gli affettuosi animaletti, nati sotto gli influssi televisivi del momento, ispirati dai loro idoli canori Vasco Rossi e Jovanotti, avrebbero desiderato intraprendere la difficile carriera musicale, ma furono presto dissuasi dall’insormontabile ostacolo della loro condizione.
Il demone dell’arte però continuò a scalpitare nei loro propositi.
Sovente, quando dipingevo nel mio studio, seguivano, diligenti come scolaretti, lo svolgimento del lavoro.
Un giorno, evidentemente stimolati dalle nuove avanguardie pittoriche che imperversavano,tranne qualche rara eccezione, con un astrattismo culturalmente approssimativo e in progressiva degenerazione, gli intraprendenti Yorkshire palesarono timidamente, con la mia complicità, il desiderio di cimentarsi con i colori della mia tavolozza, quali fondatori della neocorrente pittorica “Dogart”.
Per risparmiare ai miei timpani l’oltraggio “modulato” e lamentoso delle eventuali rimostranze misi a loro disposizione l’occorrente.
Collocato a terra un candido foglio, certo del risultato, dopo averlo siglato con l’anagramma del mio nome (Joan Yrvilad), preparai alcune coppie di pennelli delle stesse dimensioni, uniti da una cordicella, e li sistemai a tracolla degli apprensivi collaboratori sempre più eccitati.
Successivamente, aprontate diverse boccette colme di liquido iridescente, sollecitai l’inizio del lavoro.
Barbara, seduta a terra nei pressi del foglio, attendeva l’arrivo dei pittori in erba, premiando con un biscotto ogni loro passaggio sulla candida carta, mentre io dalla parte opposta, dopo averli attirati con la lusinga di altre leccornie, intingendo prontamente i pennelli nei colori, li esortavo a tornare da Barbara.
L’esito? Un miscuglio di tinte dai contrasti casuali irripetibili, arricchito dalle impronte “digitali” degli autori.
E l’occasione di gratificare l’innato talento dei miei amici con un riconoscimento più significativo non si fece attendere.
Quel che accadde in seguito, fu riferito da un anonimo, “distratto” cronista de “Il Messaggero” che, dimentico di non essersi trovato sul posto al momento opportuno, invece di intervistare il più diretto interessato ( che lo avrebbe potuto “illuminare”), racimolò i commenti “superstiti” del giorno dopo e con la visione distorta da un “limitato” punto di vista personale, dando prova di qualunquismo professionale subdolo e provinciale, purtroppo proprio della nostra penisola, li pubblicò obliando persino di firmare il “suo” pezzo.
Da “Il Messaggero” di fine marzo di un anno imprecisato:” Van Roy Dalì: artistica follia”.
Josè Van Roy Dalì, il pittore che vive da anni nel paese che non c’è, figlio del grande maestro spagnolo Salvador, si è reso protagonista, la domenica scorsa, nella Sala del Palazzo Comunale, di una delle sue solite stravaganze che altre volte hanno richiamato ‘attenzione su di lui.
.Josè era stato chiamato dagli organizzatori della mostra internazionale di pittura a far parte della commissione giudicatrice e dopo aver espresso il suo voto favorevole verso il quadro della pittrice bulgara Joan Yrvilad, risultato poi vincitore della mostra , ha cambiato parere, pretendendo che il verbale già sottoscritto dai membri della giuria fosse annullato. La richiesta è stata respinta e i baffuto Van Roy ha inscenato una protesta che ha mandato in bestia gli organizzatori della mostra e incuriosito i presenti, che in quel momento affollavano la Sala del palazzo Comunale per assistere alla proclamazione dei vincitori.
“Ci ho ripensato” ha detto “quell’opera per me non vale il primo premio” e ha minacciato di bruciarsi i lunghi mustacchi se non gli avessero dato retta.
Ii presidente e gli altri membri della giuria hanno risposto che ciò non era possibile, sicché lo stravagante personaggio ha preso di tasca l’accendisigari, ha prodotto la fiammella ma si è guardato dal mettere in atto il suo minacciato proposito. In piena sceneggiata sono giunti i vigili del fuoco, ma non per spegnere i baffi di Van Roy Dalì. Un ignoto aveva dato l’allarme, informando per telefono che un corto circuito minacciava fiamme al Palazzo Comunale.
I pompieri sono giunti a sirene spiegate, sono saliti di corsa per lo scalone che immette nella Sala Comunale, gremita di gente, ma dell’incendio nessuna traccia.
Approfittando della confusione, Van Roy ha tolto di cintura ad un vigile del fuoco l’ascia e, dopo essersi avvicinato al quadro premiato, del quale egli aveva avuto un ripensamento nel giudizio positivo, ha cominciato a menar d’ascia, riducendo a brandelli la tela: Fuggi fuggi generale tra la folla, impressionata dalla furia devastatrice di Josè…”.
Presumibilmente tradito dall’emozione o colto da parziale amnesia, l’articolista evitò di menzionare i nomi degli altri componenti della giuria che aveva premiato il quadro: stimati professori d’arte e professionisti (alcuni dei quali suoi amici) con all’attivo qualche presenza alla Biennale di Venezia.
“La combinazione tra il desiderio di gloria e l’incapacità di sopportare la monotonia che questa comporta conduce molta gente in manicomio. La gloria deriva dall’immutabile dindindin di un dono supremo”.
Tale considerazione, colta al volo da “I Taccuini” di Francis Scott Fitzgerald, contrastava con il mio precario stato d’animo poiché in tutta franchezza, pur non essendo indifferente all’umano, concepibile desio, sopportavo la transitoria lacuna, confortando l’attesa, tutt’altro che monotona, con la consapevolezza della chiusura anticipata e definitiva dei manicomi. Inoltre l’immutabile dindindin, che ancora non riuscivo a percepire chiaramente, veniva sovente contrastato dal suono modulato e distinto delle sirene che esaltavano ogni mia apparizione ufficiale.
Ringrazio José e Anna per aver postato su FB questo brano tratto dal libro dell'artista, dal titolo Rigurgiti di Fango. E' sicuramente da leggere!
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