ALLEGORIA
O SIMBOLO?
In riferimento a quanto pubblicato in precedenza, nei seguenti post, di cui ai link diretti:
Vediamo
il senso preciso del mio epigramma:
nella
prima strofa compare una serie di esempi di messaggi allegorici, ovvero segnali
da interpretarsi a senso unico come un’equazione matematica (poniamo: il rosso indossato in certe occasioni per
proclamarsi scopertamente “comunisti”; il nero
per dichiararsi “fascisti”; la bandana
o l’orecchino o la testa volutamente rapata a zero allo
scopo di mostrarsi pubblicamente “giovani o giovanilisti trendy”…oppure, che so
io, i calzini bianchi? i quali -- così mi informava una mia amica berlinese – pare
vengano indossati dai gay tedeschi per
potersi riconoscere inequivocabilmente fra loro, ecc. ecc.: l’esemplificazione
nel contesto dell’epigramma non va certo intesa come esauriente. L’essenziale è
saper cogliere il seguente concetto:
indossare
la propria identità come un “fiore impolverato” (di un unico, identico “grigiore”,
sia esso rosso o nero, ecc.) quando la si esibisce all’occhiello come allegorico distintivo inconfondibile
di una casta, una classe sociale, una religione, una scuola, una particolare élite, ecc. ecc. equivale a reprimere
e/o mascherare la propria autentica multiforme
natura umana: nella sua essenza creata indefinibile, inafferrabile, insondabile,
nel bene e nel male mai del tutto circoscrivibile e categorizzabile: ovvero, esattamente
come, per sua natura costitutiva, può dirsi il SIMBOLO.
Nella
seconda strofa, interviene l’immagine
determinante della “nuvola” a suffragare il concetto stesso di simbolo:
come il simbolo, anch’ essa di colore e forma sempre cangianti, di aspetto
sempre diverso, nel suo “veleggiare” mai
ferma né definitiva…e quindi l’invito alla “umana
specie, plurima in sé” a voler onestamente uscire dalla sfera delle
convenzionali “allegorie” tutte quante studiatamente uniformi (in questo senso
“tagliate con l’accetta”, come si legge
più avanti nel contesto del TRIO) per cercare di presentarsi agli occhi del
mondo proprio come la nuvola che, pur cambiando aspetto, rimane “pluralmente identica alla sua variegata
identità”.
***
E
in che maniera questo tema fondamentale viene ripreso e svolto nelle tre
diverse sezioni che compongono il DIARIO ODEPORICO?
Innanzitutto, va osservato come l’equivalente
della “nuvola simbolica” sia senz’altro la protagonista compagna dello
scrittore: una donna dapprima presentata
come figura sfuggente, chiamata enigmaticamente Miss Bédèker (dalla celebre guida turistica tedesca Baedecker) e da
ultimo, nel terzo episodio, finalmente rivelata al lettore come una donna di
nome CASSANDRA. Un nome “allegorico”
quant’altro mai, dato che chi lo porta difficilmente può sottrarsi ad uno
spontaneo parallelo con la famosa, funesta profetessa troiana. Un nome, quindi, che male si addice
ad un personaggio che, via via, da un episodio del TRIO all’altro, testimonia
appieno, per contro, l’auspicabile
comportamento umano del “simbolo vivente”, nel senso più sopra
spiegato. Un nome “allegorico” quindi che lei stessa non ama e non vuole sia pubblicamente
usato, che giustamente rifiuta proprio perché
lei stessa è ben consapevole (v. come viene dipinta nel secondo episodio
“Pacchetti all-inclusive!”) di essere tutt’altro che una creatura monocorde e
monocromatica, anzi di poter essere rappresentata come simbolo genuino di assoluta,
coraggiosa, incoercibile libertà.
1)
Nel primo episodio, intitolato “AUX ADIEUX”,
le fa da contraltare ideale la “dama
riccia e brilla” (la moglie di Borges). Ma – e qui sta il nocciolo – alla
fin fine che tipo di persona (e attenzione: persona
in latino significa maschera…) era
costei? Mentiva o era sincera parlando con frivolezza del defunto marito? Di
fronte ad un estraneo, che preferisse magari proteggersi indossando una
maschera? una sorta di “allegoria all’occhiello” per nascondere i suoi veri
sentimenti d’amore? Non lo si saprà: il verdetto morale più saggio rimane
quello volutamente “ambiguo” (simbolico) che lo stesso Borges propone nella
chiusa dell’ episodio.
2)
Nel secondo episodio del TRIO, intitolato “PACCHETTI ALL-INCLUSIVE” – che funge
da opportuno preambolo narrativo al terzo episodio della serie -- vengono variamente
sottolineati i tratti caratteriali compositi, in parte persino conflittuali, plurimi
ed elusivi (“simbolici”, quindi, se questo termine ci è ormai più chiaro) della
nostra ancora misteriosa protagonista, compagna dello scrittore (per il momento
nota soltanto con l’appellativo anonimo suddetto);
3)
Nel fondamentale episodio conclusivo, “SCRITTORI ESPLORATORI FUORI STRADA”,viene
infine umoristicamente presentata a tutto tondo, in modo solo apparentemente
scanzonato, tutta una serie di abbagli esilaranti in cui cade questo scrittore
tipicamente impegnato ad “esplorare” il mondo circostante, nonché la psiche dei
personaggi via via incontrati: “oggetti di studio”, secondo lui, destinati ad
essere poi rappresentati nelle sue opere creative in genere.
E
in che cosa consiste il suo clamoroso fallimento in questa rocambolesca
impresa? Nell’aver di volta in volta voluto
interpretare le situazioni e i diversi personaggi incontrati secondo
ragionamenti falsamente logici e di fatto sempre fuorvianti perché di carattere
assolutamente “allegorico” – cioè, essersi puntualmente detto: “Ah, se
costui fa questo…ah, se costei fa questo e quest’altro…ebbene non può esserci
che questa sola spiegazione logica!!…ecc.”.
Alla
fine dell’avventura sembra rendersene conto; comincia ad intuirlo nel momento
in cui prova a tirare alcune somme, trovandosi in ogni caso privo di risposte
soddisfacenti e costretto a rassegnarsi. Ed è a questo punto che (v. la
descrizione del suo rientro a Roma sull’autobus gremito di umanità tutta
uguale, tutta uniformemente vestita, tutta psicologicamente impenetrabile …)
invoca fra sé, a gran voce, la sua amata Cassandra: quella meravigliosa donna-musa
che lui, reduce da quella drammatica esperienza vissuta, ora riesce ad apprezzare pienamente e ammirare
come vero e proprio simbolo incarnato, a dispetto di quel nome “allegorico”
che le è stato dato al fonte battesimale.
Insomma:
un viaggiatore “fuori strada” non solo nel senso letterale della parola, ma in
quanto incapace di interpretare la realtà nel senso corretto che si imporrebbe
ad uno scrittore professionista come lui: ricordando sempre, cioè, che gli individui umani non sono allegorie e
come tali facilmente decodificabili, bensì simboli viventi da non potere né dover sommariamente liquidare
con una qualsiasi sintetica definizione, né tanto meno pretendere di saper
sondare intimamente in modo compiuto.
In
questo senso ho parlato di auspicabile riapertura in chiave simbolica di qualunque
stereotipo fortemente allegorizzato e duro a morire intorno a noi, che possa
nocivamente influire sulla qualità dei rapporti umani. Un processo di matrice
etica, altrimenti definibile come disallegorizzazione
dei clichés culturali invalsi
attraverso i secoli e tuttora troppo spesso acriticamente sottoscritti (il
bianco = buono/intelligente, il nero= malvagio/ignorante, il maschio uguale…,la
femmina uguale…e chi più ne ha più ne metta). Indubbiamente anche la
letteratura, la mitologia e la favolistica hanno le loro responsabilità nella
creazione di simili stereotipi. Nascono e si tramandano così i luoghi comuni
sulla natura buona o cattiva di svariati animali (il lupo, la volpe, il
serpente, ecc.); ma anche quelli che riguardano la “diversità” dell’aspetto
fisico, o del comportamento, come necessario emblema di insita corruzione
morale tanto più pericolosa in quanto potenzialmente contagiosa. In
effetti, proprio sulle rigide
equiparazioni allegoriche fanno leva la xenofobia e il razzismo di ogni peggior
specie. Si pensi allora, per contrasto, a quei grandi modelli di mostruosità
“disallegorizzata” che sono, fra i molti altri esempi possibili, il Quasimodo
di Victor Hugo, o il Calibano di Shakespeare, o la figura del negro fuggiasco
Jim nello Huckleberry Finn di Mark Twain. Per parte mia e a modo mio, ho
tentato di rivalutare eticamente lo stereotipo del lupo malvagio (proponendo
una lettura bachtinianamente “carnevalizzata” della favola di Cappuccetto
Rosso nel mio poema teatrale “PHANTAASIA
non IMAGINAATIO VERA”) e, nel
contesto della silloge COME CONCHIGLIE, LIRICHE, della figura mitologica del
ciclope Polifemo.
Ma
- e questo occorre sottolinearlo – attenzione: in una simile operazione sarebbe un inutile gioco letterario rovesciare
semplicemente uno stereotipo qualsiasi per trasformarlo in un altro di segno
opposto. Infatti, voler attribuire un’immagine di assoluta bontà ad una
creatura tradizionalmente considerata malvagia non significherebbe aprirla alla
plurivocità del simbolo, bensì restituirle un’identica rigidità di carattere
pur sempre allegorico: vorrebbe dire, in altri termini, limitarsi a capovolgere nel suo contrario un giudizio morale parimenti univoco e perciò pur sempre
inautentico rispetto alla prismaticità del reale. Non è pertanto questa la via
utile da voler percorrere. (Per altre precisazioni su questo argomento, rinvio
in ogni caso a pag. 138 della mia silloge COME CONCHIGLIE, LIRICHE.)
In definitiva, e con parole ancora più povere:
la grande conquista
etica insita nel
recupero
del simbolo consiste, invece, nella raggiunta sospensione di qualsiasi giudizio
morale, negativo o positivo che sia, pur
sempre implicito nello schematismo allegorico; e ciò fino a saper
comprendere del tutto – e magari tentare di farlo comprendere meglio anche al
prossimo attraverso qualche opera creativa che ne illustri il concetto? --
quanto sia profondamente ingiusto e pericoloso incasellare e codificare gli
uomini, come pure gli animali, secondo atavici pregiudizi radicalmente contrapposti.
§§§
Tutto
ciò, cara Danila, il più succintamente possibile…come se il sunto della trama
di “Guerra e Pace” valesse più di un’attenta, piacevole e feconda lettura del romanzo
medesimo? Io non lo credo proprio; ma quasi certamente l’immenso stuolo degli
odierni “facebookari” risponderebbe di sì.
Roberto Vittorio Di Pietro
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