PRESENTAZIONE DI
“A TESTA IN GIU’” (Incontro con
l’Autore)
(APPUNTI DI BASE)
Ho creduto opportuno inserire come postfazione a questo
libro una lettera aperta che inizia così: “Caro lettore, con questa silloge
poetica piuttosto inconsueta rispetto ai modelli correnti, non escludo di
averti potuto procurare qualche perplessità sia sul piano formale sia su quello
concettuale…” In definitiva questa lettera si trasforma in un piccolo saggio in
cui si definiscono alcune mie scelte poetiche - sicuramente quelle che
riguardano quest’opera in particolare, ma c’è anche di più. Un intervento in
prima persona che, da parte di qualunque scrittore, può forse giustamente
ritenersi “indebito”: è l’opera stessa che dovrebbe parlare da sola, insomma. E
a mo’ di epigrafe, in testa alla mia lettera, si trova un epigramma di Giovanni
Raboni – ve lo ricordo citandolo testualmente:
“Chi parla ha da
dire/ le cose che dice e forse no/o forse altre. Ma è un fatto che chi
tace/lascia che tutto gli succeda e quel ch’è peggio/lascia che quello che
hanno fatto a lui/ lo facciano a qualcun altro.”
Che vorrebbe
significare in sostanza? Che un intervento come il mio, oltre che essere
indebito, potrebbe anche risultare inutile in quanto magari incompleto e di
conseguenza magari malauguratamente ancora fuorviante. Chissà.
Eppure ogni scrittore in qualche modo sente il bisogno di chiarire
alcune sue peculiarità di scrittura, ritenendo – forse ingiustamente, forse
troppo angosciosamente? – che qualcuno potrebbe fraintenderle. E talvolta ne soffre. Da Carducci, Pascoli, fino a Zanzotto,
passando per i Futuristi che avevano addirittura inventato l’arte del manifesto
(ma come dimenticare Rimbaud e la sua rivoluzionaria, epocale ‘dichiarazione di
poetica’ inneggiante ad un ormai necessario ‘déréglement de tous les sens’), questo ricorso alla poesia che
desidera autodefinirsi, illustrare se stessa,
in qualche misura ricompare. Ma così anche fra i narratori, e non solo
in Italia. Il nostro Buzzati poi, scoprendosi troppo spesso frainteso come
scrittore di racconti, non perdeva occasione per richiamare a perdifiato i
critici che dimostravano di non capire abbastanza, o non capire nel modo
corretto, l’essenza del suo messaggio. Di qui lo spirito di questa mia lettera
aperta. Stasera però vorrei parlarvi non
solo della mia poetica in sé, delle sue caratteristiche in quanto tali, come ho
già fatto più o meno in queste pagine, ma cercare di spiegarvi come e perché e
quanto profondamente la mia poetica trae origine da personalissime esperienze di
vita vissuta, di studio e di concomitante pensiero. Vi parlerò perciò anzitutto di me, della mia
evoluzione interiore e della mia graduale maturazione attraverso gli anni. Questo mio particolare retroterra, umano e
culturale insieme, lo vedrete, risulterà determinante per una migliore analisi
dei testi che sono qui a presentarvi.
Fin dalla prima infanzia, posso dire di aver subito visceralmente il fascino
della musica (mia madre era un’ottima pianista, un mio zio era concertista di
violino, tutti quanti in famiglia suonavano con competenza qualche strumento
musicale e volentieri a casa facevano musica di insieme) ed anche di avere
avvertito molto presto un amore irresistibile per la poesia (la poesia come può
goderla istintivamente un ragazzino, beninteso, poesia che gli si presenta
soprattutto come gioco di ritmi e di suoni in una canzone – e poesia musicale
in varie lingue, dato che, in Egitto, dove allora vivevo, pur frequentando le
scuole italiane dei severissimi Salesiani, ebbi la fortuna di imparare l’inglese
e il francese e l’arabo secondo metodi di insegnamento che comportavano uno
studio progressivo di queste lingue di pari passo con i fondamentali programmi
statali previsti per le scuole italiane, in Italia come all’estero. Di modo che tutto quanto di poesia italiana,
francese, o inglese, all’epoca si soleva studiare rigorosamente a memoria prima
di qualsiasi commento del testo in classe, faceva appello anzitutto alla
sensibilità del mio orecchio, assecondando allora la mia tendenza ad abbandonarmi
fanciullescamente soprattutto al richiamo di tante belle, diverse e curiose
parole.
Due primi grandi amori -- musica e poesia -- in attesa
dell’avvento di un terzo amore maiuscolo, che emerse poco dopo negli anni
cruciali dell’adolescenza: quello per la filosofia. Ricordo ancora quanto mi disse il mio primo
insegnante di filosofia, accorgendosi subito della mia particolare propensione
per questa materia. “Ragazzo mio, ricorda che ci sono tre sagge regole
che ogni buon filosofo dovrebbe saper rispettare: l’aporeìn, un atteggiamento sempre dubitativo, di implicita umiltà
tuttavia; l’epoché, la giusta volontà
di rifuggire dai giudizi categorici; e l’apàtheia,
che non è assenza di passione, come potresti credere, ma la capacità di
guardare alle nostre umane passioni con sufficiente distacco, osservandoci
dall’esterno per così dire, da spettatori di noi stessi e perciò in grado di
sorridere, o ridere perché no, del modo in cui sul palcoscenico della vita ci
prendiamo sovente troppo, troppo sul serio.
Più tardi scoprii che la filosofia zen in particolare tende allo
sviluppo di questa utile capacità di momentaneo straniamento da noi stessi,
dalla nostra micidiale seriosità. Ma
tutto questo lo dico perché andò così che la filosofia mi indusse a voler
modificare il mio primo atteggiamento ingenuo anche verso la poesia: a
cominciare, cioè, a saperla distinguere sostanzialmente dalla musica in quanto
arte a sé. Anche attraverso lo studio dell’armonia e della composizione
musicale, compresi sempre più lucidamente che, mentre la musica possiede come
sua connaturale caratteristica quella di estrinsecarsi attraverso semplici
suoni e ritmi opportunamente ordinati secondo precise leggi matematiche, la
poesia pur essendole molto affine in questo senso, possiede un grado di libertà
molto minore rispetto alla musica. In effetti, chi compone versi anziché
partiture musicali deve fare i conti con un elemento in più che alla musica è
totalmente estraneo: la parola. Quella
parola umana che, purtroppo, anche quando vorrebbe farsi puro suono non può in
ogni caso mai liberarsi del tutto dei significati che le sono propri e per
esprimere i quali essa dopotutto è nata, né liberarsi di tutte le pesanti stratificazioni culturali
di cui, nel tempo ogni vocabolo si è fatalmente andato caricando. E così, ancora giovanissimo, mi ponevo questa
domanda: se la musica ha il diritto intrinseco di presentarsi come arte per
l’arte senza doversi porre degli scrupoli che non siano di tipo esclusivamente
estetico, si può dopotutto pretendere a cuor leggero che la poesia, la quale è
pur sempre fatta di parole, per quanto musicali esse possano e forse debbano
essere, goda della stessa autonomia? Non comporta essa stessa una
responsabilità etica nell’uso che se ne fa? E arrivai all’università.
Per ragioni di studio, riprendevo in mano il mio amatissimo Keats, non più solo
per godermi la maestosa musicalità dei suoi pentametri giambici, come molti
anni prima avevo fatto, ma in questa fase per rileggermelo con il sussidio di
fior di saggi critici su quell’excipit dell’ “Ode su un’urna greca” – il
bello è il vero, il vero è il bello -- che fiumi di inchiostro ha fatto
versare. E la critica anglosassone
risultava pressoché unanime nel trarre una conclusione così riassumibile: che
quel verso di Keats non racchiude il messaggio di un puro esteta
romantico-decadente: che vi si
rispecchia per contro l’intuizione della Grecia classica, secondo cui nel
vero esiste tanta parte di realtà che con il bello in senso puramente estetico
ha poco a che fare. Il bello insomma non è soltanto una visione di luce, ma
comprende anche l’ombra assai meno gradevole, con cui la luce contrasta,
continuamente si alterna e si confronta. Contemporaneamente, per un
esame di letteratura tedesca preparavo Thomas Mann. E gioii scoprendo che in “Morte
a Venezia”, l’autore tedesco sollevava, in altri termini, sotto un’altra
angolatura, proprio questo genere di problema: fino a che punto ci è consentito
indulgere al richiamo estetico senza ulteriori preoccupazioni? Il protagonista, Aschenbach, è un artista e,
l’artista in quanto tale è per sua natura,, per la sua naturale sensibilità, --
secondo Mann, ma del resto a rigor di logica -- è potenzialmente portato nella
vita a farsi cultore del bello per il bello; ma l’artista, quando si fa scrittore,
si assume delle responsabilità etiche che non possono essere
spensieratamente accantonate, alla fin fine conclude il romanziere tedesco.
Quindi Luchino Visconti, nel suo famoso film omonimo, dimostrava di non aver
colto – o di aver voluto fraintendere? chissà -- proprio il messaggio
fondamentale di quel racconto filosofico, trasformando il protagonista da
scrittore in musicista. Ma perché uno scrittore non è dopotutto equiparabile ad
un musicista? Perché la parola – il
solo strumento di cui si possa servire il narratore, il poeta…-- di per sé
semplice nota musicale non è, non è altrettanto duttile, non può materialmente
esserlo, visto che ogni vocabolo possiede un proprio valore semantico, un peso
specifico che, come avviene per la fisica o la chimica, non è eliminabile a
capriccio. Per quanto abilmente manipolata con fantasia, la parola ‘cane’ non
potrà mai voler dire ‘gatto’. Almeno in teoria, no. Perché…quante parole ci
vengono invece propalate dai disonesti (i sofisti, avvocati, politici…) tutti
quegli oratori (o scrittori, che Mann
giudicherebbe ‘snaturati’?) che riescono a gabbarci ben conoscendo le regole
della retorica: ben sapendo quanto fascino, quanto subdolo potere di
persuasione può autonomamente esercitare la parola come puro suono, suono vuoto,
avulso da qualunque eventuale contenuto di verità!
E qui arriviamo al dunque: da adulto, il mio terzo amore,
quello per la filosofia, critica lente da posarsi ovunque, anche sulle
insidiose bellezze della letteratura, serviva a farmi se non altro dubitare,
retrospettivamente, di quel mio primo gusto immediato per l’aspetto puramente
musicale della pagina poetica, serviva a farmi valutare più lucidamente i
rischi che esso comporta, e che altri letterati-pensatori già avevano
individuato; serviva quantomeno a farmi ridimensionare quel gusto
-- perché, è forse umanamente
impossibile privarsene del tutto senza rimpianti, e perché forse è illogico
pensare che la poesia, così come è nata, come la tradizione classica ce l’ha
consegnata, potrebbe continuare ad esistere e chiamarsi ancora poesia, anziché
qualcos’altro, quando il richiamo estetico dei ritmi e dei suoni armonicamente
ordinati venisse totalmente a mancare.
Uso congiuntivi e condizionali, come vedete. Il dubbio – l’aporeìn – da molti anni ormai mi è fedele compagno.
Ma questo mio
discorsetto introduttivo non ha fatto altro che sollevare un grande problema di
fondo con il quale la critica letteraria di ogni nazione si è sempre
misurata: Arte per l’arte? O arte per la vita? Arte come piacere puramente
estetico (evasione dalla realtà, phantasia,
ludico sperimentalismo formale fine a se stesso), o arte come impegno
etico? Tradizionalmente, e comprensibilmente, i fautori dell’arte per l’arte
sono quelli ideologicamente orientati a destra; gli altri a sinistra. Avrete intuito che la mia formazione filosofica
mi induce a privilegiare il secondo schieramento, specie in veste di scrittore
-- ma è in questa sola veste che qui mi presento. Attenzione, però. Nella mia
concezione individuale di buona letteratura rientra la creazione di opere che,
pur proponendosi come veicoli di pensiero costruttivo, devono altrettanto
essenzialmente poter procurare un piacere estetico, altrimenti vanificherebbero
il concetto stesso di arte e si ridurrebbero a pura filosofia o a propaganda
ideologica. Ovvio, direste? Non sempre, invece. Il cosiddetto realismo
socialista, con i suoi ben noti limiti nel campo dell’arte, dimostra, purtroppo
il contrario. Per me optare a favore dell’arte per la vita significa quindi
tentare di coniugare il più armonicamente possibile l’etica con l’estetica,
anzi aspirare a consustanziare la sfera del pensiero autentico con quella delle
emozioni, dei sentimenti e della fantasia, essendo io convinto che queste due
componenti della natura psichica dell’uomo – la mente e il cuore, come si tende
a definirle, anche se con schematismo un po’ troppo ‘romantico’ – dovrebbero
poter coesistere senza inutili conflitti, in misura giustamente equilibrata,
così nella creazione artistica, così nella gestione concreta sia della nostra
vita intima individuale, sia dei rapporti con il prossimo.
n
A questo tipo di considerazioni è da ricondursi
l’origine di questa silloge poetica intitolata “A testa in giù” che vi viene
proposta questa sera. Un’unica opera
articolata in due volumi, uno dei quali -- intitolato “Phantasia non Imaginatio vera” (e vorrei osservare
che questo titolo, essendo ‘sibillinamente’ concepito con quel ”non” attribuibile alternativamente al
primo come al secondo termine, in nuce
rispecchia e compendia il discorso sugli orientamenti bipolari dell’arte, e il
loro auspicabile punto di equilibrio, secondo quanto ho appena accennato)
consiste in un poema che è parte integrante del terzo capitolo del primo libro;
e che, pur rappresentando idealmente una via maestra, un punto di confluenza in
cui sboccano quasi tutte le tematiche affrontate più frammentariamente altrove
nel libro, è stato pubblicato separatamente non solo per la sua particolare
estensione, ma soprattutto in quanto bisognoso di un’ampia guida critica alla
lettura, posta in appendice al testo (e tuttavia un corredo di note di per sé
nemmeno abbastanza esplicative in fatto di ulteriori ‘polisensi’ sovrapposti, e
fra loro coincidenti anziché alternativi – dal letterale all’allegorico-morale,
fin quasi a rasentare persino l’anagogico in alcuni risvolti
salvifico-liberatori della conclusione -- da me affidati ”sotto il velame” a
un’eventuale più attenta analisi da parte del lettore).
n
Il libro, che per l’appunto è una silloge, cioè
propriamente una raccolta di poesie non prive di nessi e rimandi reciproci, è
suddiviso in diversi capitoli.
All’inizio di ogni capitolo ricompare puntualmente il logo “A testa in
giù” seguito da alcuni versetti intesi non tanto ad illustrare i contenuti del
capitolo, quanto ad indicare lo stato d’animo particolare in cui quelle liriche
sono state composte e lo spirito con cui andrebbero magari interpretate.
Il primo capitolo si distingue in quanto presenta come un campionario
diversificato dei ‘modelli’ riscontrabili nei capitoli successivi: dalla
satira, alla più scanzonata parodia, alla lirica vera e propria, fino ad una
mai disdegnata commistione di generi e di livelli stilistico-formali secondo quell’antichissima lezione medievale,
a mio giudizio intramontabile, del cosiddetto “conveniens” – in altri termini: dato un qualsiasi spunto
ispiratore, di natura ora elevata, ora basso-comica, questo andrebbe
opportunamente elaborato in un linguaggio ad esso congruente. Già ben chiara e
variamene operativa, ad esempio, in Cavalcanti, Guinizelli, Guittone…ma anche
prima, questa discriminante stilistica s’invera appieno – e non mi pare superfluo volerlo ricordare -- in
certe note pagine dantesche laddove il linguaggio non è solo un’approssimazione
al ‘difficoltoso oggetto’ da trattare, ma nientemeno che un suo perfetto
equivalente.
n
Perché “A
testa in giù”? Che cosa vorrebbe
significare questo titolo che caratterizza l’intera silloge? La poesiola che figura in quarta di copertina
è intesa ad indicare una chiave di lettura. (Leggere il testo) Quando ci si
guarda intorno da persone responsabili (con la testa sulle spalle), tante cose
sembrano non funzionare nel modo più corretto, i valori della società in cui
viviamo ci sembrano qualche volta incomprensibili o deludenti, non di rado
addirittura capovolti rispetto a quelli che secondo noi sarebbero invece
giusti; a quel punto, però, dato che non possiamo quasi nulla come singoli
individui per poter modificare le cose, o proviamo a “rovesciare” la visione di
quel mondo per ridefinirlo dal nostro punto di vista, per strappargli qualche
maschera e scoprire quanto può nascondersi dietro quelle maschere, oppure
stiamo rassegnatamente a guardarlo come lo vedono tutti quelli che a noi
sembrano fuori strada. Ho usato non casualmente il verbo sembrare -- perché,
dopotutto, chi ci assicura che abbiamo sempre ragione solo noi e gli altri solo
torto? Ecco qui un particolare di importanza cruciale, che giustifica la scelta
di quel sottotitolo: “anfibologia”. L’anfibologia è un trabocchetto verbale
generatore di equivoci, una trappola che scatta quando le parole usate assumono
dei doppi sensi, o sensi plurimi spesso incontrollabili, o quanto meno
sfumature di significato anche molto diverse da quelle che in realtà
intendevamo esprimere. Anfibolos in
greco significa propriamente “incerto” – e proprio il fattore “incertezza”,
secondo me, dovrebbe caratterizzare l’atteggiamento di chi si pone il compito
di rovesciare le cose per riesaminarle dal suo punto di vista. Più semplicemente: io oso definirmi uomo responsabile, con la
testa sulle spalle, e oso sostenere che il mondo funziona male, gira
addirittura capovolto, di modo che, per vederlo nel modo giusto, devo
rovesciarlo; ma non potrebbe darsi invece che sia io lo ‘svitato’ e siano gli
altri, quelli che io ritengo fuorviati, ad averla invece loro, la testa sulle
spalle? E che la loro visione del mondo sia dopotutto più o meno corretta e la
mia più o meno sbagliata? Ebbene questo
genere di incertezza caratterizza ideologicamente l’intera silloge – da
un capo all’altro si delinea una visione esistenziale in qualche modo
rovesciata rispetto ai valori correnti (ve lo farò osservare di volta in volta
che leggeremo alcune delle liriche), ma sempre, in ogni caso, e questo va
sottolineato, senza mai alcuna convinzione di possedere la Verità maiuscola e
assoluta, e quindi, senza nessuna presunzione totalitaria di imporre
indiscutibilmente un unico punto di vista, ma solo di sollevare dei problemi e
di proporre delle riflessioni che, anche per me, in quanto
poeta-pensatore, rimangono in definitiva aperte, allo stadio di semplici
verifiche in atto.
n
Ma consentitemi fin d’ora di segnalarvi un
genere di ironico rovesciamento, che si prefigura già in quel minuscolo
sottotitolo e che il lettore più attento constaterebbe diffuso qua e là in
tante di queste mie pagine: ecco qui, cioè, una parolina apparentemente solo
incidentale e secondaria, inserita volutamente fra parentesi, un vocabolo per
giunta difficile ed anche per questo forse trascurabile agli occhi di un
lettore superficiale -- mentre in pratica, in questo caso, a parte il senso di
“incertezza” nel valore dei giudizi, senso che abbiamo appena considerato, l’anfibologia risulterà essere il fulcro
filosofico di tutta la raccolta. Dico fulcro perché veramente centrale in
questa mia opera è la metafora della parola come onnipresente insidia
incontrollabile. In effetti la parola, squisito strumento di comunicazione
idealmente destinato a facilitare la reciproca migliore comprensione fra gli
uomini, racchiude purtroppo in sé un enorme potenziale di incomunicabilità; per
cui, paradossalmente, da ponte levatoio, può talvolta trasformarsi in un
fossato invalicabile. Specie nel poema “Phantaasia”,
questo concetto uscirà del tutto dalla sfera delle astrazioni per essere fatto
sperimentare al lettore in diretta, con la massima concretezza. Diceva
giustamente il famoso critico Lionel Trilling: “In letteratura, una cosa è
descrivere in astratto la formula chimica dell’acido solforico, un’altra è
farne provare l’effetto sulla viva pelle del lettore.”
n
Verifiche, non giudizi categorici, come ho
detto, e verifiche a due livelli: 1. sul fronte dell’etica, ossia dei
comportamenti umani in genere, una serie
di domande rivolte a me stesso prima ancora che al lettore, e 2. sul fronte
dell’estetica, cioè, in questo caso della forma poetica in
rapporto ai contenuti, ancora domande aperte, e precisamente di questo genere:
che cosa si tende a considerare migliore poesia al giorno d’oggi? Che cosa ne
pensano i critici professionisti da un lato, e il lettore comune dall’altro?
Fino a che punto i pareri coincidono su ambo i fronti? Che cosa intendono per
poesia quei numerosissimi cosiddetti poeti che oggigiorno forse un po’ troppo
facilmente prendono carta e penna e si abbandonano sempre più volentieri a una
sorta di scrittura estemporanea senza regole? Dettata da una vaga ispirazione
non meglio definibile, originale nel migliore dei casi, ma paragonabile al
frutto di un cosiddetto musicista che da orecchiante strimpelli a casaccio uno
strumento? O, se vogliamo, del pittore improvvisato che pasticcia più o meno
bene ma non sa distinguere la tecnica dell’olio da quella dell’acquerello, del
pastello, o della tempera? E un’altra domanda consequenziale: dopo quella
svolta che (non solo in Italia ma a livello europeo o transcontinentale, se
vogliamo) nel secolo scorso aveva determinato una rottura programmatica dei
poeti con la versificazione tradizionale, dopo quella scelta storicamente non
ingiustificata del resto, è tuttora indispensabile
rimanere ancorati alle stesse forme del poetare che una volta erano state
autenticamente innovative? Innovazioni sì, ma autentiche perché ponderate, a
suo tempo intraprese con ragione per cercare di abbattere determinati vincoli
artificiosi, ma tutt’altro che affidate al gusto del comporre a caso. E’ quindi
corretto voler restare vincolati ancora oggi, per altra via? Dopo
l’insegnamento di coloro che si erano correttamente battuti per un’assenza di
vincoli? Fare insomma, paradossalmente,
dell’assenza di vincoli una scelta altrettanto vincolante? Trasformare
l’anticonformismo una volta funzionale, in una prassi conformistica che oggi
può anche avere esaurito la sua buona carica, la sua primitiva fondatezza e
validità? Faccio un esempio semplice e concreto: i blue jeans
rappresentavano una scelta provocatoria nell’ambito di una contestazione
culturale più o meno giustificata alle eccessive costrizioni borghesi del
vestire, una scelta simbolica controcorrente fino a quando non sono poi
diventati una moda standard di abbigliamento; oggi come oggi l’opzione
controcorrente potrebbe essere magari rappresentata da chi, fra una massa di
individui ormai tagliati con l’accetta, tutti ugualmente vestiti con giubbotti
firmati volutamente lisi, sfilacciati, o ad arte “invecchiati” come si suol
dire, abbia eventualmente l’audacia di presentarsi provocatoriamente con
indosso il frac, il cilindro e il farfallino. Spero di aver reso chiara l’idea
e chiaro anche questo parallelo.
n
Ma fino a che punto la provocazione può
dimostrarsi utile? Cioè servire davvero a smuovere le acque, ad innescare una
qualche proficua presa di coscienza da parte di un popolo di intruppati che
dopotutto si sentano piuttosto soddisfatti e, tutto sommato, in diritto
di voler essere così come sono? Difficile rispondere in modo categorico. Chi ha
ragione? In quale misura? (LEGGERE: Le
gemelle esigenti, p. 8) Di qui una serie di verifiche di funzionalità in
questa mia silloge poetica: solo in questo preciso senso, esperimenti
condotti, in chiave provocatoria, sui piani dell’etica e dell’estetica
insieme.
La provocazione così
finalizzata come si concreta di fatto in questa mia opera?
n
Sul piano etico avviene “rovesciando”,
almeno sotto alcuni aspetti, la visione
di ciò che comunemente si chiama reale, ossia chiamando di volta in volta in
causa certe convenzioni abituali, talmente diffuse e radicate da tramutarsi in
convinzioni: verità assolute anziché relative, naturali anziché di
matrice culturale -- e in quel rovesciamento produrre una sorta di corto
circuito del passato con l’attualità, un confronto-scontro fra ciò che
sopravvive dei miti di ieri e le norme comportamentali correnti generatrici di
parecchi miti di oggi, una mitica attualità spesso fatta di cose anche
parecchio sgradevoli ma non per questo antiartistiche, posto che il vero è il bello,
per cui in quel bello che quaggiù idealmente si affida all’arte (Platone
inorridirebbe, ma pazienza) vanno dopotutto incluse anche le meno gradevoli
verità con le quali ogni scrittore responsabile, schierato sul fronte
dell’arte per la vita, non può esimersi dal fare in qualche modo i conti.
L’accostamento fra passato e presente --, e talvolta, come nel poema “Phantaasia”, la compenetrazione fra i
due elementi, -- tende a rivelarci quanto di atemporale esiste nei comportamenti
e nel funzionamento della psiche umana. Questo genere di rovesciamento,
talvolta è più evidente – ad esempio, quando ad una poesia comico-satirica
se ne contrappone un’altra che ne riprende lo spunto tematico sviluppandolo in
tono serio e spesso con un lessico diversamente appropriato. Vediamo meglio:
LEGGERE: EDEN (p. 36); EPITHALAMION
(p.97). (Leggere anche il relativo commento nella Postfazione). Vediamo ancora: PERVERSE AFFINITA’ (p.39).
Sul tema della ‘libertà’, come concetto astratto PINOCCHIO, FUGA A TRE VOCI (p.
51). ANTIFONA (p.52)
n
E, soprattutto, in queste forme di rovesciamento
vediamo rispecchiarsi, in concreto,
una costante sospensione del giudizio – come sarebbe “in concreto”? Anzitutto,
abbastanza chiaramente attraverso la presenza
controbilanciata delle tesi e delle antitesi; ma non solo, anche attraverso
il recupero della satira e attraverso l’uso dell’ironia. Vediamo anzitutto la
satira, un mio particolare concetto di satira: il genere veniva
tradizionalmente associato al motto “castigat
ridendo mores”. Ma quel verbo “castigare” implica pur sempre la sfumatura
di un giudizio morale che, con i mezzi artistici suddetti, io dimostro
essere estraneo ai miei principi; quindi il recupero della satira per me
avviene soltanto all’insegna di quel ridendo – verbo che peraltro vi
pregherei di ricollegare a quel concetto di ‘apatheia’ che prima vi ho illustrato: cioè a quel saggio bisogno di
proiettarsi al di fuori della realtà per guardarsi ogni tanto dall’esterno come
spettatori di se stessi, e con sufficiente autoironia
sorridere di se stessi prima ancora che degli altri; e poter quindi ridere
senza malanimo in quanto, se si astrae dal giudizio morale, ci si sente parte
inscindibile di quel mondo chiamato in causa, non orgogliosamente migliori,
non presuntuosamente al di sopra della comune umanità. E questo mio
atteggiamento si rivela, d’altra parte, anche ad opera dell’ironia, ora più
ridanciana, ora più sottilmente amara, ma non gratuita: insopprimibile
piuttosto, se la si recepisce come sintomo di un pensiero debole che in fondo
la consente: ironia di un pensiero che ideologicamente ha imparato ad accontentarsi di mezze verità. Vattimo, direste? No, no: ancora il mio amato “fanciullo”
Keats, che alla giovanissima età di ventanni, in una famosa lettera al più
maturo poeta Coleridge (converrebbe andarselo a leggere, quello scritto)
dimostrava di aver già capito tante cose sagge e umanamente utili.
n
Talvolta il rovesciamento è meno esplicito,
ma pur sempre rilevabile, e ve lo
segnalerò con poche parole di mano in mano che ascolterete le varie
liriche. Questa serie di poesie è tratta
dagli ultimi capitoli del libro, in cui alla precedente vena satirica e ludica
si sostituisce un atteggiamento meditativo, non meno amaro, talvolta ancora ironico
ma senza residui risvolti di giocosità. ASCOLTIAMO: Fuochi (p.88); In un’ostrica (p.96); In vita
(p. 86); Angeli di suburra (p.86) da collegarsi con Lume non conoscevo (p.106);
Sulla Strada (p.82) da collegarsi con Affetti (p.94)
n
Sul piano estetico la provocazione
funziona controcorrente in questo modo: 1. anzitutto perché comporta la
riproposta di una versificazione all’antica, per così dire, in cui ritrovano
una collocazione non casuale se non altro i ritmi e le cadenze musicali
ricollegabili all’uso della metrica classica (ma le generazioni odierne si
nutrono di ritmo – perché non volerglielo offrire anche in poesia dove si sono disabituate al gusto di cercarlo? mentre, al
tempo stesso, sono portati a definire ‘poesia’ banalissimi testi di canzonette
dove di formalmente ‘poetico’ ormai non rimane altro che uno spruzzo di ‘rime’
occasionali, spesso tirate per i capelli?); secondariamente perché comporta un
ritorno all’uso della punteggiatura ormai
eliminata da tempo nella scrittura poetica; in terzo luogo perché si
contrappone al diffuso concetto moderno di poesia come genere quasi
esclusivamente lirico-confessionale, e come composizione necessariamente breve,
la cui eventuale qualità poetica si riduce ad un lessico semanticamente vago,
impreciso, di sapore ricercatamente impressionistico, e all’accostamento di
immagini talvolta anche originali ed efficaci, ma il più delle volte isolate,
fra loro dissociate, senza nessi facilmente individuabili come tasselli da
poter riordinare nel quadro di un messaggio unitario compiuto. E’ giusto
così’? E’ giusto solo ed esclusivamente
così, mi sono chiesto io componendo questo mio lavoro e scegliendo
coerentemente un mio metodo di lavoro. Il filosofo Luigi Pareyson, maestro di
estetica, affermava che “l’opera d’arte si costruisce secondo una norma
che essa stessa inventa.” Ma è il
termine ‘norma’ che non va sottovalutato: ogni artista dovrebbe darsi – diciamo
pure ‘inventarsi’ - una propria legge e poi saperla rispettare, non operare a
caso. E’ il rispetto coerente di quella norma prescelta che si traduce nello sfraghìs, nell’insieme di stilemi
fondamentali che caratterizzano i vari artisti (Leopardi, Pascoli…Beethoven,
Bach, Chopin…Degas, Modigliani, Van Gogh…ognuno poeta, musicista, pittore, ecc.
ha i propri stilemi preferiti sempre ricorrenti) e sono proprio quegli stilemi
individualissimi a contraddistinguerli, a renderceli immediatamente
riconoscibili e inconfondibili anche quando, in giusto ossequio al “conveniens” di cui dicevo, adeguano
magari le modalità espressive ai differenti contenuti delle loro opere (si
pensi, poniamo, al Pascoli lirico di Myricae
e lo si contrapponga all’autore dei Poemi
Conviviali…e poi ancora a quello dei Nuovi
Poemetti: forse che, da qualche parte, pur variando di volta in volta le
finalità del messaggio poetico da comunicare, vi si rende meno chiara una sola,
identica, immutabile specificità delle
soluzioni formali privilegiate da uno
stesso Artista?)
n
E sotto il profilo estetico, l’aspetto più
scopertamente ironico della provocazione come si manifesta in questa
silloge? Ebbene mediante l’abuso, il recupero per eccesso in
varie direzioni -- ad esempio, dalla concisione oggi abituale in poesia, al
componimento più lungo e talvolta articolato fino a rasentare addirittura la
verbosità; dall’assenza totale di punteggiatura ad un utilizzo esuberante della stessa: con tanti, ma
tanti punti esclamativi, e non solo singoli ma addirittura tripli!!!, ed
altrettanti puntini di sospensione…. sparpagliati ovunque -- per non citare che
i due segni di interpunzione maggiormente caduti in disuso - e, non senza
alcuni buoni motivi per la verità, deplorati oggigiorno dalla critica
letteraria. LEGGIAMO questa poesia - APOSTROFE DI UN PENNINO (p. 10) - che si
propone come palpabile autoironia dell’autore sulle proprie pur sempre
discutibili scelte stilistiche. Non è il
solo caso nel libro, ma valga come esempio (ricordare anche il significato
diverso del ‘punto e virgola’con valore interrogativo in lingua greca, prima
di iniziare la lettura)
n
Ma, d’altra parte, queste forme di punteggiatura
straripante in alcune pagine del libro non sono ironia arbitraria – per
temperamento, lo avrete capito, io detesto l’assenza di motivazioni -- e non
costituiscono un capriccio della fantasia perché, insieme alle vocali toniche
graficamente allungate, appartengono
normalmente invece a un tipo di letteratura che in qualche modo piace, e di cui persino certi raffinati intellettuali
(Umberto Eco, in primis) si dichiarano lettori entusiasti – sto parlando del fumetto. Senza alcuna ironia, Eco ardiva asserire:
“Ormai si producono fumetti di così alto livello qualitativo che possono essere
interpretati solo da gente che ha letto Joyce…”
n
Un vero e proprio mito moderno, quindi, quello
del fumetto: un altro mito da sottoporre a verifica. (Non a caso anche le illustrazioni di carattere spiccatamente
“fumettistico”, sparse a piene mani all’interno del libro, vorrebbero essere
una sorta di ammiccamento al lettore più accorto). E’ un disvalore assoluto? Una letteratura di sottordine?
Tanti divoratori di fumetti probabilmente non sarebbero d’accordo. In che
misura hanno torto o ragione? Ecco allora il corto circuito strumentale, ecco
la commistione provocatoria fra il calco
classico del verso in metrica e la grafia fumettistica -- una scrittura del
resto non priva di espressività se si concepisce un testo in termini di
colloquialità teatrale, o meglio di mimesi totale della parlata corrente, ivi
compresi gli ormai comuni influssi del gergo e del turpiloquio. LEGGERE: ARRAMPICATORI
IN CADUTA LIBERA (p. 21)
n
Questo episodio, qui fonosimbolicamente affidato
ad un flusso vorticoso di decasillabi anapestici, per strampalato e
inverosimile che possa sembrare, vi garantisco che appartiene alla realtà vissuta - una realtà quotidiana
capace di fornire spunti più fantastici della più sbrigliata fantasia; ma, come
dicevo, nel ‘vero’dell’arte non c’è
soltanto il bello…magari! Fra le cose tristemente
vere ci sono anche la malignità, la malafede, il calcolo interessato, la
slealtà dei cosiddetti amici...e tante altre cosacce, davvero poco ‘belle’,
talvolta così sottilmente contorte e perverse da essere quasi inimmaginabili. Forse
nemmeno tutte quante precisamente inquadrabili nella meticolosa strutturazione
dantesca dell’Inferno.
n
Passiamo al poema. Pochi cenni soltanto, perché
da solo il commento approfondito di quel testo richiederebbe ben altri tempi di
presentazione.
n
Nei
componimenti di taglio teatrale – se si esclude Pinocchio (“Fuga a tre
Voci”), sono quattro scenette, riunite
nel secondo capitolo – si preannunciano certe movenze ritmiche e soluzioni
grafiche che, nei contenuti del poema, si realizzeranno seguendo i canoni della
letteratura carnevalizzata. Che cosa significa? A Carnevale i travestimenti
scelti non sono mai del tutto gratuiti; gli psicologi ci insegnano che, il più
delle volte, approfittando del fatto che a Carnevale ogni scherzo vale,
tendiamo a sceglierci una maschera che ci permetta di estrinsecare impunemente
in pubblico dei desideri inconsci, delle pulsioni intime nascoste che
normalmente non oseremmo rivelare, di essere insomma noi stessi senza il timore
di essere creduti veramente tali ed essere di conseguenza giudicati. Questo concetto, applicato alla letteratura
ha una lunga tradizione internazionale alle spalle (il critico Michail Bachtin si è notoriamente occupato a fondo di
questo argomento particolare); e, in questa mia silloge, l’uso della carnevalizzazione emerge più
chiaramente che altrove, come dicevo, nel poema intitolato “Phantasia non
Imaginatio Vera” – dove la favola di Cappucetto Rosso viene rivisitata a
rovescio, presentandoci una bambina
tipicamente moderna, precocemente emancipata eppure non del tutto libera
interiormente, condizionata da una madre oppressiva e repressiva, gelosamente
possessiva (Ricordate, per contrasto la poesia sui cani, intitolata ‘Sulla
strada? E l’altra intitolata ‘Affetti’?) una bambina, dicevo, alle prese con un
lupo- non-lupo, ossia con un lupo buono, un lupo amico che non ha intenzione di
divorarla in senso metaforico, cioè possederla carnalmente come lei dal
caratteristico lupo malvagio delle favole si aspetterebbe: un lupo di
conseguenza “incredibile”, e che a lei sembra tanto più un ipocrita, un furbo
seduttore, un sofista menzognero quanto più lui tenta di rassicurarla affermando
di essere onesto, del tutto sincero in quello che le dice -- un lupo che addirittura si traveste da nonna con il
consenso della nonna stessa, e lo fa con la speranza di poter così avvicinare
la giovane senza spaventarla, senza farla stupidamente fuggire prima di
averla liberata dai suoi preconcetti;
con la speranza, in altri termini, di poter amorevolmente instaurare con lei un
dialogo costruttivo, e così cercare di dimostrarle in pratica – ma inutilmente,
purtroppo, -- che la storia del lupo ad ogni costo cattivo è una favola, è
“phantasia”, è una fisima umana, un pericoloso falso immaginare come un altro, una delle infinite etichette
convenzionali negative in quanto troppo generalizzanti, fondate su una
stereotipata logica di comodo alla fin fine ingannevole e sempre ingiusta
poiché ognuno nella vita dovrebbe avere il diritto di farsi valutare per quello
che è, per quello che vale come singolo individuo con i suoi pregi e difetti
strettamente personali, anziché in base ad una categoria concettuale astratta
(il lupo, come dire il negro, l’ebreo, la prostituta, il drogato…ma anche,
all’opposto, il re, la principessa, il nobiluomo, il reverendo, e chi più ne ha
più ne metta.), uno schema di riferimento concettuale nel quale l’individuo
viene semplicisticamente e falsamente incasellato, giudicato e liquidato a
prescindere dai suoi effettivi difetti o pregi personali, e spesso in base a
pregiudizi sociali di per sé moralmente discutibili.
n
Il Lupo, tradizionale simbolo di assoluta
libertà (così lo dipingeva anche La Fontaine) in questo caso diviene anche
combattivo fautore e promotore di libertà nei confronti della bambina. Libertà da che cosa? In special modo dalle
insidie di quel falso immaginare che
rifiuta la razionalità del pensiero
autentico – in sostanza quel voler
credere, preferire di credere vero o
possibile o giusto ciò che non lo è: una comoda fuga dal voler pensare che in ogni settore
dell’esistenza ci fa cadere vittime di pericolosi autoinganni, o ci rende
propensi ad accettare e vivere il male con strafottenza, fino a farcelo
praticare ‘banalmente’ (per usare un termine molto calzante, caro ad Hannah
Arendt), attribuendone semplicemente la colpa ad un ineluttabile superiore destino
storico-sociale, piuttosto che alle nostre stesse mancanze personali. La stessa
Arendt asseriva: “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista o
il comunista convinto, è l’individuo per la cui coscienza ogni distinzione fra
realtà e finzione, fra vero e falso, ha smesso di esistere.” [Non a caso il Lupo-filosofo-pedagogo
del poema vorrà quindi insistere fino all’esaurimento nel tentativo di
insegnare alla Bambina a non confondere mai il “credere” (immaginare, supporre superficialmente) con il “pensare” (trarre conclusioni
razionalmente fondate e pertanto giustificabili)].
n
E fra le trappole che ci vengono tese dal falso
immaginare, e lo assecondano, figura in primo piano l’uso della parola
umana: quella parola che l’animale non possiede e di cui l’uomo spesso
si serve come strumento di inganno
finalizzato al potere. La parola è per
sua natura veicolo di ambiguità, negativa su vari fronti – su questo spunto
tematico ci siamo già soffermati. Un
esempio di parola eminentemente ambigua è la parola ‘amore’. Designa
indistintamente la bruta attrazione dei sensi come il più sublime e ascetico
impulso dello spirito, tipico ad esempio della carità verso il fratello
predicata da Cristo, mentre, al tempo stesso infinite sfumature sentimentali
intermedie rimangono racchiuse in un solo vocabolo. Questo Lupo animalescamente
onesto dice pari pari alla bambina di ‘amarla’: e in realtà intende così
esprimere correttamente un suo sentimento superiore di amichevole benevolenza
disinteressata e di tenace dedizione altruistica che Amore, quando rivendica
l’iniziale maiuscola, in effetti possiede. Ma la parola stessa non essendo
univoca nei suoi significati, induce ad una serie di comprensibili equivoci –
spesso tragicomici, in questo poema. Da animale incapace di mentire, il Lupo
rimane profondamente deluso dal fatto che, durante il suo colloquio con la Bambina,
non sia dopotutto riuscito a far coincidere la parola umana con il messaggio
veritiero che egli intendeva trasmettere. Sconfitto, corre a piangere dalla Nonna
che lo ha ammaestrato, anzi acculturato, e che gli ha colpevolmente insegnato
ad usare un mezzo di comunicazione che lui ha finalmente scoperto inutile
perché troppo ingannevole, troppo diverso da quello che si era illuso che
fosse. E allora smette di parlare, si limita ad ascoltare le parole suadenti
della Nonna in assoluto silenzio, tornando ad essere volentieri solo muto
animale, quasi temesse di compromettersi, di svilirsi ancora con una parola che
non è la sua e che lo ha tradito. Sentiamo che cosa gli dice di bello la Nonna
a questo punto sulla parola Amore, parlandogli con saggezza, ma anche con il
tono di una madre spirituale che prenda coscienza di un errore di giudizio nei
riguardi dell’educazione impartita ad una propria creatura, e che, seppure
forse tardivamente, vorrebbe porre rimedio mettendo in guardia il ‘figlio’
contro ulteriori possibilità di sofferenza. ( LEGGERE: dal ‘Monologo della Nonna’ - p. 78-79) Ma, da ultimo, ancora una volta
ammaliato dalla ‘parola umana’ molto abilmente gestita dalla Nonna (in buona
parte con reale commozione e sincerità di sentimenti ‘materni’, seppure al
tempo stesso, quasi di pari passo, con una tendenziosa dialettica e una
consumata astuzia femminea che al Lupo ancora sfugge), finirà per abbandonarsi
ciecamente fra le braccia concupiscenti della vecchia, ingenuamente conquistato
e soggiogato come può esserlo un qualsiasi animale pur sempre indifeso di
fronte alle infinite, incommensurabili risorse dell’ingegno umano. Una svolta
narrativa in apparenza solo grottesca, eppure anch’essa in linea con una
precisa tesi di fondo: la drammatica contrapposizione fra l’umano e
l’animalesco, fra la Parola come arma potenzialmente carica di insidie e
infingimenti in possesso dell’Homo Sapiens, e l’assoluta incapacità di
doppiezza - e di difesa dalla malafede - da parte di chi, in natura e per sua
intima costituzione spirituale, quell’infido strumento di comunicazione non lo
conosce, né per determinati scopi men che lineari saprebbe usarlo.
n
Credo perciò che, da parte di certi lettori,
piuttosto correttamente si siano individuati nella sostanziale
caratterizzazione di questo Lupo, e nello sviluppo della vicenda narrata,
alcuni larvati richiami di matrice ‘cristologica’. Ma è anche a questo genere
di più o meno occulte allusività che mi
riferivo poc’anzi parlando di spunti di riflessione da volersi ricercare “sotto
il velame de li versi strani”. E di versi strani,
in questo poemetto nel suo complesso in apparenza forse soltanto strano – anzi magari giudicabile come
decisamente assurdo, addirittura ‘eretico’, sia per l’insolita e audace mescidanza
di forme letterarie in cui si articola, sia per il modo quanto meno eterodosso
con cui vengono riaffabulati e attualizzati i miti di Fedra/Ippolito, del
Minotauro Asterio, e via discorrendo --
ce ne sono sicuramente molti più di quanti io abbia scelto di delucidare
nell’appendice di note da me redatte ad uso del lettore.
n
Un altro quesito ricorrente nel libro: assoluta libertà individuale? E’ di per sé concepibile? è un traguardo
davvero raggiungibile? Proviamo a creare dei nessi con le poesie già esaminate:
la Volpe e il Gatto gridavano maliziosamente a Pinocchio (fiero di essere ormai
divenuto bambino in carne ed ossa, e – secondo lui -- essersi saputo finalmente
liberare dall’autorità despotica del ‘burattinaio’ Geppetto) che, fra gli umani
la conquista definitiva della libertà personale è una vana illusione; il
pappagallo in gabbia, dal canto suo, suggeriva che il possesso astratto di una libertà interiore forse per tutti gli
esseri viventi rimane una dolceamara, assai magra consolazione; qui, nel poema,
la Nonna conclude con un’affermazione discutibile poiché ben difficilmente,
quando si è degli schiavi condannati a morte, si può avere la facoltà di
scegliere di che morte voler morire. Allora?
ci rimane forse un’altra via d’uscita? Forse quella di augurarci perlomeno di
poter impedire a chi ci tiene in pugno, di godere per giunta del nostro
stato di soggezione e della nostra morte spirituale. Vorrei quindi accomiatarmi da voi con una
lirica – una preghiera laica, si potrebbe dire -- che cerca di esprimere
attraverso un’immagine eloquente questo sofferto, estremo desiderio di fuga
dalla tirannia: la legittima, estrema rivendicazione da parte di qualunque
essere umano che, con un sussulto di amor proprio, voglia salvaguardare intatto
perlomeno un piccolo lembo di quella essenziale dignità di cui si viene
spogliati quando la libertà ci viene sottratta con la violenza, sia questa perpetrata con deliberato malanimo o con
incoscienza non meno folle e colpevole.
Leggere: NON SIA CHE UNA BUGIA
(p.104). (Spiegare bene la nota
prima di leggere - ossia la ricercata ambivalenza semantica del termine
“bugia”: soffione/menzogna).
n
Se ce ne fosse eventualmente bisogno, vorrei
assicurarvi che questi due volumi in cui si articola “A testa in giù” non sono
il frutto di fredde deliberazioni teoriche assunte a tavolino. L’idea di una
raccolta unitaria, come l’idea di una disposizione simmetrica delle liriche
all’interno della raccolta stessa, sono nate per caso a posteriori. Ciascuno di
questi componimenti rispecchia un momento a sé, uno stralcio di vita
effettivamente, dolorosamente vissuta. Ogni pensiero, in qualsiasi campo esso
si affacci e a qualsiasi altro pensiero eventualmente si riallacci, non
rappresenta mai per me un teorema, un arido filosofema -- mi vibra dentro e
spesso mi lacera, come un profondo sussulto dell’anima. Mi auguro di avervi
illustrato abbastanza con quanta passione io viva ideologicamente la virtù
etica e come invece il virtuosismo estetico, con tutti i suoi rischi, sia da me
considerato nel migliore dei casi un valore del tutto strumentale. Da parte dei
recensori, non c’è quindi niente che mi rattristi maggiormente dei giudizi
affrettati e miopi in questo senso. Però, vedete le parole? Virtù e
virtuosismo, l’etimo è identico ma i derivati approdano a concetti fra loro
così diversi! Insomma in ognuno di noi, io credo, c’è tanto sentimento che ama
dissimularsi per pudore, c’è tanta amarezza che si nasconde dietro un riso in
apparenza solo spensierato o persino frivolo – dietro la fragorosa risata che,
in pubblico, il pagliaccio del melodramma si impone di simulare per poter
mascherare il pianto che gli stringe la gola.
Non credo che si possa fare dell’arte per la vita se non partendo
direttamente dalla vita stessa, da concrete esperienze di vita intimamente sofferte,
da profonde emozioni che si fanno pensiero, e da pensieri divenuti per questa
via talmente intensi da esigere un’espressione poetica che li trascenda, tenti
emotivamente di purificarli ed esorcizzarli.
Gli spunti tematici, per quanto fantasiosi possano talvolta sembrare,
sono immancabilmente radicati nella realtà, una realtà non sempre piacevole,
anzi…e derivano anche dalla mia tendenza a guardarmi intorno dovunque, con una
curiosità insaziabile che tuttavia non è semplice interesse culturale, ma
bisogno di totale partecipazione. E
si comincia a partecipare imparando umanamente a non estraniarsi, ad aguzzare
la vista e tendere l’orecchio dappertutto – immergendosi attivamente, con
spirito sveglio, nel magma del vivere quotidiano, nelle sue clamorose
contraddizioni, affrontando senza falsi pudori perbenistici quelle zone
d’ombra, reali o immaginarie, che andrebbero attraversate con coraggio anziché
evitate come se non esistessero. E’ la volontaria avventura per certi vicoli
bui che ci consente dopotutto di avvicinarci con maggiore coscienza al
significato ultimo della luce. Vivere
per partecipare, quindi; ma partecipare non senza riflettere; e
riflettere per conoscere genuinamente, ossia per poter acquisire una
gnosi integrale che ben difficilmente si realizza con il solo supporto della
ragione, con la fredda disciplina dello scienziato, bensì esplorando con il cuore/intelletto,
il labirinto della propria coscienza.
Coscienza maiuscola, però: intimo specchio, questa, del rapporto più o meno
maturo, più o meno autentico, più o meno
proficuo, che si sia stati in grado di instaurare fra la propria vita ‘attiva’
e quella ‘contemplativa’ che dovrebbe rappresentarne lo sbocco naturale; e
quindi, nel tortuoso percorso di quel labirinto, osando ripetutamente fermarsi
a dialogare a tu per tu con l’ambiguo Minotauro che vi sta insediato.
Grazie per la paziente attenzione. Nel concludere, desidererei tuttavia poter
fare mia una dichiarazione di Massimo Bontempelli e girarvela con un umile
invito implicito. “Lei scrive per se stesso, o per essere letto?” gli chiedeva
un giornalista. E lui: “Anzitutto per me stesso e poi per essere…riletto.”
Roberto Di Pietro - 2002
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